Se dovrai attraversare il deserto, non temere, Io sarò con te.
Se dovrai camminare nel fuoco, la sua fiamma non ti brucerà.
Seguirai la mia luce nella notte, sentirai la mia forza nel cammino,

io sono il tuo Dio, Signore.
Sono io che ti ho fatto e plasmato, ti ho chiamato per nome.
Io da sempre ti ho conosciuto e ti ho dato il mio amore.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi, vali più del più grande dei tesori,

Io sarò con te dovunque andrai.

San Paolo Apostolo biografia_seconda parte


449. Ripreso il mare, egli sbarcò a Cesarea di Palestina. Di qui, essendo risalito e avendo salutato la chiesa, scese ad Antiochia (Atti, 18, 22). Gerusalemme non è nominata, ma come il verbo risalire era l'usuale per indicare il viaggio a Gerusalemme, così pure il nome di chiesa senz'altra aggiunta indica qui la chiesa-madre di quella città.
Anche la sosta a Gerusalemme fu brevissima, un semplice saluto, forse perché Paolo aveva fretta di ritrovarsi ad Antiochia, ma forse anche a causa della corrente giudaizzante che prevaleva nella chiesa-madre: quei giudaizzanti non si erano affatto acquietati alla vittoria riportata da Paolo al concilio apostolico del 49, né vedevano con piacere tutte quelle masse di pagani che egli ammetteva nella Chiesa senza imporre loro la circoncisione; perciò l'accoglienza che fecero al reduce missionario dovette essere molto fredda. Dal canto suo Paolo sentiva che quei gretti e cristallizzati giudaizzanti si estraniavano sempre più dal suo spirito, e quindi senza rinnovare le vecchie contese s'affrettò alla volta di Antiochia, il fervoroso centro missionario ove il suo spirito si trovava a suo agio.
Con l'arrivo ad Antiochia terminava il secondo viaggio missionario di Paolo. Partito di là tra la fine del 49 e gl'inizi del 50, vi rimetteva piede adesso ch'erano gl'inizi del 53



IL TERZO VIAGGIO MISSIONARIO
450. Il racconto di Luca riguardo al terzo viaggio missionario di Paolo comincia in maniera stringatissima: è sua inclinazione, infatti, sorvolare su avvenimenti che si svolgono in zone da lui già ricordate in precedenza, per affrettarsi versò zone nuove onde trattenersi in esse; nel caso nostro egli dice soltanto che Paolo, dopo il suo ritorno ad Antiochia, avendo trascorso alquanto tempo (ivi, ne) partì, percorrendo successivamente la regione Galatica e (la) Frigia, rafforzando tutti i discepoli (Atti, 18, 23). Come già osservammo (§ 159), queste poche parole si riferiscono a un periodo di tempo abbastanza lungo: Paolo dovette ripartire da Antiochia nella primavera del 53 e spendere il resto di quell'anno e una parte del 54 nella regione Galatica e nella Frigia, finché giunse ad Efeso, nello stesso 54; sulla permanenza ad Efeso Luca largheggerà perché è zona nuova, mentre sulla regione Galatica e la Frigia ha sorvolato trattandosi di zone già visitate nel viaggio precedente: Ma noi siamo costretti a diluire, per quanto ci è possibile, questo stringato racconto di Luca.
Se Paolo partito da Antiochia puntò direttamente verso la regione Galatica, ciò dimostra che anche questa volta egli seguì da principio l'itinerario del secondo viaggio, passando attraverso le «porte Cilicie» (§ 371); sennonché, quando ebbe superato il Tauro, egli non piegò come prima a sinistra in direzione di Derbe, Listra e Iconio, bensì risalì verso il Nord, e attraverso Tiana, Sasima e Cesarea di Cappadocia entrò nella regione Galatica dal lato orientale. Perciò egli, questa volta, trascurò le comunità di Licaonia e Pisidia fondate durante il primo viaggio missionario, e si affrettò alla volta dei suoi cari Galati convertiti durante il secondo viaggio.
451. Questa nuova permanenza di Paolo fra i Galati si argomenta dalla sua lettera a loro (Gal., 4, 13), ove ricordando la prima permanenza - quella in occasione della malattia - egli dice che allora li evangelizzò la prima volta (*** § 116, nota): dunque, allorché scriveva la lettera (§ 505), egli li aveva evangelizzati anche una seconda volta, che fu appunto questa del terzo viaggio missionario. Questa preferenza delle comunità della Galazia, in confronto con quelle di Licaonia e Pisidia, probabilmente fu dovuta a notizie ricevute da Paolo e che lo misero in trepidazione sull'andamento di quelle comunità: sospettando che la purezza, della loro fede potesse essere insidiata da gente malintenzionata venuta da fuori, egli accorse fra quei suoi prediletti rafforzando - come ci ha detto Luca - la loro inesperienza. Gli avvenimenti successivi dimostreranno che i sospetti di Paolo erano ben fondati (§ 504).
Partito dalla Galazia, Paolo si diresse verso Occidente e attraversò la riarsa e accidentata Frigia (§ 19 seg.), ma probabilmente senza farvi soste per mancanza di comunità cristiane; entrò poi nella Lidia (§ 13), e seguendo la valle del Caistro giunse ad Efeso. Questa volta lo Spirito non gli impedì l'entrata nell'Asia proconsolare come nel viaggio precedente (§ 375); d'altra parte, tornando ad Efeso, egli manteneva la promessa fatta durante la prima breve visita (§ 448).
452. Stratega spirituale dallo sguardo sicuro, Paolo già da tempo aveva riconosciuto quale importante posizione fosse quella dell'Asia proconsolare, e perciò voleva insediarvisi. In realtà tutta la frastagliata costa ionica dell'Asia Minore serviva da linea d'incontro fra l'Europa e l'Asia; fra i suoi innumerevoli golfi si segnalavano per importanza di traffico - da Nord a Sud ­ quello dove sboccava il fiume Caico, ed ivi era situata Pergamo (§ 17); più in basso quello dove sboccava il fiume Ermo, e qui stava Smirne (§ 13); più in basso ancora, il golfo ove terminava il fiume Caistro, e qui troneggiava Efeso; aggirato poi il promontorio, di Micale, si apriva ancora più in giù il golfo dove sfociava il (Grande) Meandro, e qui, era collocata Mileto (§ 12).
Ma oltre a queste città principalissime, la provincia ne contava molte altre anche di grande importanza; nel discorso che Flavio Giuseppe fa recitare dal re Agrippa II ai Giudei di Gerusalemme per dissuaderli dalla guerra contro Roma, le città della provincia dell'Asia sono calcolate a 500, ed è cifra probabilmente tratta da documenti ufficiali (298): indubbiamente questa provincia era una delle più popolose di tutto l'Impero. Inoltre, il porto di Efeso stava in comunicazione marittima diretta sia con Roma e con tutto l'Occidente sia con l'Egitto e la Palestina a Mezzogiorno, mentre numerose vie di terra lo ricollegavano con le regioni orientali fino alla Persia e all'India; non per nulla i Romani, maestri anch'essi di strategia politica, avevano fissato ad Efeso la sede del loro proconsole (§ 21).
453. Quando Paolo vi giunse, trovò questa volta un appoggio materiale. In primo luogo c'erano Aquila e Priscilla, rimastivi dalla volta precedente (§ 448), e certamente Paolo alloggiò presso di loro; si mise anche subito a lavorare nella, loro bottega per guadagnarsi la vita, conforme alla sua norma di non dipendere materialmente da alcuno. Trovò inoltre una cosa inaspettata, cioè un piccolo gruppo di semi-cristiani.
Era avvenuto infatti che, dopo la prima visita di Paolo, un certo Giudeo, di nome Apollo, Alessandrino di stirpe, uomo facondo, venne ad Efeso: era potente nelle Scritture (Atti, 18, 24). Il nome ellenistico di Apollo era una abbreviazione di Apollonio o Apollodoro; la provenienza di costui da Alessandria, il grande centro giudaico dell'Egitto (299), ce ne rivela genericamente la formazione intellettuale: se egli non era stato proprio discepolo di Filone, doveva tuttavia seguire quella corrente esegetica delle sacre Scritture che aveva in Filone il più insigne rappresentante, e che applicando il metodo allegorico mirava a mettere d’accordo Mosé con Platone; in tal senso, certamente, è da intendersi che egli era potente nelle Scritture.
Ciò, quanto al metodo esegetico generico; ma riguardo alle condizioni spirituali di Apollo è aggiunta una notizia importante: costui era catechizzato riguardo alla via del Signore, e fervente nello spirito parlava ed insegnava esattamente le cose riguardanti Gesù, pur essendo edotto soltanto del battesimo di Giovanni (ivi, 25). Il battesimo a cui qui si accenna è il rito di Giovanni il Battista (300), rito che ebbe grande
successo in Palestina donde si diffuse anche nella Diaspora: una prova di questa diffusione è il caso di Apollo, ma un indizio anche più ampio si ritrova nel IV vangelo il quale nei primi capitoli vuole far risaltare più d'una volta il pieno accordo fra Giovanni il Battista e Gesù, mostrando l'aperta subordinazione di quello a questo (cfr. Giov., 1,15 segg.; 3, 23 segg.). Ciò dimostra che alla fine del secolo I, quando fu scritto quel vangelo, il suo autore si preoccupava ancora di remoti seguaci di Giovanni il Battista tuttora dissenzienti dal Cristo Gesù, o almeno ignari di lui. Apollo era parzialmente ignaro: è vero che insegnava esattamente (***) le cose riguardanti Gesù, ma ciò non significa che le insegnasse compiutamente; quello che egli diceva era giusto, ma non era tutto, e forse neppure la parte principale.
454. Tuttavia, il suo ardore lo spinse a parlare di Gesù nella sinagoga di Efeso, come appunto usava fare altrove Paolo nei suoi viaggi. Ma ivi udirono i suoi discorsi Aquila e Priscilla, i quali notarono subito l'esattezza e insieme la deficienza di quanto egli diceva; i due coniugi allora lo presero a parte e con maggiore esattezza (ossia compiutezza) gli esposero la via d'Iddio (Atti, 18, 16).
