Ho trovato questa biografia di Sant’Antonio è stata scritta da P. Pietro Rossi francescano, mi è sembrata esaustiva e voglio riproporvela per illustrarvi la vita del Santo.
PRESENTAZIONE
Carissimo,Sant’Antonio visse 36 anni, dal 18 agosto 1195 al 13 giugno 1231, ed è considerato da tutti un fenomeno unico al mondo per imponenza, universalità e perennità. Gregorio IX lo ha proclamato: «Arca dell’Antico Testamento» e «Scrigno delle Sacre Scritture». Leone XIII lo ha definito: «Il Santo di tutto il mondo». La tradizione popolare lo ha sempre chiamato: «Martello degli eretici» e «Santo dei miracoli».
questo libretto è stato scritto per te, giovane o adulto che tu sia. Forse è la prima volta che leggi qualche pagina su S. Antonio. Sarà per te una scoperta. Ti viene offerta l’occasione di conoscere il Santo di Padova: sarà l’amico sincero che da tempo, forse inconsciamente, desideravi conoscere. Sappi che la devozione a S. Antonio è diffusa non solo tra i cattolici, ma è viva anche tra i non cristiani, perfino tra i musulmani, che sono i più restii verso le altre religioni. Non di rado mi capita di vedere entrare nella mia chiesa qualche musulmano, dirigersi alla statua di S. Antonio e prostrarsi in preghiera. C’è stato chi è ritornato dopo qualche giorno, per informarmi di avere ricevuto la grazia richiesta. Fratello, ho cercato di proporti la vita del Santo con semplicità di linguaggio attenendomi fedelmente alle fonti sicure della storia e della tradizione, perché la sua figura risaltasse viva e palpitante. Mi auguro che queste pagine ti aiutino a scoprire l’ideale e l’anima del «tuo» Santo. Se riuscirò a raggiungere in qualche modo questo scopo, mi sentirò sufficientemente ripagato della modesta fatica compiuta.
Nobiltà delle origini - Nacque a Lisbona, da famiglia appartenente all’aristocrazia militare e terriera. Il padre, Martino di Buglione, si diceva apparentato con l’eroe della prima crociata, Guglielmo di Buglione, il liberatore del santo Sepolcro; la madre, Teresa Taveira, era pure di nobile casato. Al battesimo gli fu imposto il nome di Fernando, nome allora molto diffuso in Portogallo, in particolare tra le classi socialmente più elevate.
Vicino al Signore Il demonio lo insidia - Il demonio non poteva tollerare la pietà e il candore innocente del piccolo Fernando; per questo cercava in ogni modo di disturbarlo. Un giorno il fanciullo dopo avere servito la messa, si era intrattenuto in chiesa tutto solo, davanti all’altare della Madonna, per un ultimo saluto. All’improvviso si sentì come avvolto da una nuvola nera e una voce roca gli sussurrava parole oscene: capì che era la voce del demonio. Ricordò subito le parole della mamma: «Nei momenti di pericolo, invoca la Madonna e fa il segno della croce!». Senza esitare, tracciò col dito un segno di croce sul gradino di marmo, sul quale era inginocchiato e il demonio, confuso, fuggi.
Una decisione eroica - Giunto all’età di sedici anni, Fernando decise di consacrarsi a Dio.
Un mattino, senza manifestare ad alcuno la sua decisione, si incamminò verso il monastero dei canonici regolari di S. Agostino, alle porte di Lisbona e chiese di esservi accolto. L’abate, che già conosceva le virtù del giovane, lo accolse paternamente e lo rivestì subito, dell’abito dei canonici regolari.
La reazione dei parenti - La notizia della scelta di Fernando destò grandi meraviglie: i buoni approvarono ammirati; i mondani considerarono la sua decisione una pazzia. I parenti delusi, si recarono al monastero per convincerlo a desistere e a ritornare sui suoi passi. Ma tutto fu inutile. Fernando fu irremovibile; anzi per liberarsi da ogni pressione, pregò il suo abate di trasferirlo in un monastero lontano da Lisbona. L’abate l’accontentò e lo trasferì a Coimbra, nel monastero di Santa Croce.
Notizia inaspettata - Nel febbraio 1220, in tutto il Portogallo, si era diffusa la notizia dell’uccisione in Marocco, di cinque frati francescani. Erano morti per la fede: arrestati dai musulmani mentre predicavano il Vangelo, dopo inauditi tormenti, erano stati barbaramente uccisi. La notizia impressionò profondamente Fernando. Le spoglie dei martiri, sottratte alla profanazione musulmana, furono trasportate in Portogallo e sepolte proprio nella chiesa del monastero di Santa Croce in Coimbra.
