Se dovrai attraversare il deserto, non temere, Io sarò con te.
io sono il tuo Dio, Signore. Io sarò con te dovunque andrai. |
Pasqua di Gesù: rivelazione piena del Padre
Ci siamo posti in cammino, seguendo la traccia del vangelo di Marco. Ci chiediamo: dove Dio si rivela pienamente a noi? C’è un avvenimento che ce lo rappresenta dal vivo? Qual è il fatto di fronte al quale ci è dato di conoscere Gesù in profondità? Tutte queste nostre legittime domande trovano una risposta nei capitoli 14-15-16 di Marco. Abbiamo qui il primo strato della sua opera. E’ una narrazione ben strutturata che serviva per raccontare la storia di Gesù e per celebrarla nella liturgia. L’evangelista sta ai dati della storia; non li falsifica. Ma egli ha gli occhi resi intuitivi dall’incontro con Gesù risorto (Lc 24,31). Mentre narra interpreta. Ogni piccolo particolare nasconde significati imprevedibili. Il progetto del Padre raggiunge qui il suo culmine.
Dio si manifesta totalmente nella fine ingloriosa del Figlio suo. Ciò che è assurdo agli occhi dei superficiali è gloria, gioia per la comunità. La morte di Gesù è lieta notizia giacché è affrontata per amore. Da essa nasce tutto (la fede, il battesimo, la missione, l’Eucaristia della chiesa, la speranza per ogni essere umano). La narrazione procede a scene. Leggiamola per celebrarla poi nella liturgia e nei pii esercizi (Via crucis, digiuno ed astinenza del venerdì; misteri dolorosi del rosario).
Su Gesù si fa la scelta suprema (Mc 14,1-11) C’è un complotto contro Gesù. Matura, nell’oscurità, la decisione di ucciderlo. Si rifiuta il suo annuncio, la sua interpretazione del volto di Dio. Gesù è cosciente che tutto questo sta accadendo. Va incontro liberamente alla sua morte; per lui questo è il momento supremo del suo vivere-per-il-Padre.
Viene ucciso per le scelte che ha fatte, per le cose che ha detto: la vita di un uomo è più importante del sabato (Mc 3,3); la Parola di Dio non può essere cancellata dalle tradizioni umane (Mc 7); la riconciliazione con il proprio fratello ha la priorità sul culto. Gesù non ha scelto di morire. La croce è nata anzitutto dal peccato degli uomini. Sotto la sua condanna a morte si possono mettere firme precise: Caifa, Giuda, Pilato, il partito dei Sadducei… Questi gruppi o queste figure sono l’apparire visibile del «peccato del mondo» (ipocrisia, ragion di stato, volontà di mantenere a tutti i costi il potere, vigliaccheria…). La condanna di Gesù non è storicamente addebitabile al popolo di Israele come tale. Dipende invece da un gruppo ben identificato, quello dei sacerdoti ebraici, cioè dei Sadducei. In particolare è il loro capo Caifa che fa pendere la bilancia del tribunale (il Sinedrio) contro Gesù. Egli è venduto ai Romani; da loro ha, con i denari, «acquistato» la dignità di sommo sacerdote. I capi hanno paura della folla; attendono l’occasione buona. Ognuno dei personaggi in gioco è libero.
Dentro un progetto di morte, (architettato da Caifa, Giuda, Pilato), il Padre realizza il suo progetto di Vita. Queste persone «consegnano» Gesù (vv. 10-11): è Dio stesso che consegna suo Figlio alla storia. Sul Cristo si fa la compravendita (vv. 5.11). Tutti dispongono di lui. Su di lui si fa la scelta suprema. C’è chi, come la donna anonima di Mc 14,3, si mette ai suoi piedi, esprime la sua devozione. C’è chi, come Giuda, lo vende. Alcuni fanno di tutto per trovarlo; altri cercano soprattutto di disfarsene. Alcuni credono al dono gratuito, frutto della tenerezza; altri denunciano lo spreco (Mc 14,4). Alcuni amano e basta; altri cercano di cavare da ogni rapporto umano il massimo di interesse. La storia di Gesù è indispensabile, ora, per capire la storia universale degli uomini.