Apollo accettò senza contrasto le comunicazioni dei due coniugi, i quali indubbiamente gli parlarono anche della loro recente dimora fatta a Corinto insieme con Paolo, e della fiorente comunità cristiana colà fondata; ciò, forse, lo spinse a recarsi a Corinto, sia per approfondire la sua catechesi sia per conoscere nella pratica una comunità cristiana. Allora i seguaci da lui fatti ad Efeso, i quali in realtà non erano che semi-cristiani, scrissero ai veri cristiani di Corinto, con cui erano in corrispondenza forse mediante Aquila e Priscilla, per raccomandarlo a quelli; e giunto che fu a Corinto, Apollo contribuì molto a coloro che avevano creduto mediante la grazia: energicamente, infatti, confutava i Giudei in pubblico dimostrando mediante le Scritture Gesù essere il Cristo (ivi, 28). È probabile che, solo dopo il suo arrivo a Corinto, Apollo ricevesse ivi il battesimo di Gesù per mano di qualche discepolo di Paolo.
455. Tutto ciò avvenne prima che Paolo giungesse ad Efeso durante il terzo viaggio. Quando vi giunse, trovò i seguaci di Apollo che sommavano a circa una dozzina, e volle informarsi sulla loro dottrina; perciò domandò loro: Riceveste (lo) Spirito santo, quando credeste? Quelli rimasero perplessi alla domanda, e risposero: Ma neppure se esista (uno) Spirito santo, udimmo! Paolo allora insistette: In che, dunque, foste battezzati? E quelli replicarono: Nel battesimo di Giovanni.
Questo breve dialogo, mentre ci fa valutare la condizione spirituale di quei semi-cristiani, ci fa pure scorgere da quali contrassegni i primi veri cristiani riconoscessero il battesimo di Gesù: erano le manifestazioni palesi dello Spirito santo, ricevuto in occasione del battesimo. Infine Paolo spiegò loro: Giovanni battezzò (con) battesimo di penitenza, dicendo al popolo che credessero in quello che veniva dopo di lui, cioè in Gesù. La spiegazione di Paolo è in pieno accordo con i primi capitoli del IV vangelo, testé accennati. La spiegazione fu accettata da quei cristiani rimasti a mezza strada; perciò essi furono battezzati nel nome del Signore Gesù, ed avendo Paolo imposto su di essi le mani, venne lo Spirito santo su di essi, e parlavano in lingue e profetavano (ivi, 19, 2-6).
Stando al senso più naturale ed, ovvio di queste parole, avvennero due, riti distinti, uno il battesimo e l'altro l'imposizione delle mani: l'imposizione, fu fatta da Paolo, ma del battesimo non ci vien detto che fosse conferito da lui, anzi stando alla sua norma generica di non battezzate (§ 426) siamo indotti a pensare che fosse conferito da Aquila o da qualche compagno di Paolo. Comunque sia, al rito dell'imposizione quelle persone testé battezzate ricevono lo Spirito santo, ché si manifesta per mezzo dei carismi che già conosciamo (§ 211 segg.): in tal maniera quei neofiti mostrano, i contrassegni palesi della loro fede. I due riti dunque, sebbene distinti, erano praticati l'uno appresso all’altro, per far sì che un uomo appena fosse diventato cristiano, subito si manifestasse palesemente come tale; difatti questa congiunzione dei due riti - battesimo e cresima - continuò per molti secoli nella Chiesa, trattandosi quasi sempre di persone mature che diventavano cristiane: ma in seguito, man mano che il battesimo dei neonati diventava norma generica, si cominciò a separare i due riti, perché il neonato aveva bensì bisogno di diventar cristiano ma non era in grado di manifestare palesemente questa sua qualità.
456. Contemporaneamente a questi fatti Paolo, secondo il suo solito, tentò di agire presso i Giudei. Per tre mesi egli si presentò in sinagoga a predicarvi il Cristo Gesù e da principio sembra che non v'incontrasse particolari difficoltà; ma col tempo le ostilità spuntarono e si aumentarono, per cui egli si comportò come a Corinto, segregandosi dalla sinagoga e trasportando altrove il centro della sua operosità. Ad Efeso egli si stabilì nella scuola, di Tiranno (ivi, 9).
La scholé dei Greci, diventata schola presso i Latini, significava in senso topografico un luogo adatto a passarvi in occupazioni intellettuali il tempo libero dagli affari, oppure ad impartirvi o ricevervi un regolare insegnamento; aule destinate a tale scopo c'erano in tutti i «ginnasi», vicino alle altre aule destinate a biblioteche, a esercizi fisici, a bagni, e simili usi: in una si poteva udire un rètore che declamava e commentava un lirico greco, in un'altra un gruppo di filosofi che discutevano di stoicismo o epicureismo, in un'altra ancora un maestro che impartiva metodiche lezioni di eloquenza; negli intervalli, o quando l'argomento non piaceva, si poteva dalle aule uscir fuori nella corte comune, dove si passeggiava o conversava all'aria aperta. Questo Tiranno, presso cui si stabilì Paolo, poteva essere un rètore greco (come mostra il suo nome, ma altro di lui non sappiamo) che teneva regolari lezioni in un'aula da lui presa in affitto; quando le lezioni erano terminate, l'aula rimaneva vuota, perciò egli pensò di subaffittarla a Paolo per le ore in cui non gli serviva; traendone così un vantaggio economico.
457. Il «testo occidentale» (§ 119, nota) ci comunica anche il tempo in cui l'aula era occupata da Paolo, cioè dalla ora quinta fino alla decima della luce solare (301), ossia circa dalle nostre 11 antimeridiane fino alle 4 pomeridiane. La notizia può essere autentica; ed è certo pienamente verosimile. Gli antichi, infatti, erano molto mattinieri (302), cominciavano, fin dall'alba i loro negotia e li protraevano fin verso il mezzogiorno, riservando al pomeriggio gli otia, ossia gli esercizi fisici, le occupazioni geniali, i divertimenti e simili; perciò Tiranno, terminata la sua lezione verso le 11 antimeridiane, lasciava l'aula a Paolo che vi entrava poco dopo.
A sua volta, Paolo aveva lasciato poco prima il suo telaio dove era stato a lavorare fin dalle prime luci dell'alba: là, mentre le sue mani e le sue ginocchia si erano fiaccate nell'orditura dei peli di capra, la sua mente aveva preparato l'orditura del discorso che avrebbe recitato nell'aula di Tiranno. Per lui non c'erano negotia ed otia; c'era un solo ed unico negotium a cui indirizzava tutta la sua attività, il messaggio del Cristo. Lungo la strada dalla bottega all'aula egli avrà mangiato qualcosa alla meglio, ed eccolo pronto a parlare del Cristo fino al tramonto del sole.
458. L'impassibile Luca, che in parte ci racconta e in parte ci lascia intravedere questo genere di vita, aggiunge asciutto asciutto: E ciò avvenne per due anni (ivi, 10). La resistenza fisica di Paolo, nonostante la sua misteriosa malattia, risulta certamente anche dai suoi viaggi (§ 196); ma qualcuno troverà che risulta pure più evidente da questo tenore di vita, che in pochi mesi avrebbe atterrato l'uomo più valido. Si rifletta inoltre che per Paolo né la tarda sera, né la notte, né gli scarsi ritagli di tempo liberi, erano di calma e di riposo: anche astraendo dall'ansia per tutte le chiese (2 Cor., 11, 28) da lui già fondate e con le quali manteneva continue relazioni, egli doveva prodigarsi in mille maniere con quanti venivano ad ascoltarlo e si preparavano a diventar cristiani, continuando insomma in un campo più vasto quella minuta incessante attività in cui già lo vedemmo prodigarsi a Tessalonica (§ 397).
E tutto ciò avveniva fra le ostilità incessanti dei Giudei, che non perdonavano allo scismatico della sinagoga la sua fruttuosa attività indipendente. Poco dopo Paolo poteva attestare questa operosità agli anziani di Efeso, appellandosi alla loro esperienza: Voi sapete, dal primo giorno che entrai nell'Asia, come mi comportai con voi per tutto il tempo servendo al Signore con ogni umiltà e lacrime e prove, che mi sopraggiunsero per le insidie dei Giudei: (e sapete) come nulla sottrassi delle cose giovevoli, sì da annunziarve(le) ed insegnarve(le) pubblicamente e casa per casa... Perciò siate vigilanti, ricordandovi che per un triennio di giorno e di notte non cessai con lacrime di ammonire uno per uno (Atti, 20, 18-20…-31). E, da Efeso stessa, scrivendo ai Corinti egli era in grado di dichiarare: Fino all’ora presente e abbiamo fame, e abbiamo sete, e siamo nudi, e siamo schiaffeggiati, è .andiamo raminghi, e ci affatichiamo lavorando con le proprie mani: insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; diffamati, blandiamo; come spazzatura del mondo diventammo, sozzura di tutti fino ad ora (I Cor., 4, 11-13). Questo, in sostanza, fu il genere di vita tenuto da Paolo durante il triennio complessivo (§ 159) della sua dimora in Efeso.
459. Indubbiamente in quell'uomo c'era qualcosa di eccezionale che lo teneva su ritto in mezzo a quella tempesta; ce lo fa capire Luca, da buon medico, nel tempo stesso che ci riferisce il risultato straordinario di questa operosità: Tutti gli abitanti dell’Asia (proconsolare) udirono la parola del Signore, sia Giudei che Greci; e prodigi non ordinari faceva Iddio per le mani di Paolo, tanto che pure dalla sua pelle erano portati via sudari e grembiuli (per applicarli) sui malati, e le malattie li lasciavano e gli spiriti maligni uscivano (da loro) (Atti, 19, 10-12). Questi sudari erano come ampi fazzoletti usati in Oriente per asciugarsi la fronte, e i grembiuli erano quelli impiegati da operai e perciò anche da Paolo stando al telaio. La ricerca di questi oggetti da parte degli abitanti di Efeso anticipa in qualche modo il culto delle reliquie che si svilupperà più tardi nella Chiesa.
C'è bisogno di dirlo? I razionalisti, sentendo parlare di prodigi, torcono il viso, e in ossequio al loro «dogma laico» invocano in proprio soccorso la leggenda. Non s'avvedono però che l'accorto Luca vuole fornire la ragione, anche psicologica, dell'immenso successo ottenuto da Paolo, per cui da Efeso la Buona Novella si diffuse più o meno in tutta l'Asia proconsolare; rifiutata perciò la ragione di Luca, resta ad essi il compito di addurne un'altra che spieghi storicamente il successo: e quando l'avranno addotta, coloro che non accettano il «dogma laico» invocheranno in proprio soccorso soltanto il buon senso. Fatto sta che Paolo, dopo pochi mesi di quella vita e di quella produzione taumaturgica, era diventato persona notissima in tutta Efeso, come appare dagli episodi che Luca soggiunge subito appresso. Ma, prima, noi dobbiamo diluire la sua sommaria notizia che in tutta l'Asia proconsolare si diffuse la Buona Novella.