Crisi profonda - Fernando passava ore e ore, di giorno e di notte, inginocchiato presso le tombe dei cinque martiri. Mentre pregava, strano a dirsi, invece di pace interiore provava nel cuore un profondo turbamento: invidiava la loro sorte. Si sentiva spinto interiormente a vivere una vita più austera, a servire Cristo Gesù in povertà e letizia e magari, conquistare la palma del martirio come loro. Fernando ormai era in crisi: una crisi di identità, si direbbe oggi.
L’ideale francescano lo affascina - Un giorno bussarono alla porta del monastero due frati francescani per chiedere un pezzo di pane per amore di Dio, non avendo di che cibarsi. Erano vestiti poveramente, con i fianchi cinti da una ruvida corda e i piedi scalzi. Erano semplici, privi di istruzione, eppure nel loro sguardo e nelle loro parole era riflessa la luce della fede e tanto calore di carità da impressionare e commuovere. I loro volti da asceti, sembravano estranei a tutte le cose del mondo. Fernando li ascoltò con amore e ne fu conquistato.
Decide di farsi frate - Si informò della loro Regola e degli scopi del loro Ordine. Appena seppe che il frate Fondatore S. Francesco, desiderava che i suoi frati andassero missionari in Africa, decise di abbracciare il loro ideale. Andò dal suo priore e lo supplicò di concedergli il beneplacito. Il priore, con profondo rammarico, glielo concesse.
Fernando diventa Antonio - Quando Fernando varcò la soglia del convento francescano per abbracciare la nuova vita, i frati non potevano credere a quanto stava avvenendo: un ricco agostiniano abbandonava lo splendore del suo monastero per abitare in una misera capanna. Lasciava la compagnia dotta e signorile dei suo confratelli, per unirsi a dei frati poveri, rozzi e malvestiti… Eppure era realtà! Fernando depose la veste bianca degli agostiniani per vestire la povera tonaca francescana e cambiò il suo nome in quello di Antonio. Sete di martirio - Antonio abbracciando l’Ordine Francescano, aveva posto come condizione di potere affrontare il martirio, andando tra gli infedeli a portare il lieto annuncio sulle orme dei cinque confratelli protomartiri. Il consenso dei superiori non poteva mancare; gli venne concesso dal Ministro della Provincia francescana di S. Giacomo. Fu per Antonio motivo di grande gioia: poteva finalmente realizzare il suo più grande sogno.
Parte missionario in Africa – I confratelli appena seppero che Antonio partiva missionario in Africa, provarono un grande dolore e nello stesso tempo, una santa invidia per non poterlo affiancare nella sua missione. Uno solo ebbe la fortuna di accompagnarlo: fra Filippino di Montalcino di Toscana. Prima di partire Antonio abbracciò i confratelli, uno ad uno; poi si accomiatò da loro chiedendo la carità della preghiera.
Amara delusione - Il viaggio fu lungo e faticoso. Antonio era sostenuto dall’ansia di arrivare presto: laggiù avrebbe potuto predicare il Vangelo ai seguaci di Maometto e, chissà, concludere la vita col martirio. Ma l’attendeva un’amara delusione. Quando toccò la terra d’Africa, si sentì debole e sfinito; pensava che un po’ di riposo sarebbe stato sufficiente per riprendersi, ma, poco dopo, fu colpito da febbre malarica. Così, invece di predicare il Vangelo, fu costretto a stare per lunghi giorni su di un povero giaciglio, al buio, a battere i denti. Era il fallimento del suo sogno generoso di apostolato e di martirio.
I disegni della provvidenza - Ora ad Antonio non restava che una via: arrendersi alla volontà di Dio e ritornare in patria. Ad un carattere ardente come il suo, questo costava molto… ma non si ribellò. Nella primavera del 1221, riprese la via del ritorno. Ma Dio era ancora sulla sua strada. Difatti, invece di approdare in Portogallo, una violenta tempesta costrinse la nave a dirottare sulle coste della Sicilia.
Verso Assisi - In Sicilia rimase poche settimane. Poi riprese il cammino verso Assisi, per partecipare al Capitolo generale dell’Ordine. Ad Assisi trovò un esercito di «cavalieri di Cristo» accampati attorno alla chiesetta di Santa Maria degli Angeli, divisi a gruppi, «dove quaranta, dove cento, dove dugento, dove trecento insieme; tutti occupati solamente a ragionare di Dio». Antonio potè «immergersi», in questa moltitudine di fratelli e con essi pregare e lodare il Signore.
Incontra S. Francesco - Fu in questo capitolo che egli incontrò S. Francesco; fu per lui un’esperienza meravigliosa. Non si erano mai visti, ma avevano una storia tanto simile: entrambi erano stati giovani e ricchi, avevano sognato imprese militari e, alla fine, avevano abbandonato tutto per abbracciare una vita di povertà. Che cosa si dissero in quell’incontro gli storici non ce l’hanno tramandato. È certo, che Antonio rimase vivamente impressionato nel vedere e ascoltare il Poverello d’Assisi.