La morte di Gesù è vera Pasqua (Mc 14,12-31)
Arrivata la pasqua ebraica, la solennità della luna piena di primavera. Ci si prepara ad uccidere l’agnello secondo il rituale previsto in Esodo 12. Ma, di fronte a ciò che Gesù sta per vivere, si ha l’impressione che la liturgia ebraica abbia esaurita del tutto la sua funzione. Gesù è il vero agnello, la vera vittima che sarà uccisa (Mc 14,12.16). Comincia un nuovo esodo; c’è tra noi un passaggio di Dio ben più decisivo ed efficace. Vera Pasqua è la morte che Gesù affronta coscientemente, liberamente. Un’epoca si chiude e se ne apre un’altra. Si consuma l’agnello al calar del sole. Gesù svolge le normali funzioni di un padre di famiglia. Presiede questa liturgia fatta in casa. Narra le meraviglie del Dio vivente; spezza il pane della afflizione; fa passare il calice del vino. Ma, nel bel mezzo della celebrazione, compie un gesto di tipo profetico. Spezzando il pane e facendo passare il calice «mima» la sua morte. Dice: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo» (Mc 14,22). Sul calice pronuncia queste parole: «Questo è il mio sangue, il sangue della alleanza versato per tutti» (Mc 14,24). I discepoli capiranno il senso di tutto questo dopo la sua resurrezione. Gesù afferma di essere “corpo donato” per la vita del mondo. Morendo e risorgendo egli diventerà pane cioè vita; diventerà vino cioè gioia. In quel gesto di spezzare il pane e far passare il calice Gesù sintetizza tutta la sua vita: «Ha sempre amato i suoi; ora dà loro il segno supremo dell’amore» (Gv 13,1). La sua esistenza è stata talmente dono agli altri da diventare ora morte per gli altri. Il Figlio di Dio è tutto dono; nulla tiene per se. Ha ricevuto tutto dal Padre. Vive in funzione di Dio ed in funzione degli uomini, oggetto dell’amore paterno di Dio. D’ora in poi «spezzare il pane» e «far passare il calice» diventerà il gesto con cui i cristiani annunciano al mondo la morte del Signore finché egli ritorni (lCor 11,26).
Mangiando di Lui e bevendo di Lui, i credenti formano una fraternità inenarrabile: il «sangue» del Figlio di Dio è loro sangue. Tutti, così, prendono parte alla sua croce, in attesa di prendere pienamente parte alla sua resurrezione. Gesù annuncia la sua morte in un clima di totale indifferenza e di estraneità da parte dei discepoli. Uno che intinge allo stesso piatto si prepara a tradirlo (Mc 14,18). Simone ostenta la propria sicurezza: «Anche se tutti saranno scandalizzati io non lo sarò!» (Mc 14,29). Tuffi i discepoli sono «distanti» da lui. Di fronte alla verifica dei fatti, scapperanno tutti. Viene per Gesù, ma anche per loro la notte decisiva (Mc 14,27): ciascuno appare allora nella sua realtà più profonda: eroe o traditore, coraggioso o infingardo.
Il Getsemani e l’arresto (Mc 14,32-52) Su Gesù piombano, nel podere del Getsemani, paura ed angoscia. E’ veramente il confronto diretto e spietato tra Lui e la propria fine. I tre discepoli (Giacomo, Giovanni, Simon Pietro) già testimoni di altre esperienze fondamentali come la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37) e della trasfigurazione (Mc 9,2), dormono (Mc 14,37). Non si sono resi conto di nulla. Sognano ancora il messia glorioso; aspettano ancora la spartizione del potere (Mc 10,35-45). Contro la sua mortale paura (Mc 14,34), Gesù trova conforto nella preghiera. E’ solo con il suo «abba»; chiama così Dio, con la confidenza di un bambino. Presenta al Padre la sua realtà ed i suoi desideri.