460. La situazione di Paolo ad Efeso come evangelizzatore è riassunta con ogni precisione nelle parole ch'egli scrive appunto in quel tempo da Efeso ai Corinti: Una porta mi si è aperta, grande ed efficace (***) (I Cor., 16, 9); era la porta che immetteva direttamente nel popoloso e cosmopolitico retroterra della metropoli (§ 452). L'irradiazione della Buona Novella, da Efeso verso le 500 città della provincia, avvenne man mano occasionalmente mediante innumerevoli legami di gente che andava e veniva nella capitale e per caso vi ascoltava Paolo: naturalmente costui doveva favorire e curare questi legami, tenui da principio, poi sempre più robusti e sempre più ramificati; era il solito metodo seguito già nella prima fondazione di Antiochia Pisidica (§ 335), e più o meno in tutte le altre successive. Ma su tutta questo lavorio, che dovette essere immenso, Luca non ci ha detto nulla, limitandosi ad accennarne il risultato: tuttavia, in compenso, possiamo parzialmente riscontrare questo risultato con i dati di altre fonti.
Un quarantennio più tardi fu scritto il libro dell'Apocalisse, il qual,e si indirizza alle sette chiese che (stanno) nell’Asia proconsolare (Apoc., I, 4), e che sono quelle di Efeso, Smirne,. Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea (ivi, 11; capp. 2-3); ora, queste comunità cristiane appaiono alla fine del sec. I non soltanto bene organizzate, ma anche afflitte da tribolazioni e talune perfino in condizioni di decadenza. Tutto ciò fa supporre che l'origine di queste comunità non era recentissima, bensì risaliva a qualche decennio prima: il che ci riporta, se non proprio ai tempi della dimora di Paolo ad Efeso, a quelli immediatamente successivi.
Altri dati ritroviamo nelle stesse lettere di Paolo. Mentre egli sarà prigioniero a Roma, un decennio scarso dopo la sua dimora ad Efeso, scriverà lettere ai suoi neofiti dell'Asia Minore e da esse raccogliamo quanto segue.
461. Lungo il corso del nume Lico erano sorte comunità cristiane nelle città di Laodicea, Colossi e Jerapoli (§ 20), le due prime poste a breve distanza fra loto sulla riva sinistra del nume a Sud, la terza invece sulla riva destra a Nord. Paolo conosceva benissimo queste comunità e ne seguiva ansiosamente le vicende, tuttavia egli non le aveva fondate e neppure le aveva giammai visitate (Coloss., 2, I; cfr. I, 4. 9; 4, 13 segg.), sebbene alla comunità di Colossi egli inviasse la sua lettera che tuttora abbiamo.
Il principale propagatore della Buona Novella in quelle regioni fu Epafra, un facoltoso greco di Colossi: questa sua operosità è sicura riguardo alla patria sua (Coloss., I, 7-8) ed è molto probabile riguardo a Laodicea e Jerapoli (ivi, 4, 13); poiché le relazioni tra Colossi ed Efeso erano intense, si può concludere che Epafra in un suo viaggio ad Efeso conoscesse Paolo, ascoltasse i suoi discorsi nell'aula di Tiranno, e si convertisse al cristianesimo con tanta cordialità che ne divenne subito propagatore appena tornato nelle sue regioni.
Ma presto ebbe laggiù anche dei coadiutori, di cui tuttavia non sappiamo se si convertissero per opera di Epafra colà, oppure per opera di Paolo ad Efeso. Probabilmente era stato convertito direttamente da Paolo quel Filemone a cui egli indirizzò la letterina che ancora abbiamo (Filem., 19); nella sua casa, a Colossi, si radunava la comunità, ed egli insieme con sua moglie Appia aveva contribuito alla diffusione del Vangelo (ivi, 1-2). A Laodicea, invece, la comunità si adunava in casa di un certo Ninfa (Coloss., 4, 15), il quale nome doveva essere un'abbreviazione di Ninfodoro e non designa qui una donna.

462. Di queste tre chiese soltanto quella di Laodicea è menzionata nell'elenco dell'Apocalisse, ma ciò non implica che le altre due declinassero rapidamente dopo la morte di Paolo.
Riguardo a Jerapoli? le notizie pervenuteci dall'antichità offrono occasioni ad equivoci, a causa di omonimie e di mutazioni avvenute nelle designazioni geografiche. Parecchie erano le Jerapoli dell'Impero romano, ma nella stessa Frigia ne esistevano due, una nella Frigia prima o Pacatiana (§ 19), ed è quella della vallata del Lico, e un'altra più a Nord-Est, nella Frigia secunda o Salutaris non lungi da Sinnada: quest'ultima era chiamata, più frequentemente, Jeropoli, e inoltre dal sec. IV si trova assegnata alla Frigia Minore, designazione che in tempi anteriori si riferiva, alla Frigia settentrionale. È pertanto probabile che, fin dall'antichità, avvenissero scambi fra le due Jerapoli della Frigia. Sembra ben - essere della Jerapoli del Lico quel Papia che fiorì verso il 120, e ci ha tramandato le più antiche notizie esterne riguardo alle notizie dei vangeli canonici (303). Fu anche vescovo di Jerapoli, sullo scorcio del sec. II, quell'Abercio che nel suo famoso epitaffio fa sapere di aver visitato sia la comunità di Roma sia quelle della Mesopotamia, avendo quale compagno di viaggio Paolo (linea 12), cioè gli scritti di lui; ma la Jerapoli di Abercio non è quella del Lico, bensì la Jerapoli presso Sinnada (304). Se però Abercio menziona espressamente Paolo, vien fatto di pensare che egli ricollegasse la sua Jerapoli con l'omonima menzionata negli scritti dell'apostolo, giacché quest'ultima è chiamata Jeropoli in tal uni documenti antichi.
463. Queste sono le notizie sicure pervenute ci riguardo al gruppo di chiese lungo il fiume Lico, e ci permettono di diluire alquanto la sommaria notizia di Luca circa l'evangelizzazione dell’Asia proconsolare. Per il resto, rimangono le congetture più o meno verosimili.
Altri discepoli di Paolo, fatti ad Efeso, non avranno imitato l'operosità di Epafra spingendosi in altre direzioni? Nessuno, per esempio, si sarà recato a Tiatira, la patria della buona Lidia, la padrona del porporificio di Filippi (§ 382)? E a Mileto, dove più tardi Paolo convocherà in adunanza gli anziani della comunità di Efeso (Atti, 20, 17) e dove più tardi ancora egli lascerà malato Trofimo (2 Timot., 4, 20), non fu fondata una comunità da qualche discepolo di Paolo? A Smirne, inoltre, nel primo decennio del sec. II era vescovo Policarpo, il quale nella sua lettera ai Filippesi (3, 2) ricorda espressamente le lettere (305) di Paolo ai medesimi e si mostra espertissimo degli altri scritti dell'apostolo: ora, in questa Smirne così bene rappresentata nel cristianesimo sub-apostolico, non si sarà presentato a predicare per la prima volta qualche discepolo di Paolo inviatovi da Efeso? E le congetture si potrebbero prolungare, ma con limitata utilità pratica.
È certamente vera, dunque, la generica notizia di Luca che tutti gli abitanti dell’Asia (proconsolare) udirono la parola del Signore, in quanto fra quella densa popolazione fu sparsa ampiamente le sementa evangelica, che subito attecchì e germogliò sotto lo splendore del sole di Paolo. Tuttavia più tardi, quando questo sole fu tramontato per sempre, su quella stessa messe evangelica venne a risplendere un altro sole: sullo scorcio del sec. I Giovanni l'apostolo venne a stabilirsi ad Efeso, e da là il cristianesimo ricevette l'ultimo dei suoi vangeli, quello «spirituale» (306).
464. Frattanto, la notorietà taumaturgica di Paolo ad Efeso era troppo efficace per non suscitare tentativi d'imitazione. C'erano in città esorcisti giudei che, per antagonismo contro Paolo, s'ingegnarono di ottenere gli stessi risultati di lui ricorrendo agli stessi mezzi da lui impiegati: pensarono, cioè, che la formula «magica» usata da Paolo per liberare gli ossessi producesse meccanicamente buoni effetti, e quindi vollero usarla anch'essi; fra i quali furono sette figli di un certo Sceva, appartenente a una famiglia di sommi sacerdoti giudei. Due di loro si misero una volta ad esorcizzare un ossesso nel nome di Gesù predicato da Paolo, ma rispondendo lo spirito maligno disse: «Gesù conosco, e Paolo so (chi è), ma voi chi siete?». E avventatosi su loro l'uomo in cui era lo spirito maligno, sopraffattili ambedue prevalse su loro, cosicché nudi e feriti fuggirono via da quella casa (Atti, 19, 15-16).
465. Questo umiliante risultato si riseppe in tutta Efeso, e non fece che confermare ed accrescere l'autorità di Paolo. Una ulteriore conseguenza fu che molti di coloro che avevano creduto (nel Cristo Gesù) vennero a confessare e dichiarare le loro pratiche; parecchi poi di coloro che avevano praticato le arti magiche, avendo portato insieme (in uno stesso posto) i libri, (li) bruciarono alla presenza di tutti: e calcolarono il loro prezzo, e trovarono (che saliva a) cinquantamila (dramme) d'argento (ivi, 19). Quelli chiamati qui genericamente libri sono gli Ephesia grammata di cui già parlammo (§ 16).
La diffusione di questi scrittarelli magici è mostrata anche dar fatto che parecchi dei neofiti se ne erano serviti prima della loro conversione, e li tenevano tuttora nelle loro case non avendo provveduto a sbarazzarsene: il fallimento degli esorcisti giudei aprì gli occhi ai neofiti anche su questo punto, dimostrando l'impotenza della magia e nello stesso tempo la potenza di Paolo. Il gran falò degli scrittarelli, fatto in pubblico, volle essere quasi una riparazione del passato e una manifestazione pubblica dei nuovi sentimenti dei neofiti; né c'è bisogno di scenndere fino ai tempi del Savonarola per ritrovare siffatti falò pubblici di scritti empi od osceni, giacché essi erano praticati anche nel mondo pagano (Tito Livio; XL, 29). Il prezzo del materiale così bruciato fu rilevante, sia per la quantità degli scrittarelli sia per il loro elevato costo commerciale: le cinquantamila (dramme) d'argento equivalevano circa a 46.000 lire-oro, somma enorme per quei tempi.