Dimenticato da tutti - Alla fine del Capitolo ad ogni frate venne assegnato un ufficio da svolgere e un convento dove abitare. Antonio era entrato da poco nell’Ordine ed era sconosciuto, perciò nessuno si accorse di lui. Se ne stava appartato e silenzioso quando, il P. Provinciale della Romagna, frate Graziano, l’avvicinò e leggendogli nel cuore, gli chiese: Da dove vieni? - Dal Portogallo, rispose Antonio. Sei sacerdote? - Sì!. A quale convento sei destinato? - Per ora a nessuno. Vuoi venire con me in Romagna? A Montepaolo c’è un eremo, con un gruppetto di fratelli religiosi. Potrai dedicarti alla vita eremitica e celebrare per loro la messa. Sono certo che ti troverai bene! Frate Antonio accettò.
Montepaolo lo attende - L’eremo di Montepaolo si trova su di una collina, a oltre 400 m. di altezza, a una quindicina di Km. da Castrocaro Terme. È circondato da una selva di faggi, elci e querce. Allora, era abitato da sei frati laici che vivevano nel silenzio e nella preghiera. Nel cuore della foresta, vi erano grotte e tuguri sparsi un po’ ovunque, ove i frati si ritiravano per ritemprare lo spirito, nell’intima unione con Dio. Insomma: Montepaolo era uno di quegli eremi, tanto cari a S. Francesco, per i quali aveva scritto anche una Regola.
Immerso nel silenzio - Lassù, frate Antonio, divenuto eremita per volontà dei suoi superiori, si sentiva veramente felice. Il mattino celebrava la santa Messa per i suoi confratelli, poi li aiutava negli umili servizi di casa. I confratelli avrebbero voluto che egli non scopasse e non lavasse le scodelle: - Tu sei sacerdote, gli dicevano, i lavori più umili lasciali fare a noi! Ma, Antonio desiderava rendersi utile.
Una splendida grotta - Un giorno, i confratelli lo videro ritornare dalla selva con gli occhi pieni di gioia. - Che ti succede?, gli chiesero stupiti. - Ho trovato, nella selva, una splendida grotta. Oh se fosse tutta mia! Sapeste, come vi si prega bene! - Ti piace davvero, Antonio? Te la cediamo volontieri! - Grazie, fratelli!. Ogni giorno Antonio si rifugiava nella «sua» grotta, con un pezzo di pane e una brocca d’acqua; poi si immergeva nel silenzio, rotto solo dal fruscio delle foglie e dal canto degli uccelli. Qui passava ore di paradiso.
Gesù lo accarezza - Nella grotta si verificò un fatto straordinario. Mentre il Santo era assorto in preghiera, gli apparve Gesù, sotto forma di Bambino. Narrano i biografi che «la grotta si riempì di luce e il Bambinello si posò dolcemente sulle sue braccia… Egli lo accarezzava, lo baciava e non cessava mai di contemplare il suo volto».
Ore di paradiso - La cara solitudine permetteva ad Antonio di «dialogare» con Dio: suo unico bene. Egli aveva Dio nel cuore e nella mente. Lo intravvedeva nel verde dei boschi, lo contemplava nelle aurore e nei tramonti… Gli sembrava di essere già in paradiso. Solo gli angeli potrebbero raccontare i misteri, i sospiri, le lacrime, le fervide preghiere, le estasi deliziose e nello stesso tempo i digiuni e le astinenze, di cui fu teatro la piccola grotta.
Scende a Forlì - Un mattino il frate più anziano avvicinò Antonio e lo invitò a prepararsi per scendere a Forlì. - Il Padre Provinciale desidera che tutti noi ci rechiamo a Forlì, dove alcuni nostri confratelli e frati domenicani riceveranno l’ordinanza sacerdotale. - Vengo molto volentieri! È bello sentire parlare di Dio e della Madonna da padri così sapienti. Ma, a Forlì, l’attendeva una sorpresa. Il padre che avrebbe dovuto tenere il discorso ufficiale in duomo, si era ammalato così il Padre Provinciale aveva chiesto al superiore dei Domenicani e ad altri frati di sostituirlo. Tutti avevano declinato l’invito dicendosi impreparati. Alla fine, pensò di rivolgersi ad Antonio, che sorpreso, gli disse convinto: - Ma io non so parlare! - È un ordine fratello! rispose il Padre Provinciale. Dopo pochi minuti, frate Antonio era sul pulpito.
La grande rivelazione - Senza esitare, Antonio prese la parola introducendosi con passi biblici, ben appropriati. Le parole fluivano dalla sua bocca come note d’oro; le idee erano chiare come il sole. In breve, il suo volto si illuminò di una luce celestiale. Tutti lo ascoltavano «con vivo godimento spirituale». I suoi confratelli, affascinati, trattenevano il respiro. Al termine della predica, tutti si strinsero attorno a lui, ammirati. Era particolarmente felice il Padre Provinciale che, commosso, lo chiamò a sé e subito, gli affidò l’ufficio della predicazione: - Andrai a Rimini, dove avrai molto da faticare, perché in quella città molti si sono allontanati da Dio!