Non vuole morire, ma accetta di conformarsi alle decisioni del Padre. Dio non gli toglie il calice da bere (v. 36), non lo esonera dalla morte. Gli dà lo Spirito perché abbia il coraggio di andare sino in fondo. E’ l’ora in cui il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Qui si sta giocando tutto. Dietro le «comparse» (Giuda, Caifa, Simone, Pilato…), ci sono i «grandi protagonisti», il Padre e satana. Si decide l’avvenire del mondo. Un gruppo di guardie, mandate dal sommo sacerdote, si impadroniscono di lui (Mc 14,43). Per farlo riconoscere Giuda lo bacia: il tradimento si compie proprio mediante il gesto massimo dell’amicizia (Mc 14,44-45). Simon Pietro estrae la spada: pensa di battersi per un futuro capo politico come il partito degli Zeloti immaginava il Messia. Gesù ha un orizzonte ben più vasto: Egli è certo che, attraverso queste vie tortuose, il Padre realizzerà le sue promesse, il suo progetto. Egli fa notare come siano venuti «di notte» ad arrestarlo: il potere ha bisogno di oscurità per coprire i suoi misfatti. Gli servono molte persone (come Giuda) che si possano comprare, ricattare. Il potere le usa e poi, con disinvoltura, se ne libera (cf. Mt 27,3).
Il processo davanti al Sinedrio (Mc 14,53-72) D’ora in poi Gesù diventa un «complemento oggetto»: lo conducono dal sommo sacerdote (Mc 14,53), lo interrogano (v. 61), lo percuotono e lo schiaffeggiano (v. 65). Gesù subisce il processo da parte del Sinedrio. Esso è il supremo tribunale ebraico. E composto da 71 persone, 70 membri più il presidente. Caifa è il sommo sacerdote. Il processo è frettoloso, notturno. Rimbalzano contro Gesù alcune accuse: «Costui non crede nell’importanza del tempio».
Le istituzioni tentano di difendersi di fronte alla rivelazione piena e definitiva del volto del Padre. Gesù è invitato, paradossalmente, ad accusare se stesso. Egli non fa che ribadire la propria incondizionata fiducia nel Dio di Abramo, nel Dio dei padri. Proprio attraverso la morte, Egli apparirà come Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio (cf. Dan 7). Il sommo sacerdote si straccia le vesti. Dio non può rivelarsi in un uomo appeso ad un legno (Deut 21,23). Siamo di fronte allo strappo definitivo del «vestito vecchio», dell’antica alleanza (cf. Mc 2,21-22). Nella croce di Gesù ci sarà il superamento della legge, del tempio, del sacerdozio ebraico. In quell’avvenimento apparirà tutta la benignità e condiscendenza di Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. D’ora in poi, Dio andrà cercato non in chi condanna ma in chi è ingiustamente condannato; non in chi detiene il potere ma in chi ne resta vittima innocente. La persona di successo ha tanti fans, tanti ammiratori e seguaci. Gesù non ha amici. Nessuno lo conosce, nessuno è dalla sua parte. Anche Simon Pietro rinnega il maestro. Non è in grado di riconoscere il Cristo (Mc 8,29) in quell’uomo indifeso, deriso, condannato a morire. Non è ancora maturato abbastanza. Disgiunge ogni sua responsabilità rispetto a Gesù. Giura tre volte nel nome del Dio vivente di non averlo mai visto. Non ha né vegliato, né pregato; per questo è caduto in tentazione (Mc 14,38). La strada del discepolo è parallela rispetto a quella del maestro. Anche Simone subisce il suo processo da parte della gente comune. L’interrogativo che anche a lui viene posto è «chi è Gesù?». La differenza è notevole: Gesù si proclama Figlio dell’uomo che, mediante la croce, è assunto accanto al Padre. Per Simone, Gesù è uno di cui ignora persino l’esistenza. All’ora del sacrificio, Pietro ricorda due cose: il suo tradimento e la parola di Gesù. Scoppia in un pianto che si protrarrà per anni. Ha scoperto che l’amore di Gesù è ben più grande del suo peccato (Mc 14,72).