466. Il terzo anno della dimora in Efeso era molto inoltrato, quando Paolo cominciò a pensare alla partenza: oramai la nuova comunità aveva salde basi e fervorosi dirigenti, e per il resto avrebbe provveduto lo Spirito. D'altra parte Efeso non era tutto il mondo, e Paolo si sentiva chiamato anche altrove; fece quindi il progetto di dirigersi verso Gerusalemme passando per la Macedonia e l'Acaia, giacché diceva dentro di sé: Dopo che (io) sia stato colà, bisogna che io veda anche Roma (Atti, 19, 21; cfr. Romani, 15, 23).
Ma, prima di mettersi in viaggio, Paolo provvide a preparare le comunità ch'egli avrebbe visitate seguendo l'itinerario progettato; perciò, avendo inviato in Macedonia due dei suoi assistenti, Timoteo ed Erasto, egli si trattenne (alquanto) tempo in Asia (Atti, 19, 22). Questo Erasto dev'essere persona diversa da quell'Erasto ch'era tesoriere della città a Corinto (§ 426). Quanto a Timoteo, questo suo invio in Macedonia insieme con Erasto sembra ben essere del tutto diverso dal suo invia a Corinto accennato in I Cor., 4, 17; 16, 10, il quale ebbe scopi differenti e già doveva essere avvenuto in precedenza; ma di ciò si tratterà a parte inseguito, perché quest'ultimo periodo della dimora di Paolo ad Efeso importa varie ardue questioni, taluna di natura soltanto indiziaria, a causa delle complicazioni avvenute nella comunità di Corinto (§ 473 segg.). Premettiamo quindi la partenza definitiva di Paolo da Efeso, che avvenne, diversamente da quanto egli aveva progettato in precedenza, per un incidente assolutamente imprevisto, ossia per il tumulto degli argentieri della città.
467. La narrazione di questo incidente è una delle pagine storicamente più vivide e meglio colorite che si ritrovino negli Atti, e noi la ripeteremo con le stesse parole dell'autore, solo aggiungendovi appresso brevi schiarimenti.
Un tale di nome Demetrio, argentiere, che faceva templi argentei di Artemide, forniva agli artigiani non poco lavoro; avendo egli radunato costoro e gli operai (addetti) a tali cose, disse: «Uomini, (voi) sapete che da questo lavoro dipende il nostro benessere; vedete anche e udite che, non soltanto in Efeso, ma in quasi tutta la (provincia di) Asia questo Paolo con persuasioni ha distornato una gran folla, dicendo che non sono (veri) Dei quelli fatti a mano. Ma ciò, non solo espone la nostra arte al pericolo di essere screditata, bensì anche (espone) il santuario della grande dea Artemide (al pericolo) di non essere stimato nulla; e verrà anche ad essere spogliata della sua grandezza colei che l’intera Asia e la (terra) abitata venera». Udito (ciò quegli uomini) e diventati pieni di sdegno, gridavano dicendo: «Grande (è) l'Artemide degli Efesii!». E si riempì la città di confusione, e fecero impeto tutti d’accordo nel teatro trascinandosi appresso Gaio ed Aristarco Macedoni, compagni di viaggio di Paolo. Volendo poi Paolo penetrare nell’(adunanza del) popolo, non glielo permisero i discepoli; e anche taluni degli Asiarchi, che gli erano amici, inviarono a lui esortandolo a non recarsi nel teatro. Gridavano dunque chi una cosa chi un'altra, giacché l'adunanza era confusa, e i più non sapevano per qual motivo fossero convenuti. Quindi (alcuni) della folla ammaestrarono (?) (***) Alessandro, avendolo i Giudei messo avanti; e Alessandro, agitando la mano, voleva far le difese davanti al popolo. Ma, riconosciuto ch'era Giudeo, si levò una sola voce da tutti, gridando per circa due ore: «Grande (è) l’Artemide degli Efesii!». Avendo però lo scriba calmato la folla, disse: «Uomini Efesii, chi è mai fra gli uomini colui che non conosce essere la città degli Efesii la custode sacra (***: § § 22, 63) della grande Artemide e della (sua statua) caduta dal cielo?Essendo in contestabili tali cose, è necessario che voi vi manteniate calmi e non facciate alcunché di precipitoso. Avete infatti condotto (qui) questi uomini (che non sono) né sacrileghi né bestemmiatori della vostra dea. Se dunque Demetrio e gli artigiani che (stanno) con lui hanno contro qualcuno una querela, (a tale scopo) si tengono le (assemblee) forensi e vi sono proconsoli: presentino accusa gli uni contro gli altri! E se poi cercate alcunché di più, sarà risolto nell’adunanza legale. Rischiamo, infatti, anche d'essere accusati di sedizione per la (giornata) d'oggi, non essendovi alcun motivo con cui potremo render conto di questo assembramento». E, detto questo, sciolse l'adunanza (Atti, 19, 24-40).
468. Ciò che più colpisce in questa narrazione è l'esattezza psicologica della scena. La massima parte di quella turba è confluita al teatro soltanto perché ha udito alcune vaghe voci, e rimane poi là per ore intere ad acclamare la dea Artemide senza saperne esattamente il perché: è il contegno tipico della folla, sempre impulsiva ed irragionevole.
I soli che agiscano con cognizione di causa sono Demetrio argentiere e in minor misura gli artigiani ed operai da lui arringati: costoro, sì, avevano interesse nel tumulto, perché costituivano la corporazione degli argentieri. Siffatte corporazioni (***) sono ricordate più volte nelle iscrizioni, ed erano molto potenti nella vita economica e sociale delle città greche. Il nostro Demetrio (307) era, se non il capo della corporazione degli argentieri di Efeso, certo uno dei suoi membri più autorevoli, una specie di grande impresario, che forniva lavoro sia ad artigiani tecnici sia ad operai più bassi. Dai suoi laboratori uscivano ogni giorno a centinaia quei tempietti (***, aediculae) che riproducevano in fac-simile il grande tempio di Artemide e contenevano dentro anche la statuetta della dea: quelli di mole più grande potevano esser impiantati stabilmente in qualche luogo all'aperto; gli altri più piccoli erano offerti come ex-voto al tempio, oppure conservati per devozione nelle case private. Siffatti oggetti erano assai comprati dai pellegrini: se ne fabbricavano anche in materie vili come pietra o terracotta, ma naturalmente i più costosi erano quelli in metalli preziosi quali ne fabbricava Demetrio, che perciò ne ritraeva lauti guadagni. Sennonché, un brutto giorno, questo sagace impresario s'accorse che tutta la sua industria era gravemente minacciata dalla nuova religione predicata da Paolo, e allora corse ai ripari arringando i suoi stipendiati: in tal modo, indirettamente, egli ci dà una qualche misura dei successi ottenuti da Paolo non soltanto in Efeso, ma in quasi tutta la (provincia di) Asia.
469. I dipendenti di Demetrio, dopo l'arringa del padrone, si diressero gridando verso il teatro, luogo ordinario di adunanze, e man mano che s'avanzavano per le strade moltissimi oziosi e curiosi si unirono con loro ingrossando a dismisura il numero; alcuni dei dipendenti di Demetrio meglio informati andarono a cercare Paolo in casa, ma non avendolo trovato trascinarono via con sé Gaio ed Aristarco Macedoni, compagni di viaggio di Paolo (308). Quando Paolo seppe dell'accaduto, voleva presentarsi spontaneamente in teatro, anche per liberare i due compagni; ma i suoi discepoli non gli permisero d'esporsi a tanto pericolo. È notevole che lo stesso consiglio gli fu dato da taluni degli Asiarchi, che gli erano amici; il che ci mostra che egli godeva di simpatie anche presso quegli eminenti magistrati (§ 22), sebbene quasi certamente non fossero cristiani.
Frattanto il subbuglio nel teatro cresceva, anche perché i più dei venuti neppur sapevano perché fossero venuti. A un certo punto poi saltò fuori quell'Alessandro (309) giudeo, il cui episodio anche letterariamente è oscuro; forse egli era stato incaricato dai Giudei, che si sentivano minacciati vagamente dalla sommossa perché alieni anch'essi dal culto di Artemide, e voleva far le difese dei suoi correligionari separando la loro responsabilità da quella di Paolo. Ma la folla non lo lasciò parlare, appunto perché Giudeo; e così la confusione e l'incertezza aumentò, e unico sfogo della folla fu di continuare a gridare per un paio d'ore: Grande (è) l'Artemide degli Efesii!
470. Intervenne alla fine lo scriba (***), certamente lo «scriba del popolo», una specie di segretario generale, la cui carica era molto importante ad Efeso ed è anche ricordata dalle iscrizioni. Quest'uomo, pratico e con i nervi a posto, richiamò la folla alla realtà delle cose: con molta abilità egli dapprima dissipò le apprensioni della folla riguardo al tempio di Artemide, che nessuno aveva vilipeso; del resto se Demetrio e i suoi artigiani avevano motivo di querelarsi, procedessero per vie legali e non in quella maniera tumultuosa: non c'era da scherzare con le autorità romane, le quali in un assembramento disordinato e ingiustificato come quello avrebbero potuta sospettare qualche sedizione politica.
L'autorità dell'oratore, e soprattutto la sensatezza delle sue osservazioni. convinse la folla: la quale, saputo finalmente con precisione di che si trattava, se ne tornò tranquillamente alle proprie case, con l'unico inconveniente di sentirsi le gole riarse per il grido mille volte ripetuto.
Il pericolo corso da Paolo, nonostante la benigna conclusione, era stato assai grave, certamente più grave di quanto risulti direttamente a noi. Se Paolo alcuni mesi più tardi, scrivendo ai Romani (16, 3-4), ricorderà Prisca ed Aquila, coadiutori miei in Cristo Gesù, i quali per la mia anima (= vita) hanno esposto il loro collo, allude molto probabilmente a quanto i due coniugi fecero per salvare Paolo in occasione del tumulto degli argentieri. Presso di loro, infatti, Paolo. alloggiava (§ 453), e là dovettero indirizzarsi i dimostranti furibondi che andarono in cerca di lui, e che non avendolo ritrovato si strascinarono appresso Gaio ed Aristarco; ma in che modo i due coniugi esponessero allora la loro vita per salvare quella di Paolo, non ci viene spiegato.