Addio, monte santo - Antonio non poteva opporsi al volere dei suoi superiori: era figlio dell’obbedienza. Ritornò a Montepaolo, dove raccolse le «sue» poche cose; poi si accomiatò dai confratelli: li abbracciò teneramente, uno ad uno, chiedendo loro l’aiuto della preghiera. Quindi, allargò le braccia e salutò il suo eremo: «Addio monte santo! Addio terra benedetta, amata da Dio e dagli uomini. Io parto col corpo, ma non col cuore! Il Signore ti benedica e ti protegga!». Poi, si pose in cammino, seguito dallo sguardo commosso dei fratelli.
In mezzo alla bufera - A Rimini, Antonio incontrò la più dura opposizione da parte degli eretici. Tra di essi i più numerosi e ostinati erano i catari, che travisavano la Sacra Scrittura e ritenendosi i depositari della perfezione cristiana, andavano di casa in casa a diffondere gli errori più grossolani. Pensiamo a qualcosa di analogo agli odierni Testimoni di Geova. Quando Antonio predicava nelle chiese o si avventurava a parlare sulle piazze, essi levavano urla e facevano schiamazzi. Un giorno il Santo con voce tonante, gridò loro: - Non volete ascoltarmi? Ebbene andrò a parlare ai pesci del vostro mare! Scese dal pulpito e seguito da pochi fedeli e da un gruppo di curiosi, si diresse verso la spiaggia.
Predica ai pesci - Giunto in riva al mare, Antonio salì su di uno scoglio; si raccolse in preghiera i pesci del mare. alcuni istanti, poi chiamò a gran voce. Deliziamoci, ora, ascoltando il racconto dal libro dei «Fioretti»: “…subitamente venne alla riva tanta moltitudine di pesci grandi, piccoli e mezzani, che mai in quel mare né in quel fiume ne fu veduta altra moltitudine; e tutti teneano i capi fuori dell’acqua, e tutti stavano attenti con mansuetudine e ordine. Allora Antonio vedendo tanta reverenza inverso di Dio, rallegrandosi in ispirito, in alta voce disse: Fratelli miei pesci, molto siete tenuti di ringraziare il Creatore che v’ha dato così nobile elemento chiaro e trasparente e cibo per lo quale voi possiate vivere… A queste e somiglianti parole, li pesci cominciarono aprire la bocca e inchinarono li capi, e con questi e altri segnali di reverenza, lodarono Iddio”. Alla fine, Antonio sollevò la mano benedicente e si congedò dai pesci: «Fratellini miei, andate in pace, nel nome del Signore!». I pesci si tuffarono in mare, sollevando spruzzi di schiuma; poi, nuotando allegramente, scomparvero in mezzo ai flutti.
La mula di Bonvillo - I fedeli, che avevano assistito al miracolo dei pesci, ritornati in città, raccontarono agli amici ciò che avevano visto. Un eretico irremovibile di nome Bonvillo, al racconto scuoteva la testa incredulo e diceva: - La vostra è stata un’illusione collettiva: le onde del mare vi sono sembrate dei pesci. Volete proprio che mi converta? Sappiate che soltanto un miracolo potrebbe farmi cambiare idea!». La cosa fu riferita al Santo, il quale avvicinò Bonvillo e gli fece una proposta: - Se la tua mula adorasse il sacramento dell’Eucaristia, tu ti convertiresti? Bonvillo fece una risata e poi disse: - Ma certo! Se proprio ci tieni a convertirmi, terrò la mula digiuna per tre giorni e poi vedremo se riuscirai a convincerla! Antonio accettò il patto. Dopo tre giorni, Bonvillo condusse la mula affamata sul sagrato della chiesa, dov’era radunata una gran folla. - Ci sarà da ridere almeno per un anno - pensava Bonvillo tra sé - Così ci leveremo dai piedi, una volta per sempre, questo frate! La porta della chiesa si aprì e apparve il Santo che reggeva l’Ostia consacrata. Sul sagrato nessuno fiatava. Bonvillo porse della biada alla mula e la incitò a mangiare. Ma la povera bestia, pur essendo affamata e assetata, guardava l’Ostia… finché, lentamente piegò le ginocchia in segno di adorazione. La folla gridò al miracolo. Bonvillo sconvolto, si prostrò davanti ad Antonio e lo supplicò di perdonarlo.
C’è chi tenta di ucciderlo - La reazione da parte dei capi degli eretici non poteva mancare: decisero di ucciderlo. Per sopprimerlo escogitarono l’uso della frode e del veleno. Si finsero pentiti e invitarono Antonio a pranzo. Il Santo accettò, ma appena fu a tavola si accorse del tranello: tracciò un segno di croce sul cibo e incominciò a mangiare tranquillamente. Quando gli eretici si accorsero che il veleno era stato reso innocuo e che Antonio non provava alcun disturbo, si spaventarono: si buttarono ai suoi piedi e sinceramente pentiti gli chiesero perdono.