Il processo davanti a Pilato (Mc 15,1-20) Gesù è sottoposto ad un nuovo processo di fronte a Pilato. Costui è procuratore di Roma dal 26 al 36 d.C. Risiede normalmente a Cesarea al Mare, per controllare meglio tutta la regione e per essere in contatto con le navi di Roma. A Pasqua viene a Gerusalemme. Vuole rendersi conto di persona della situazione. Si stabilisce nella Torre Antonia, accanto al tempio, ove c’è la legione romana. I Giudei non potevano eseguire condanne a morte; devono quindi passare attraverso l’autorità civile. E’ chiaro che, di fronte a Pilato, devono cambiare le carte in tavola: presentano Gesù come un agitatore politico (Lc 23,2). Il procuratore si accorge con facilità che Gesù non è del «partito armato», cioè del movimento degli Zeloti. Vede, davanti a sé, una persona mite, che rifiuta persino di difendersi. Certo Gesù è re ma non come Cesare che dispone in modo arbitrario ed assoluto della vita degli altri (cf. Mc 10,42-45). La folla preferisce Barabba, un ribelle che durante una sollevazione popolare ha ucciso (Le 23,19). Nessuno può fare il tifo per un perdente. Nessuno si può identificare con un «fallito». Tutti a gran voce gridano: «Crocefiggilo!».
Gesù subisce la flagellazione romana, quella che non poteva subire un cittadino libero (Atti 22,25). Il gioco crudele dei soldati ha l’effetto di rivelare quanto e come Gesù sia re: egli va tutto solo alla morte perché i suoi siano salvi; ha una corona di spine ed un manto di porpora (Mc 15,17). Suo trono sarà la croce. Alla sua destra ed alla sua sinistra (come primi ministri) ci saranno due assassini. Non dispone di nulla; tutti dispongono di Lui. Gli sputano addosso, gli percuotono il capo con una canna. Tutto questo è follia per gli uomini (lCor 2,12-15): è motivo di emozione per l’uomo che contempla il tutto con gli occhi della fede. Il «potere» di Gesù è la sua libera volontà di amare sino in fondo. Dio ha assunto la forma di servo, per risanarsi alla radice dalla volontà di strumentalizzare gli altri soprattutto i deboli e gli indifesi.
La crocifissione (Mc 15,21-47) Pilato si fa portare una tavoletta di cera e con uno stilo di ferro vi scrive queste precise parole: Ibis ad crucem, andrai alla croce. Scrivendo, si può uccidere. Un centurione con 4 soldati deve eseguire la sentenza. Uno dei soldati reca il cartello su cui è scritta (in 4 lingue) la motivazione della sentenza capitale. Ci sono 3 condannati quel giorno. Ognuno di loro deve «portare la croce» ma solo la parte orizzontale. Quella verticale (alta circa tre metri) è già saldamente piantata sul luogo dell’esecuzione. Gesù non riesce ad arrivare in cima al colle chiamato Golgota. Il centurione ed i soldati costringono a portare la croce al posto di Gesù un passante, un certo Simone di Cirene. Egli non è il martire, non è l’eroe; è solo e semplicemente un «povero diavolo». Eppure anche per lui c’è posto nella storia di salvezza. Veri discepoli non sono quelli sicuri di sé (come Pietro) ma quelli ribelli, reniteni, costretti dalle circostanze a prendere una croce che loro mai avrebbero voluta. Giungono sul posto, sul Calvario, che è un cucuzzolo tondeggiante fuori del recinto della città. Il condannato a morte ha due diritti: bere la droga (vino molto mirrato) e dedicare la propria morte a qualcuno. Gesù rifiuta la droga: vuole morire lucido e consapevole. Dedica la morte a coloro che lo uccidono (cf. «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» in (Lc 23,34). I soldati inchiodano i tre condannati nel metacarpo; poi li innalzano con forche e scale sulla croce. Così le vittime restano appese tra cielo e terra. La morte arriva lentissima per asfissia, dissanguamento o tetano. Marco sorvola sui particolari di questo «terribile supplizio» come lo definisce Cicerone; dice semplicemente: «lo crocefissero». Come «paga» del proprio lavoro i soldati si dividono le vesti dei condannati. Sul capo di ognuno di loro è issato il cartello con la condanna.