471. Un'allusione anche più oscura è quella contenuta in I Cor., 15, 32, ove Paolo così si esprime: (Parlando) fecondo (l'uso) umano, combattei con belve in Efeso. Alcuni antichi, dipendenti dagli apocrifi Atti di Paolo (§ 90, nota), interpretarono queste parole letteralmente, intendendo che l'apostolo fosse esposto alle belve nello stadio di Efeso; senza dubbio, invece, qui l'apostolo si esprime metaforicamente, alludendo a qualche gravissima tribolazione procuratagli da uomini implacabili come belve: la stessa metafora e lo stesso verbo (***) furono usati alcuni decenni più tardi da Ignazio di Antiochia, il quale scrisse ai Romani (5, 1) di stare a combattere con belve, e più precisamente con dieci leopardi, che erano i dieci soldati che lo scortavano nel viaggio verso Roma. A vere belve Paolo non avrebbe potuto essere esposto, protetto qual era dalla sua cittadinanza romana (§ 393) A quali belve metaforiche allude dunque egli?
Poiché quelle parole furono scritte nei primi mesi dell'anno 56, non si possono riferire al tumulto degli argentieri, che avvenne nel 57; si riferiranno quindi a qualche gravissima insidia, tramata probabilmente dai Giudei, ma su cui non abbiamo alcuna notizia particolareggiata. È invece una chiara allusione al tumulo degli argentieri, nonché alle altre tribolazioni sofferte sullo scorcio della dimora in Efeso, lo sfogo scritto nell'autunno del 57 dalla Macedonia: Non vogliamo che voi ignoriate, fratelli, la nostra tribolazione avvenuta nell’Asia giacché all’eccesso sopra (le nostre) forze fummo aggravati, al punto da disperare anche della nostra vita; sì, noi recavamo in noi stessi un responso di morte, ecc. (2 Cor., I, 8-9). Ad ogni modo, è assai probabile che queste varie tribolazioni fossero ricollegate l'una con l'altra, e che di questo abituale stato di cose il tumulto degli argentieri fosse la sola manifestazione di cui noi siamo informati.
472. In Efeso assaggiò Paolo anche la prigione? Astrattamente la cosa é possibile, ma in linea di fatto non ci viene attestata; poco tempo dopo, scrivendo ai Romani (16, 7), egli invierà i suoi saluti ad Andronico e Giunia suoi compagnia di prigionia (***), ma non sappiamo se questa compagnia avvenisse ad Efeso o altrove. Nel caso che avvenisse ad Efeso, la permanenza in prigione dovette essere assai breve, come quella a Filippi (§ 388 segg.) o poco più; difficilmente, infatti, Luca avrebbe, omesso ogni menzione di una lunga prigionia durante un periodo, come questo, d'intensa operosità per Paolo. Questo argomento è molto più stringente contro chi supponga - come alcuni moderni hanno fatto (§ 566) - che appunto da Efeso Paolo avrebbe scritto le cosiddette lettere della prigionia; queste lettere, infatti, furono scritte quando Luca era a fianco al prigioniero Paolo (Coloss., 4, 14; Filem., 24), e tanto meno quindi Luca avrebbe potuto omettere la presunta lunga prigionia di Efeso. La quale, perciò, è da considerarsi come una delle tante ipotesi moderne prive di serio fondamento.
Il tumulto degli argentieri chiuse la serie delle tribolazioni, facendo decidere Paolo ad allontanarsi da Efeso anche per non esporre la nuova comunità a maggiori persecuzioni. Perciò, quando il tumulto fu calmato, Paolo avendo fatto venire i discepoli, e avendo(li) esortati e salutati, partì per andare in Macedonia (Atti, 20, 1). Era l'itinerario progettato già in precedenza (§ 466).
Noi, tuttavia, non possiamo allontanarci da Efeso insieme con Paolo, perché dobbiamo ripassare in esame gli ultimi tempi della sua dimora ivi, affrontando quelle questioni indiziarie a cui già accennammo (§ 466), e che ci dischiuderanno un altro vasto orizzonte di tribolazioni ed angustie per Paolo. Sono le tribolazioni di ciò che egli chiamava l'aggravio mio di ogni giorno, l'ansia per tutte le chiese (§ 430); questo aggravio, come lo aveva indotto mentre era a Corinto ad occuparsi dei Tessalonicesi ed a scrivere a loro, così qui ad Efeso lo indusse a seguire da lontano le vicende della comunità di Corinto: e furono vicende assai burrascose.
473. LE DUE LETTERE AI CORINTI. Per avere un filo conduttore attraverso queste vicende, premettiamo uno schema cronologico secondo cui - a parer nostro - esse si svolsero; ricordiamo che la dimora di Paolo - ad Efeso comprende una parte dell'anno 54, gli interi anni 55 e 56, e una parte del 57, essendone egli partito verso il maggio di quest'anno (§ 159)
Anno 55, sul finire. Paolo scrive una lettera ai Corinti oggi perduta (1 Cor., 5, 9), e anteriore di alcuni mesi alla I Corinti conservatasi. Più tardi egli riceve cattive notizie sul conto della comunità di Corinto recategli ad Efeso da quei (della casa) di Cloe (1 Cor., 1, 11); turbato da tali notizie, egli invia a Corinto Timoteo (ivi, 4, 17; 16, 10).
Anno 56, qualche mese prima della Pentecoste. Paolo, trepidante per la missione di Timoteo, comincia a scrivere una nuova lettera, che è la I Corinti conservatasi (ivi, 16, 8). Durante la scrittura della lettera, o anche poco prima, giunge da Corinto la deputazione formata da Stefano, Acaico e Fortunato (ivi, 16, 15-17) che reca notizie ancora non buone (ivi, 5, 1; 11, 18), e probabilmente anche una lettera della comunità di Corinto che chiede talune norme a Paolo (ivi, 7, 1 segg.).
Anno 56: estate-autunno. Timoteo ritorna da Corinto ad Efeso recando sconfortanti notizie riguardo alla sua missione e all'effetto prodotto laggiù dalla I Corinti. Perciò Paolo si decide a recarsi personalmente a Corinto: questa visita di Paolo a Corinto, del tutto taciuta dagli Atti forse perché brevissima, fu la seconda fatta da lui ed è affermata implicitamente da parole di lui (2 Cor., 12, 14; 13, 1-2 testo greco). Oltreché brevissima, è questa una visita fatta in tristezza (ivi, 2, 1), a causa delle pessime condizioni in cui egli ha ritrovato quella comunità. Visto che il male non può esser guarito in breve, e d'altra parte, non potendo Paolo rimaner lontano da Efeso molto tempo, egli ritorna quasi subito ad Efeso ripromettendosi di agire da lontano sulla guasta comunità di Corinto.
Anno 56, sul finire. Paolo procrastina per misericordia un immediato ritorno a Corinto a punirvi i meritevoli (2 Cor., I, 15. 16. 17. 23; 2, 1; 13, 2). Frattanto invia Timoteo in Macedonia per preparare quelle comunità al suo arrivo (Atti, 19, 22; § 466), e spedisce direttamente a Corinto una lettera severissima; è questa la lettera scritta con molte lacrime (2 Cor., 2, 4; 7, 8), che non si è conservata e sarebbe la terza in ordine cronologico fra quelle inviate ai Corinti.
Anno 57, sul principio. Ansiosissimo per le condizioni di Corinto, Paolo invia colà Tito a riscontrare l'effetto della lettera scritta con molte lacrime (2 Cor., 7, 5-7; 12, 18), prescrivendogli che al ritorno segua la via di terra e si fermi a Troade ad aspettarlo (ivi, 2, 12-13).
Anno 57, verso il maggio. Il tumulto degli argentieri costringe Paolo a partire da Efeso improvvisamente. Giunto egli a Troade, ove aveva dato appuntamento a Tito; non ve lo trova; la sua ansia per le notizie di Corinto lo spinge a proseguire per la Macedonia onde anticipare il suo incontro con Tito (2 Cor., 2, 12-13; Atti, 20, 1); ivi finalmente lo incontra, e ne riceve notizie in complesso abbastanza buone (2 Cor., 7, 5-7).
Anno 57: estate-autunno. Paolo dalla Macedonia scrive la II Corinti conservatasi, che è la quarta in ordine cronologico fra le lettere inviate a quella comunità. Probabilmente si spinge fino all'Illiria.
Anni 57-58, nell'inverno fra i due anni. Paolo viene per la terza volta a Corinto e vi dimora tre mesi (Atti, 20, 2-3). I vi scrive la lettera ai Romani (Rom., 16, I; cfr. 16, 23 con I Cor., 1, 14), che tiene dietro di pochi o di molti mesi alla lettera ai Galati (§ 505)
474. Esaminiamo ora i fatti disposti nel precedente schema cronologico.
Della lettera scritta ai Corinti sul finire dell'anno 55, oggi perduta, noi conosciamo solo l'accenno che Paolo ne fa più tardi (I Cor.) 5, 9), ove ricorda di aver loro raccomandato di non mantenere rapporti con fornicatori. Sebbene così isolato, l'accenno è significativo perché dimostra che non poco dell'antico fango morale era rimasto attaccato addosso ai neofiti di Corinto. Inoltre, questa ammonizione era stata interpretata in senso falso; alcuni, forse tendenziosamente per screditare il lontano Paolo, l'avevano interpretata come se egli avesse imposto ai cristiani di Corinto di troncare ogni rapporto con gente scostumata di qualsiasi ceto. Era mai possibile ciò in una città come Corinto, che era tutta un postribolo (§ 421)? Ma Paolo pazientemente spiega che non aveva voluto dir questo, altrimenti dovreste uscir fuori del mondo (I Cor., 5, 10); egli aveva solo ammonito di evitare quei neofiti che ancora non si erano liberati totalmente dalle vecchie usanze. Fin dal 55, dunque, Paolo era seriamente preoccupato per le condizioni morali dei Corinti.