Il giubilo di Francesco - La fama di Antonio come predicatore e taumaturgo, in breve tempo varcò i confini di Emilia e Romagna e raggiunse anche Assisi, dove si trovava Francesco, ormai gravemente ammalato. I frati gli avevano parlato di Antonio, della sua predica ai pesci, della sfida a Bonvillo e di altri episodi. - Sai, gli dissero, lo chiamano «martello degli eretici», perché nessuno resiste alla forza delle sue argomentazioni. E poi conosce a memoria le Sacre Scritture. Quale fortuna sarebbe per noi poterlo avere quale maestro! - Oh! Frate Antonio lo conosco!, esclamò il Poverello, lo ricordo bene. Lo vidi ad Assisi alcuni anni fa. Sia lodato Dio! Finalmente, anche noi frati minori abbiamo un vescovo!.
Una «laurea» per Antonio - Senza esitare, Francesco prese una pergamena e il necessario per scrivere e dettò il suo messaggio: “A frate Antonio, mio vescovo, Frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai frati, purché questo studio non spenga in essi lo spirito di orazione e devozione, come è scritto nella Regola. Sta bene!”. Poi disegnò, di proprio pugno, una croce in calce alla pergamena. E aggiunse a viva voce: «Lodiamo l’Altissimo per questo nostro fratello, che annunzia ai fedeli i vizi e le virtù per la loro santificazione. Egli deve essere esaltato perché molto si è umiliato. Io lo tengo in conto di un vescovo perché è saggio e prudente, come deve essere ogni pastore di anime».
Nella dotta Bologna - Antonio prese la lettera di frate Francesco come un ordine: lasciò subito Rimini e si trasferì a Bologna. Adora, la celebre università di Bologna, non possedeva una cattedra di teologia; per questo egli dovette insegnare nel convento dei francescani. Com’era da prevedersi, la fama del maestro attirò un grande numero di studenti: non solo erano frati, ma anche chierici e secolari; di essi, non pochi divennero illustri per dottrina e santità.
Un nuovo incarico - L’insegnamento di Antonio a Bologna durò un anno intero, fino al giorno in cui Francesco lo invitò ad Assisi; voleva affidargli l’incarico di andare in Francia per ricondurre gli albigesi alla verità evangelica. Il Poverello considerava la Francia sua seconda patria e sentiva una ferita al cuore per la presenza degli eretici in quella terra, da lui tanto amata. Per estirpare l’eresia albigese occorrevano uomini santi, colti e con un fascino tutto particolare sulla folla. Nessuno, possedeva queste doti, più di Antonio.
Nella dolce terra di Francia - Antonio accettò il nuovo incarico con spirito di vera obbedienza. E, un mattino, di quel rigido inverno del 1224, insieme a tre confratelli, lasciò la dotta Bologna e si diresse, a piedi, verso la «dolce terra di Francia». Compì il viaggio a tappe forzate. Quando arrivava in paesi o città, dove si trovavano conventi del suo Ordine, trovava cordiale ospitalità, altrimenti era costretto a mendicare un tozzo di pane o un giaciglio. La sua prima meta fu la città di Montpellier, dove fu accolto dai confratelli con grande gioia.
Di nuovo in mezzo alla bufera - Iniziò il suo apostolato andando di città in città, di paese in paese e di casa in casa. I cronisti contemporanei segnalano la sua presenza a Montpellier, Narbonne, Carcassonne, Tolosa, Limoges e in tutta la Provenza. Parlava al popolo nelle chiese e sulle piazze, seguendo il metodo che aveva usato in Romagna: affrontare gli eretici direttamente, a viso aperto, confutando i loro errori, smascherandone la falsità, la volgarità e l’astuzia. Li paragonava a «volpi astute». Molti cristiani seguivano il suo insegnamento, e la loro fede «tornava ad essere la regina delle menti e dei cuori».
Il demonio si scatena - La reazione del demonio era da prevedersi: non poteva rassegnarsi alla perdita di tante anime. Per questo cercava in tutti i modi di disturbarlo. Per distoglierlo dalla predicazione fece ricorso anche alla violenza. Ma il Santo non temeva. Egli confidava nel Signore, che lo aiutava e confermava il suo apostolato con una quantità di miracoli.
La Madonna accorre in suo aiuto - La grande protettrice di Antonio era la Madonna. Più volte lo difese dagli assalti del demonio. Un giorno, il demonio fece crollare il palco dove stava predicando, ma il Santo non si scompose. Rasserenò i fedeli con queste parole: «State tranquilli! È il demonio che vorrebbe impedirmi di parlare, ma non riuscirà. La Madonna ci protegge. Egli è come un cane legato alla catena». Un altro giorno, mentre il Santo pregava, gli apparve il demonio sotto sembianze umane; lo afferrò per la gola, deciso a strangolarlo. Egli reagì e invocò il nome di Maria. All’udire questo nome, satana, pieno di rabbia, fuggì. Antonio ricambiava le premure della Madonna, con una profonda devozione.