Due assassini sono crocefissi con Gesù e come Gesù. Egli è il Figlio di Dio: eppure va a morte come i due colpevoli. Dio non interviene a fermare l’esecuzione. Gesù è veramente «consegnato alla storia», «consegnato ai peccatori». Il Figlio di Dio assume anche la situazione estrema del nostro vivere, il morire; la sua solidarietà raggiunge il vertice. Dal punto di vista degli spettatori, anche Dio ha messo la sua firma per questa condanna. Gesù invano si è fidato di Lui. Gli uomini di quel tempo, infatti, abbinavano la disgrazia al peccato. A Gesù capita la massima delle disgrazie: questo è perché si è messo contro Dio. «Gesù — affermano i suoi derisori — ha offeso il tempio; ecco perché è finito lì!». Le affermazioni della comunità cristiana, illuminata dallo Spirito, dicono esattamente il contrario: stando in croce, Gesù ci salva. Egli ha scelto di salvare altri e non salva se stesso. Il Padre è solidale con lui e con noi. Non lo tira via dalla croce; lo lascia dentro la storia. Anche lui «non risparmia il Figlio suo» (Rom 8,32). Dio, in Gesù, si fa carico di ogni ingiustizia, di ogni ipocrisia. Gesù è come il redentore (Mc 10,45) cioè il parente più prossimo che versa la somma per riscattare, per rendere libero un suo familiare. Questa è veramente l’ora delle tenebre (Mc 15,33). Sembra proprio che satana stia trionfando. Ma questo è anche, contemporaneamente, il giorno del Signore (Amos 8,9). Agli occhi del mondo tutto sembra finire. Eppure in quell’avvenimento c’è la primavera di Dio, la possibilità per tutti di rinascere. Il velo del tempio si squarcia in due da capo a fondo (Mc 15,38). E’ finito un modo di vedere Dio; ne inizia un altro. Dio non si nasconde più (come pensavano i Giudei) dietro il velo del tempio. Non abita più in una stanza inaccessibile (chiamata sancta sanctorum).
In Gesù, Dio si è pienamente rivelato e donato al mondo. Egli si è fatto vicino ad ogni uomo deriso, calpestato. Non c’è più separazione tra Dio e noi. Attraverso la morte, Gesù ha raggiunto, anche con il suo corpo, la «casa del Padre» (Gv 14,1-6). Contemplando la croce si scopre chi è Dio: Dio è amore (lGv 4). Il Padre è disinteresse puro, ama e basta; ama senza chiedere nulla in compenso. Dalla morte di Gesù nasce ogni vita. Il Cristo muore pregando (Mc 15,34): recita tutto il salmo 22. In esso esprime il suo dramma, ma anche la sua incrollabile fiducia in Dio. Di fronte alla croce il nostro itinerario ha termine: abbiamo la risposta alla nostra domanda iniziale: «Chi è Gesù?». Con il centurione possiamo dire: «Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio!». E la sua morte a rivelarcelo: nessuno si può fidare a tal punto di Dio.
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Continua: Una fede che cresce.
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