475. Poco dopo, le sue preoccupazioni si estesero ad un altro campo. I familiari di una certa Cloe, una signora di Corinto che aveva frequenti relazioni - forse commerciali - con Efeso, erano giunti in questa città ed avevano riferito a Paolo che nella comunità dell'istmo c'erano dissensi e si erano formati partiti contrastanti; alcuni si vantavano di aderire a Paolo, altri di seguire Apollo, altri ancora di preferire Cefa, taluni infine affermavano di starsene con Cristo. Non sarebbero stati i cavillosi Greci della decadenza, quei Corinti, se non si fossero raggruppati in tante conventicole, ognuna col proprio vessillo e pronta a condannare la conventicola opposta! Non che fossero già avvenute delle vere scissioni: erano piuttosto correnti diverse che si erano delineate e si gloriavano di qualche celebre nome, all'incirca come in un'odierna università un gruppo di studenti parteggia per il professore Tizio, un altro per il professore Caio e un terzo per Sempronio, pur appartenendo tutti alla stessa università. Queste rivalità erano state provocate, o involontariamente o a bella posta, da predicatori sopraggiunti a Corinto dopo la partenza di Paolo e che avevano influito sulla proverbiale volubilità dei Corinti.
Uno di questi era stato Apollo: il suo parlare fiorito e le sue alate allegorie (§ 453) gli avevano conquistato le simpatie di molti, che lo anteponevano a Paolo oratore dimesso e rude. Dopo Apollo erano scesi in campo altri predicatori: da Gerusalemme erano arrivati taluni giudeo-cristiani, muniti di lettere commendatizie dei grandi apostoli di laggiù; e avevano creato un loro gruppo particolare; poiché costoro si appellavano continuamente al nome di Cefa, forse anche contrapponendolo al nome di Paolo, il nuovo gruppo figurò come il gruppo di Cefa. Altri ancora trascurando nomi umani, formavano il gruppo del Cristo: probabilmente erano coloro che, facendosi forti di doni carismatici, si ritenevano illuminati direttamente dal Cristo senza intermediari umani, seppur non erano immigrati palestinesi che avevano conosciuto il Cristo durante la sua vita mortale e perciò credevano di ritrovarsi in condizioni privilegiate. Un gruppo infine, infastidito da codeste novità, si professava tuttora aderente a colui che per primo aveva parlato del Cristo a Corinto: era il gruppo di Paolo.

476. Uno dei primi ad essere impensierito di questo sgretolamento degli spiriti fu Apollo, che ne era stato parziale e involontaria cagione. Sul finire del 55 egli, lasciata Corinto, era tornato ad Efeso ed aveva informato Paolo di tutto, confermando le notizie recate dai familiari di Cloe; il fatto stesso che egli abbandonò il campo dei suoi non ricercati trionfi, dimostra ch'egli vedeva con dispiacere il suo nome diventato vessillo di discordie. Dal canto suo Paolo aveva piena fiducia in Apollo, e riconosceva volentieri il contributo da lui recato al consolidamento della comunità corintia (I Cor., 3, 6); insistette anche molto presso di lui affinché tornasse di nuovo a Corinto a fare opera di concordia, ma non riuscì ad ottenere che partisse (ivi, 16, 12).
Con tutto ciò non è mancato qualche critico moderno che ha visto in Apollo il sommo avversario di Paolo a Corinto, avversario subdolo e tenace da cui Paolo si difende velatamente e quasi con paura. È una delle solite costruzioni fantastiche che trascurano o deformano le esplicite attestazioni storiche; e in compenso portano prove irrisorie. Non era davvero Paolo l'uomo da aver paura di Apollo, se costui fosse stato suo nemico: chi aveva affrontato audacemente Pietro ad Antiochia (§ 364 segg.),era bene in grado di affrontare Apollo in maniera anche più aperta e diretta senza ricorrere a presunti sotterfugi puerili (310), e tanto meno avrebbe pregato il lupo di andare in mezzo al gregge invitandolo insistentemente a tornare a Corinto. Al contrario, ancora alcuni anni più tardi, Paolo userà speciali riguardi per Apollo (Tito, 3, 13) mostrando l'immutata stima che aveva per lui.
Naturalmente, tanto poco c'entrava Apollo col suo gruppo, quanto poco c'entravano Cefa e Cristo e Paolo con i rispettivi gruppi: i responsabili veri erano i mestatori che si ricoprivano di quei nomi più o meno grandi, per puro spirito di partigianeria. E così la comunità rischiava di finire a pezzi.
477. Rifiutandosi Apollo di tornare a Corinto, Paolo inviò colà Timoteo sperando ch'egli riuscisse ad ovviare ai vari inconvenienti e specialmente a quello delle conventicole. Di rincalzo, egli decise d'inviare una lettera a Corinto per agevolare la missione di Timoteo. È la nostra I CORINTI, la quale perciò ha lo sfondo storico che finora abbiamo, visto, Paolo stava per cominciare la dettatura della lettera, che lo avrebbe tenuto occupato di sera per parecchie settimane (§ 177 segg.), allorché giunse da Corinto la deputazione di Stefana, Acaico e Fortunato: è anche più probabile, tuttavia, che la composizione della lettera fosse già iniziata e fossero già stati scritti i fogli costituenti i primi quattro capitoli, e a questo punto giungesse la deputazione con le spiacenti notizie e con la lettera inviata da quei di Corinto; al capitolo quinto, infatti, la trattazione di Paolo ha come un sobbalzo, simile a quello d'un destriero che abbia ricevuto una sferzata improvvisa. Alle antiche e alle recenti notizie replica complessivamente la lettera di Paolo, come pure risponde ai quesiti proposti dalla lettera testé giunta da Corinto. Eccone un riassunto.
478. Dopo i convenevoli usuali, la prima questione trattata è quella delle conventicole, che si riferisce alle notizie che Paolo ha ricevute da più lungo tempo.
Dissensi in una comunità cristiana non devono esistere, mentre a Corinto chi si dice di Paolo, chi di Apollo, chi di Cefa, chi di Cristo. E che? È stato diviso il Cristo? Forse Paolo fu crocifisso per voi, ovvero nel nome di Paolo foste battezzati? (1 Cor., I, 13). Paolo è ben contento di non aver battezzato personalmente che pochissimi a Corinto, cosicché il suo nome non potrà servire da pretesto per conventicola; egli ha soltanto evangelizzato, parlando non in sapienza di discorso ma la parola della croce che è salvezza per gli eletti. Iddio infatti ha reietto la sapienza umana, per far trionfare la stoltezza della predicazione cristiana; giacché i Giudei cercano i miracoli e i Greci la sapienza, mentre il Cristo crocifisso è scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani ma salvezza per gli eletti, siano essi Giudei o Greci. I Corinti stessi non sono forse privi delle grandi doti apprezzate dal mondo? Eppure, per mezzo loro, Iddio confonde il mondo. Paolo, da principio, parlò ad essi non in sapienza umana, bensì annunziando Gesù Cristo crocifisso, e fece ciò affinché la loro fede si fondasse sulla possanza di Dio. Egli, in realtà, conosce una sapienza ignota al mondo, e rivelatagli solo dallo Spirito di Dio che scruta tutto; ma Paolo non la comunica agli uomini carnali, bensì agli spirituali: i Corinti, invece, sono ancora carnali, come bambini in Cristo (3, 1), e non possono ricevere quel nutrimento da uomini maturi, come il loro contegno dimostra.
Chi è Paolo e chi Apollo, nel cui nome essi si dividono? Sono egualmente ministri di Dio, ognuno a suo modo. Io piantai, Apollo innaffiò, ma Iddio fece crescere (3, 6). Paolo è stato l'ingegnere che ha gettato le fondamenta, e altri in seguito è venuto a sopraelevare la costruzione: ma le fondamenta saranno sempre Gesù Cristo, e le sopra costruzioni fatte con materiali nobili oppure con legno e paglia saranno sottoposte alla prova del fuoco nel giorno del Signore. I Corinti non si lascino sedurre da nomi di cui vantarsi: Nessuno si vanti di uomini: ogni cosa, infatti, è vostra, sia Paolo, sia Apollo, sia Cefa, sia mondo, sia vita, sia morte, sia cose presenti, sia cose future, tutte (sono) di voi, voi poi di Cristo, Cristo poi di Dio (3, 21-23). Paolo e gli altri apostoli sono i ministri di Cristo e gli economi dei misteri di Dio; ma la loro condotta deve esser giudicata, non già dagli uomini, bensì dal Signore quando verrà. Eppure, ecco, i Corinti sono ora sazi, sono ricchi, sono potenti, mentre Paolo e gli altri apostoli sono diventati lo spettacolo del mondo, degli angeli e degli uomini, figurando come stolti, fiacchi, ignobili, soffrendo fame, sete, nudità e ogni altra privazione: ma egli dice questo ai Corinti in amorevole ironia, volendo esortarli come padre, fra i moltissimi pedagoghe ch'essi possano avere, giacché egli è stato il loro vero padre in Cristo. Avverte poi che ha inviato ad essi Timoteo (§ 477), in attesa di poter venire egli stesso (Capp. 1-4).
479. Bruscamente Paolo passa alla questione dei costumi (311): Egli ha saputo di gravi fatti avvenuti tra i fedeli di Corinto, tanto gravi che non avvengono neppure tra i pagani: un cristiano ha osato sposare la propria matrigna rimasta vedova; e i confratelli si sono gloriati di questo misfatto, invece di scacciare l'incestuoso d'in mezzo a loro. Ma Paolo, spiritualmente presente, consegna a Satana il corpo del colpevole, affinché il suo spirito sia salvo nel giorno del Signore. Siano cauti, i Corinti: rimuovano d'in mezzo a loro ogni fermento di malizia, e si conservino quali pani azimi per la loro Pasqua che è Cristo. Nella sua lettera precedente Paolo ha raccomandato di non aver rapporti con fornicatori (§ 474), ma egli non si riferiva ai pagani, bensì ai neofiti che non si sono ancora liberati da quel vizio: con siffatti confratelli, di cattiva condotta i fedeli non devono neppure sedersi a mensa insieme (Cap. 5).
480. Segue la questione dei tribunali pagani (312). - Il cristiano che è stato leso nei suoi interessi da un confratello, oserà rivolgersi per aver giustizia ai tribunali pagani trascurando il giudizio dei suoi confratelli? Ma non sanno i Corinti che i cristiani un giorno giudicheranno il mondo e gli angeli? A giudicare su questioni d'interessi materiali bastano anche i più umili fedeli. È già un male che sorgano siffatte questioni tra fedeli, mentre sarebbe meglio sopportare pazientemente l'ingiustizia; ad ogni modo non si ricorra a giudici pagani. E prima ancora, non si facciano sorgere tali questioni commettendo, frode ed ingiustizia: anche queste vecchie usanze dei Corinti sono state abolite quando essi diventarono cristiani (Cap. 6, 1-11).