Notizia che lo addolora - Mentre Antonio si trovava in piena attività, gli giunse la lettera di frate Elia, vicario generale dell’Ordine, con la triste notizia della morte del Poverello d’Assisi. Ecco le testuali parole: “Piangete con me, fratelli, perché siamo divenuti orfani. Colui che ci portava tra le braccia come agnelli ci è stato tolto. È per tutti una perdita incolmabile. Abbiamo perduto il nostro Padre. Piangete con me fratelli, perché il pianto mi opprime. Piangete con me!». Possiamo immaginare con quanta commozione frate Antonio abbia letto e riletto questa lettera.
Ritorna in Italia - Insieme alla lettera, giunse per Antonio anche «l’intimazione» di trovarsi ad Assisi per eleggere il successore di S. Francesco. Era l’obbedienza che ancora una volta lo chiamava: doveva lasciare la sua «dolce terra di Francia» per ritornare in Italia. Il distacco da questa terra, fu per lui doloroso. Lasciò Limoges, accompagnato per un lungo tratto dai frati e dal popolo, in lacrime. Raggiunse Assisi nella primavera del 1227, pochi giorni prima della Pentecoste.
Eletto ministro provinciale di Emilia e Romagna - Il capitolo di Pentecoste di quell’anno, fu dominato dalla tristezza: tutti sentivano la mancanza del Padre. Per l’elezione del successore, i ministri provinciali e i custodi si accordarono sul nome di fra Giovanni Parenti, un uomo di legge, che godeva fama di grande virtù e santità. Nello stesso capitolo generale, furono distribuiti gli incarichi ai presenti. Antonio fu eletto ministro provinciale di Emilia e Romagna. Egli accettò ancora una volta il gravoso incarico, senza protestare, sicuro di fare la volontà di Dio.
Ancora a Bologna - La sede provincializia dell’Italia settentrionale, allora, era a Bologna. Antonio la raggiunse e ne prese possesso. Poco dopo iniziò la visita ai singoli conventi per prendere contatto con i confratelli. Raggiunse l’eremo di Montepaolo, dove ritrovò i vecchi «amici» e si ritirò nella «sua» grotta in preghiera. Poi scese a Forlì, si recò a Rimini, a Ravenna, da dove, via mare raggiunse la Dalmazia e l’Istria, finché giunse a Padova.
La città del suo cuore - Padova, allora, era una città bella e ricca; vi fiorivano le industrie della lana e vi si tenevano mercati a livello regionale. Vantava anche una università, tra le più celebri d’Europa, dove accorrevano studenti di varie nazioni. Antonio vi giunse all’inizio del 1228 e pose la sua dimora presso il convento di Santa Maria Mater Domini.
Suscita subito entusiasmo - I padovani accolsero Antonio con grande gioia e venerazione. Tutti desideravano avvicinarlo e ascoltarlo. La fama della sua santità l’aveva preceduto. In breve tempo le chiese di Padova si rivelarono insufficienti ad accogliere le migliaia di fedeli, che accorrevano anche dalle città vicine, per ascoltarlo. Spesso non bastavano nemmeno le piazze e si doveva ricorrere ai prati, in aperta campagna.
Trasporta la sede a Padova - Com’era da prevedersi, in breve tempo, Padova divenne per Antonio «la sua città». I padovani lo stimavano e lo amavano. La sua parola semplice e ardente, aveva conquistato i loro cuori; alcuni decisero di seguirlo abbracciando l’ideale francescano. Antonio li ricambiava con pari affetto: si sentiva uno di loro; per questo, col consenso dei superiori, decise di trasportare la sede provincializia da Bologna a Padova.
Dalla parte dei poveri - Ai tempi di Antonio, a Padova, i poveri erano tanti. I ricchi, invece, erano pochi e dominavano su ogni attività economica. I poveri erano indifesi e senza alcun potere; quando non riuscivano a saldare i debiti contratti, venivano condannati al carcere e così, nelle famiglie povere, alla miseria si accumulava altra miseria. Antonio, manco a dirlo, si schierò dalla parte dei poveri!.
Tuona contro gli usurai - L’usura era la forma di sfruttamento più comune di allora. Veniva esercitata da uomini senza scrupoli, che Antonio chiamava «bestie feroci che rapinano e divorano». Il Santo divideva gli usurai in tre categorie: «I nascosti, che in numero infinito strisciano all’ombra come bisce; i pubblici, che simulando una simulata moderazione, vogliono sembrare misericordiosi; gli sfacciati, perfidi e rotti al vizio, che alla luce del sole, in piazza, praticano l’usura come professione: questi il diavolo se li prenda per l’eterna dannazione».