481. Ritorna la questione dei costumi. - Alcuni neofiti credono che, avendo acquistato la libertà nel Cristo, possano anche praticare la fornicazione; la quale del restò, a parer loro, è cosa prevista e preparata dalla natura, come la digestione dei cibi: i cibi per il ventre, e il ventre per i cibi (6, 13). Niente affatto: il corpo non è per la fornicazione, bensì per il Signore. Inoltre il cristiano è diventato, mediante il battesimo, membro di Cristo: prendendo dunque le membra del Cristo, (le) farò membra di una prostituta? Né si profani il tempio del santo Spirito: non sapete che il vostro corpo è tempio del santo Spirito il quale (è) in voi, il quale avete (ricevuto) da Dio, e (che voi) non siete di voi stessi? (Cap. 6, 12-20) (313).
482. Seguono le risposte a vari quesiti contenuti nella lettera giunta testé da Corinto. - Astenersi dall'uso del matrimonio è cosa buona, ma per sfuggire alla fornicazione si ricorra a quell’uso. Il marito ne ha il dovere verso la moglie, e la moglie verso il marito: ciascuno dei due ha potestà sul corpo dell'altro. Astenersi è lecito, purché di comune consenso, a fine spirituale e per breve tempo. Paolo augura ad ognuno di essere come lui (314); ma chi non è in grado d'imitarlo, sposi pure. A chi è unito in matrimonio comanda, non già Paolo ma il Signore, che la donna non si separi dall'uomo - chè se poi è separata, rimanga senza sposare, oppure si riconcili con l'uomo ­ e (che l')uomo non rimandi (la) donna (7, 10-11) (315). Fra due coniugi, di cui uno solo è diventato cristiano, il matrimonio permane; ma se il coniuge non cristiano si separa, il coniuge cristiano rimane libero (316). In genere, poi, ciascuno rimanga nella condizione in cui era prima di diventare cristiano: circonciso o incirconciso, schiavo o libero, tutti sono uguali davanti a Cristo (Cap. 7, 1-24).
483. Questione della verginità e della vedovanza. - Riguardo alla verginità, Paolo non ha un precetto del Signore da comunicate ai Corinti: dà soltanto consigli conforme alla sua propria esperienza. Stimo, pertanto, ciò esser bene a causa della insita necessità (***), (ossia stimo) che (è) bene per l'uomo di star(sene) così (7, 26), cioè nella condizione di Paolo che è senza moglie (317). Chi ha moglie non se ne separi, e chi non l'ha non la prenda; quei che sposano non fanno nulla di male, ma tribolazione nella carne avranno questi tali. Il motivo del consiglio di Paolo è spiegato subito appresso. Questo dico, fratelli: Il tempo è raccorciato; non resta se non che e gli aventi moglie siano come non aventi, e i piangenti come non piangenti, e i gaudenti come non gaudenti, e i compratori come non possessori, e i fruenti del mondo come non fruenti appieno; trascorre via, infatti, l'aspetto (***) di questo mondo. Voglio invece che voi siate senza ansie. Chi non è sposato è ansioso delle cose del Signore, di come piaccia al Signore; chi invece è sposato è ansioso delle cose del mondo, di come piaccia alla donna, ed è diviso (7, 29-33) (318). Lo stesso, in proporzione, si dica della donna. Un padre può benissimo dar marito a sua figlia, prima ch'ella trascorra il fiore degli anni; tuttavia farà meglio a non maritarla. Anche la vedova può benissimo rimaritarsi; tuttavia farà meglio a rimanere vedeva secondo il mio consiglio, giacché creda anche io d'avere lo spirito di Dio (Cap. 7, 25-40).
484. Questione degli idolotiti (319). - I Corinti si regolino con scienza, ma anche con carità. Mangiare carni sacrificate ad idoli non è per sé illecito, giacché l'idolo è un nulla, ed esiste il solo vero Dio; tuttavia, essendovi taluni di scienza imperfetta che stimano illecite tali carni; bisognérà caritatevolmente astenersi dal mangiarle per non scandalizzare codesti deboli. In parallelo, Paolo porta l'esempio di se stesso come apostolo; i Corinti lo riconoscono indubbiamente come apostolo, e perciò egli avrebbe diritto di farsi mantenere a spese loro e di condurre, con sé una donna cristiana che gli faccia da governante, come (fanno) anche gli altri apostoli, e i fratelli del Signore e Cefa. Forseché solo io e Barnaba non abbiamo la potestà di star senza lavorare? (9, 5-6). Questo suo diritto è dimostrato anche da esempi dell'Antico Testamento: eppur egli non se ne serve per non frapporre ostacoli al vangelo del Cristo, e vuole evangelizzare gratuitamente facendosi tutto a tutti per guadagnare tutti al Cristo; come gli atleti nello stadio si sottopongono a dure privazioni per raggiungere il premio, così egli sforza il suo corpo accettando ogni rinunzia per ottenere la corona incorruttibile. Molti fatti dell'Antico Testamento, preadombrante il Nuovo, ammoniscono di fuggire la concupiscenza e l'idolatria, e di ricorrere all'aiuto di Dio nelle tentazioni. Partecipare alle mense di sacrifizi idolatrici è illecito, come per opposizione è dimostrato dal banchetto dell'Eucaristia: Il calice di benedizione che benediciamo non è forse comunanza del sangue del Cristo? Il pane che spezziamo non è forse comunanza del corpo del Cristo? Così, per opposizione; chi partecipa a banchetti idolatrici fa comunanza con i demonii. Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demonii; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demonii (10, 21). In pratica, si badi a non scandalizzare gli altri; si mangino liberamente carni vendute al macello senza interrogare se provengano da sacrifizi, e così pure si accettino inviti a pranzo in case di pagani; ma se è stata data un'avvertenza pubblica che la vivanda proviene da un sacrifizio idolatrico, non se ne mangi per non turbare la coscienza altrui (320). Si faccia tutto per la gloria di Dio e per la carità del prossimo: in ciò si imiti lui, Paolo, come egli imita Cristo (Capp. 8-11, 1).
485. Questioni riguardanti le adunanze cristiane: il velo delle donne, l'agape e l'Eucaristia. - Alle adunanze religiose la donna intervenga col capo velato, sia per dimostrare la sua subordinazione all'uomo sia per (riverenza verso) gli angeli (11, 10) (321).
Il pasto comune, o «agape» (322), non si faccia in tanti gruppi separati a cui intervengano alcuni che sono affamati e altri che sono già ebbri; si mangi prima a casa propria, e il pasto comune si faccia decorosamente, con caritatevole uguaglianza, e per lo scopo precipuo di celebrare la cena del Signore (11, 20). Riguardo a questa cena, ossia all'Eucaristia, Paolo afferma: Io infatti ricevetti dal Signore ciò che anche trasmisi a voi, che il Signore Gesù nella notte in cui fu tradito prese del pane e avendo reso grazie (lo) spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, quello (dato) per voi; ciò fate nel mio ricordo». Parimenti (egli prese) anche il calice dopo aver cenato, dicendo: «Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue; ciò fate, ogni qual volta beviate, nel mio ricordo». Ogni qual volta infatti mangiate questo pane e beviate il calice, annunziate la morte del Signore, fino a che venga. Di modo che, chi mangi il pane o beva il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (11, 23-27). Perciò l'uomo si esamini prima di partecipare alla cena del Signore, giacché partecipandovi indegnamente mangia e beve la sua propria condanna (Cap. II, 2-34).
486. Questione dei carismi: la carità (323). - Provengono tutti dallo Spirito santo e mirano tutti all'utilità comune. Sono differenti come sono differenti le membra del corpo umano, pur contribuendo ogni membro al benessere generale dell'organismo. I Corinti aspirino ad avere i migliori fra i carismi, ossia quelli che più contribuiscono all'edificazione comune. Ma esiste qualcosa più eccellente di tutti i carismi, ed è la carità; ad essa Paolo innalza il suo alato «encomio», che anche letterariamente ha le movenze di un inno:
- Se le lingue degli uomini (io) parli e degli angeli, ma carità non abbia: divenni bronzo risonante o cembalo vibrante.
- E se (io) abbia profezia, e conosca i misteri tutti e tutta la scienza; e se (io) abbia tutta la fede sì da spostare montagne, ma carità non abbia: niente (io) sono.
- E se (io) sbocconcelli (fra i poveri) tutte le mie sostanze: e se consegni il mio corpo affinché (io) sia bruciato, ma carità non abbia: a niente mi giova. La carità è longanime; è giovevole la carità. Non è invidiosa la carità, non ha iattanza, non si gonfia, non è, scomposta, non cerca le cose sue, non s'adira, non imputa il male, non gode dell'ingiustizia; si compiace invece della verità, tutte cose ricopre, tutte cose crede, tutte cose spera, tutte cose sopporta. La carità: giammai cade: siano profezie, saranno abolite; siano lingue, cesseranno; sia conoscenza, sarà abolita. Imperfettamente in vero conosciamo, e imperfettamente profetiamo; ma quando venga ciò (ch'è) perfetto, ciò (ch'è) imperfetto sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo come bambino, pensavo come bambino, ragionavo come bambino: ma quando divenni uomo, abolii le cose da bambino: Scorgiamo, infatti, adesso mediante specchio in enigma, allora invece da faccia a faccia; adesso conosco imperfettamente, allora invece conoscerò come sono anche conosciuto; adesso rimane fede, speranza, carità, queste tre, ma più grande fra queste è la carità (13, 1-13).
Fra i carismi, la profezia è da preferirsi alla glossolalia; questa edifica l'individuo, quella giova a tutta la comunità: Nelle adunanze parlino due o tre glossolali successivamente, e siano seguiti dall'interprete; così pure parlino due o tre profeti. Le donne non prendano la parola nelle adunanze (Capp.
12-14).