I suoi amici più cari - Anche Antonio, come Gesù, ebbe i suoi prediletti: erano i bambini. Quando passava per le vie di Padova, essi sospendevano i loro giochi e gli correvano attorno per fare festa. Egli si fermava e si intratteneva con loro. Spesso li accoglieva amabilmente in convento, senza dar mai segni di impazienza. Erano le mamme e i papà a portarli, perché li istruisse e li benedicesse.
Affronta il tiranno Ezzelino - A Padova e città vicine, regnava Ezzelino da Romano, uomo crudele, nemico di Dio e degli uomini. Antonio decise di affrontarlo. Prese con sé l’amico fra Luca Belludi e andò a Verona dove il tiranno risiedeva. Quando Ezzelino sentì che un figlio di S. Francesco voleva parlargli, rimase turbato, ma alla fine l’accolse. Antonio, insieme all’amico fra Luca, entrò da lui e animato da santa ira, gridò: - Crudele tiranno, nemico di Dio, fino a quando continuerai a spargere sangue innocente? Sappi che la giustizia di Dio ti raggiungerà presto. Cambia vita o sarai dannato in eterno! Nessuno avrebbe mai osato parlare al tiranno con queste parole. Ezzelino ascoltò senza reagire. Abbagliato da una luce, ch si sprigionava dal volto del Santo, chinò la fronte impaurito e restò in silenzio. Quando risollevò il capo, Antonio e il suo amico fra Luca, già si erano allontanati.
Si ammala di idropisia - Forse soltanto pochi sanno che, Antonio pur essendo giovane, negli ultimi anni della sua vita, si ammalò gravemente di idropisia. Per questo, fu costretto a ridurre la sua attività e a restare per lunghi periodi in convento. Per non addolorare i confratelli, per più mesi aveva tenuta nascosta la sua malattia.
Si dedica al confessionale - In convento, Antonio accoglieva i penitenti e si dedicava all’apostolato del confessionale. Diceva: «Il predicatore semina la parola dal pulpito e raccoglie i frutti nel confessionale». Quando confessava - attesta il suo primo biografo - perdeva la nozione del tempo. C’erano giorni ch’egli confessava senza interruzione fino al tramonto, non prendendo cibo, né boccata d’aria, benché fosse in condizioni pietose di salute. Il Santo, in seguito, scriverà in un suo sermone: «Che farsene di una marea di uditori, se poi il confessionale resta deserto? Sarebbe come andare a caccia, e tornarsene col carniere vuoto».
Scrive le sue prediche - La presenza «forzata» di Antonio in convento, mosse i confratelli ad approffittarne per chiedergli «la carità di un sussidio con tante prediche adatte alle varie domeniche dell’anno». Il Santo accettò volentieri e scrisse i «Sermones Dominicales», un’opera di quasi mille pagine, che fanno di lui il primo grande scrittore dell’Ordine. Presentandola ai confratelli disse: «Cercate di non essere noiosi nel parlare, altrimenti la gente sta lontano dalla chiesa. Ma soprattutto date un grande esempio di vita cristiana».
Sente bisogno di riposo - Antonio sapeva che il Signore l’avrebbe chiamato presto a sé, per questo, dimentico delle sue sofferenze, non risparmiava energie nelle opere di bene. Ma, un giorno, espresse il desiderio di trascorrere un periodo di assoluto riposo. L’idropisia lo aveva prostrato fisicamente: la sua persona ormai appariva stanca e appesantita. I confratelli lo portarono nel convento più vicino, a Camposampiero: un eremo distante una ventina di Km da Padova. La solitudine e il silenzio del luogo, gli diedero subito un certo sollievo.
La specula sul noce - Un giorno, mentre si trovava nel bosco, il Santo scoprì un noce dal cui tronco partivano sei branche che si protendevano verso l’alto. Pensò che lassù, sopra quell’albero, avrebbe potuto più facilmente raccogliersi in meditazione. Perciò, pregò i suoi frati di costruire su quel noce una celletta di stuoie. Fu accontentato. Così, potè salirvi e immergersi in un mare di quiete. Nella «Legenda Raymundina» si legge: «Là, su quella pianta, l’uomo di Dio viveva seco stesso tutto intento a sante meditazioni e a fervorose preghiere per purificare interamente l’anima sua da ogni polvere mondana».
Come in cattedra - La notizia della presenza di Antonio a Camposampiero, si diffuse rapidamente in tutto il circondario. Gruppi di amici e devoti, eludendo la sorveglianza dei frati e dei contadini del conte Tiso, di giorno e di notte, riuscivano a raggiungere il Santo. Egli li accoglieva sorridente, senza dare segni di impazienza e dall’alto del noce, rivolgeva loro parole di esortazione: - Grazie, fratelli, di essere venuti a farmi visita. Ricordate che la vita terrena è simile ad un ponte, che è fatto per il transito, non per fermarvisi. Anch’io, ormai, sono alla fine, in attesa del mio Signore. Ritornate a casa, con la mia benedizione!
Ha il presentimento della fine - Sul noce, Antonio passò alcuni mesi. Lassù gli pareva di respirare meglio. Ma quale fatica per salirvi! I confratelli premurosi gli prestavano aiuto, ma constatavano il rapido affievolirsi delle forze e la difficoltà sempre maggiore del respiro; nel loro affetto si lusingavano che il male potesse essere superato col riposo e col tempo. Ma il Santo aveva il presentimento sicuro della fine prossima. Questo pensiero infondeva in lui un gaudio dello spirito che traspariva dalle sue parole e illudeva la speranza dei confratelli.
Si ammala gravemente - Nelle prime ore del 13 giugno, lo stato di salute di Antonio improvvisamente si aggravò. Prevedendo che la fine era imminente, chiese ai confratelli di essere portato a Padova, dove desiderava morire, presso la chiesa di Santa Maria Mater Domini. I confratelli lo accontentarono. Erano le ore 12 dello stesso giorno quando i confratelli lo adagiarono su di un carro, trainato da buoi, offerto dalle carità di buoni contadini. Il Santo, prima di partire, ringraziò e benedisse i presenti, che pregavano e piangevano.
Verso sorella morte - Il carro si mosse lentamente, accompagnato da frate Luca, da frate Ruggero e da alcuni contadini. Il caldo era opprimente, la strada sconnessa e il carro sobbalzava ad ogni buca. Frate Luca, ogni tanto, fermava il corteo per consentire all’infermo un po’ di ristoro. Dopo cinque ore di viaggio, in prossimità di Padova, il Santo entrò in agonia. Ritennero opportuno fermarsi all’Arcella, nel ritiro dei frati, attiguo al monastero delle clarisse.
L’ultimo canto alla Madonna - Fu sistemato in una cella del convento, dove rimase immobile, senza parola e ad occhi chiusi. I confratelli, addolorati, attendevano la fine. Ad un tratto, il Santo aprì gli occhi, raccolse le forze, alzò le braccia e, con voce esile, intonò un canto alla Madonna, il suo canto preferito: «O gloriosa Domina, excelsa super sidera…! (O Donna gloriosa, alta sopra le stelle…!). Era la preghiera del figlio che invoca l’aiuto della mamma nell’ora della morte.
«Vedo il mio Signore!» - Dopo questo canto, il suo volto divenne luminoso; alzò gli occhi tenendoli fissi verso l’alto come se vedesse qualcosa. Un confratello gli chiese cosa stesse guardando; rispose: «Vedo il mio Signore!». Visse ancora qualche istante, scandito dalle preghiere e dal pianto dei confratelli; poi, piamente, si addormentò nel Signore. Era il vespro del 13 giugno 1231.
I bambini annunciano la morte - I frati decisero di tenere segreta la notizia della morte e di trasferire di nascosto la salma a S. Maria Mater Domini. La loro idea era saggia e opportuna. Ma, poco dopo, tutta Padova era al corrente dell’accaduto. Gruppi di ragazzi, mossi da ispirazione interiore, si riversarono per le vie della città gridando: «È morto il Santo! È morto frate Antonio!». Erano i suoi amici più cari che, addolorati, lo piangevano e lo acclamavano. Come per Francesco furono le allodole, così per Antonio furono i fanciulli a diffondere l’annuncio che il loro amico era morto: li aveva lasciati, per ritornare al «suo Signore!»
CONCLUSIONE
Prima di deporre la penna, viene spontanea un’ultima considerazione. C’è chi crede e chi non crede ai miracoli di S. Antonio, ma vi è un miracolo che non può essere contestato da nessuno: la venerazione universale che questo santo è riuscito a guadagnarsi dappertutto; è questo un fenomeno assolutamente unico e umanamente inspiegabile. Immagino che tu sia stato a Padova, la città del suo cuore, dove ogni anno centinaia di migliaia di pellegrini giungono da tutto il mondo, ansiosi di comunicare, con lui, sfiorando con la mano il marmo ormai corroso dell’arca, che racchiude le sue ossa. Perché S. Antonio «piace» tanto? Perché continua ad attirare devoti, nonostante i tempi grami che corrono per la fede? La risposta si trova nel Bambino, che stringe tra le braccia, nel giglio che tiene nella mano e nell’abito francescano che egli porta. Fratello, nasce anche per te un impegno spontaneo: quello di conoscere il vero volto del Santo, perché maturi in te una devozione autentica, che ti faccia vedere in lui un fratello che aiuta ad incontrare Gesù. Il Santo di Padova accompagni ognuno di noi con la sua protezione e ci conservi sulla via del Bene.
- Santo Antonio da Padova (approfondimenti)
- I tredici martedi di Sant'Antonio da Padova
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