487. Questione della resurrezione dei morti. - I Corinti sono già stati catechizzati da Paolo che Cristo. morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risorto; il risorto apparve a Cefa, poi ai Dodici; poi a più di 500 fratelli insieme di cui alcuni sono ancora superstiti, quindi a Giacomo e a tutti gli apostoli; infine apparve anche a Paolo come ad un aborto, giacché egli è il minimo degli apostoli e indegno di esser chiamato apostolo perché perseguitò la Chiesa d'Iddio (324). Se dunque Cristo è risorto, come mai alcuni fra i Corinti dicono che non vi sarà la resurrezione dei morti? (325). La sorte di Cristo è quella dei suoi seguaci: se dunque non vi sarà la resurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto. E se Cristo non è risorto, vana è la predicazione di Paolo e vana la fede dei cristiani; e se i cristiani sperano in Cristo soltanto in questa vita, sono i più infelici fra gli uomini. Ma Cristo è certamente risorto: poiché, infatti, mediante un uomo (avvenne) la morte, anche mediante un uomo (avverrà) la resurrezione dei morti; come, infatti, in Adamo tutti muoiono, così pure nel Cristo. tutti saranno vivificati (15, 21). Primizia di questa resurrezione è il Cristo, e a questa primizia seguirà la messe - ossia i suoi fedeli - alla parusia di lui. Egli, infatti, trionferà di tutti i suoi nemici, ultima dei quali è la morte: allora egli consegnerà il suo regno al Padre. Del resto la fede nella resurrezione è attestata dall'uso riscontrabile fra i Corinti, alcuni dei quali si fanno battezzare in pro dei loro morti (326); è anche attestata dalla vita di continua abnegazione che fa Paolo, sorretto da quella fede.
488. Ma tal uno domanderà in che modo risorgeranno i morti, e con qual corpo torneranno. È un'insensatezza. Avverrà come al chicco di seme, che non germoglia se prima non muore corrompendosi nel terreno: così il corpo umano è seminato nel corrompimento della morte e poi risorge nella incorruttibilità; è seminato un corpo «psichico», sorge un corpo «pneumatico». Se c'è corpo «psichico», c'è pure «pneumatico»; così anche sta scritto: «Divenne il primo uomo, Adamo, psiche vivente» (Genesi, 2, 7); l'ultimo Adamo (divenne) «pneuma» vivificante. Ma non (è) prima il «pneumatico» bensì lo «psichico», poi il «pneumatico». Il primo uomo dalla terra, cretaceo! il secondo uomo, dal cielo (15, 44-47) (327). I cristiani, che già portarono l'immagine dell'uomo cretaceo, porteranno anche quella dell'uomo celestiale. Segue una solenne comunicazione. Ecco, un mistero vi dico: Tutti, certo non ci addormenteremo, ma tutti saremo trasmutati, in un attimo, in un batter d' occhio, nell’ultima tromba (328). Squillerà infatti (la tromba), e i morti risorgeranno incorrotti, e noi saremo trasmutati. Deve infatti questo corruttibile rivestirsi d'incorruttibilità, e questo mortale rivestirsi d'immortalità; quando poi questa corruttibile sarà rivestito d'incorruttibilità e questo mortale sarà rivestito d'immortalità, allora avverrà la parola che sta scritta: «Fu ingoiata la morte in vittoria. Dove, o morte, la tua vittoria? Dove, o morte, il tuo pungiglione?» (cfr. Isaia, 25, 8; Osea, 13, 14). Il pungiglione della morte (è) il peccato: la possanza del peccato (è) la legge. Ma a Dio grazia, a colui che ci dà vittoria mediante il Signor nostro Gesù Cristo! (Cap. 15).
489. Chiusura della lettera - Anche i Corinti facciano la colletta per i fratelli, come Paolo ha già ordinato di fare alle chiese della Galazia: ciascuno metta da parte quello che può il. primo giorno della settimana, e quando Paolo verrà spedirà il tutto a Gerusalemme. Egli verrà dopo esser passato per la Macedonia, e forse svernerà a Corinto; ma rimarrà ancora ad Efeso fino alla Pentecoste. Raccomanda di accoglier bene Timoteo, e di rinviarlo a lui che l'attende. Apollo, sebbene pregato da Paolo insistentemente, non è voluto tornare a Corinto. Seguono saluti e convenevoli; e ancora: Il saluto di mia mano, di Paolo. Se alcuno non ama il Signore sia anatema! Maràn athà! (Cap. 16) (329).
490. Alla prima occasione la lettera fu spedita a Corinto, ove poté giungere verso la Pasqua del 56. L'effetto che Paolo si riprometteva da questa lettera doveva essere favorito e rafforzato dall'azione di Timoteo, che a tale scopo si trovava a Corinto; ma l'effetto sperato mancò del tutto. Pochi mesi dopo, nell'estate, Timoteo tornò ad Efeso riferendo che né egli né la lettera di Paolo avevano fatto gran che impressione: le conventicole pettegole persistevano come prima, i vari abusi più o meno continuavano, e le ammonizioni del lontano Paolo non avevano più autorità sufficiente per farsi ascoltare; laggiù, a Corinto, i mestatori subentrati nel frattempo disgregavano e sovvertivano ogni cosa, e se non si fosse rimediato al più presto rutto si sarebbe sfasciato. Ma come rimediare?
Forse Timoteo stesso suggerì a Paolo di fare là una visita, magari brevissima, proprio un salto: la presenza personale valeva ben più d'una lettera, e l'autorità di Paolo a Corinto era ancora così ampia che presentandosi egli stesso poteva ottener moltissimo; a Efeso, sì, c'era un'infinità di cose da fare, ma un'assenza di alcune settimane si poteva sempre ammettere; sarebbe salito sulla prima nave che faceva vela per la Grecia, due o tre giorni, di viaggio, poche settimane di permanenza, ed eccolo di ritorno ad Efeso con la soddisfazione di aver salvato la comunità di Corinto.
491. Paolo si arrese a queste ragioni, e fece quel «secondo» viaggio a Corinto che è attestato indirettamente dalle parole di lui (330). Ahimè; anche questo viaggio fu una delusione! Timoteo, aveva valutato inesattamente lo stato delle cose a Corinto, giudicandolo meno tetro di quanto era in realtà.
Ciò che avvenisse al presentarsi di Paolo, non ci è spiegato chiaramente: si direbbe quasi che egli distenda a bella posta un velo di verecondo riserbo sui fatti, tanto essi furono disgustanti e dolorosi. Egli allude genericamente a un tale che ha contristato non tanto lui, Paolo, quanto la massima parte della comunità (2 Cor., 2, 5); e allorché di nuovo allude a un offensore e ad un offeso, sebbene ambedue innominati, si arguisce da tutto il contesto che l'offeso fu Paolo stesso (ivi, 7, 12). Perciò, quando Paolo si presentò a Corinto, non solo dovette incontrare resistenza da parte di faziosi affiliati a questa o quella conventicola, ma fu anche pubblicamente e gravemente svillaneggiato da un cristiano; possiamo congetturare che costui fosse qualche uomo depravato, ripreso da Paolo per i suoi costumi.
Visto quanto grave fosse il male, e d'altra parte non potendosi trattenere a lungo, Paolo lasciò ben presto Corinto per Efeso, annunziando tuttavia che sarebbe ritornato in breve a dare la meritata punizione (ivi, I, 23). Invece, riflettendoci sopra, procrastinò per misericordia questo ritorno, mirando a guadagnarsi di nuovo l'animo dei Corinti: inviò quindi Timoteo in Macedonia; e spedì a Corinto la lettera scritta con molte lacrime (331); seguirono poi gli altri fatti, come li abbiamo presentati nel precedente schema cronologico (§ 473).
492. I mesi che seguirono la lettera dalle molte lacrime furono per Paolo tormentosissimi. Alle tribolazioni mortali ch'egli soffriva ad Efeso (§ § 471-472), s'aggiunse adesso l'acutissima spina di Corinto. Come sarebbe stata accolta la lettera dalle molte lacrime? Avrebbe essa risvegliato dalla loro ubriacatura quei suoi poveri figli, riaccendendo il loro antico affetto per lui; oppure avrebbe, troncato irrimediabilmente anche gli ultimi legami?
Non contenendosi più nella sua trepidazione, Paolo inviò Tito a Corinto per aver notizie; allontanatosi poi egli stesso da Efeso per il tumulto degli argentieri, con suo sommo dolore non trovò Tito all'appuntamento di Troade. A Troade: egli questa volta vide aperto davanti a sé un bel campo di evangelizzazione; ma la mancanza di Tito - ossia delle notizie di Corinto ­ non gli dette requie, ed egli proseguì per la Macedonia onde incontrarsi più presto col sospirato nunzio (2 Cor., 2, 12-13). Immaginarsi la tempesta che durante tutto quel tempo dovette infuriare in uno spirito come quello di Paolo! Si sarebbe detto che tutta la sua vita dipendeva dall'arrivo di Tito. Anche arrivati noi in Macedonia, nessun sollievo ebbe la nostra carne, bensì fummo tribolati in ogni (modo): al di fuori battaglie, al di dentro spaventi (ivi, 7, 5).
493. Finalmente comparve Tito, come l'arcobaleno fra le nuvole temporalesche. Non recava la piena calma, ma in sostanza annunziava che il peggio del temporale era passato: il sole era veramente spuntato. Mosso da questi sentimenti e sullo sfondo storico fin qui visto, Paolo scrisse la nostra II CORINTI, poco dopo l'incontro con Tito in Macedonia. Eccone un riassunto.
Dopo i saluti iniziali, Paolo ringrazia Iddio di averlo consolato fra gravissime tribolazioni, e spera che alla sua consolazione parteciperanno i Corinti che ne furono la causa. Volendo poi preparare il suo arrivo a Corinto, Paolo passa a giustificare la propria condotta dopo le dolorose vicende superate, scagionandosi dalle accuse che i suoi avversari avevano lanciato contro di lui (Cap. I, 1-12).
494. Sezione apologetica. - Egli non è un volubile che muti facilmente i suoi propositi: aveva stabilito di venire a Corinto, di lì passare in Macedonia per poi ritornare a Corinto, e voleva anche attuare questo progetto, perché egli non oscilla fra il «sì» e il «no», ma il suo è, sempre un «sì» come il perenne «sì» di Gesù Cristo davanti a Dio; tuttavia rinunziò poi al suo progetto, non già per volubilità, ma per risparmiare a sé e ai Corinti la tristezza delle punizioni che meritavano; cosicché, in sostituzione, inviò la lettera dalle molte lacrime (2, 4). Colui che contristò, non tanto Paolo, quanto là massima parte della comunità, è stato da essa punito: ma questa correzione basti, ed ora al colpevole si usi misericordia affinché non rimanga sopraffatto dalla tristezza; Paolo gli ha già perdonato anche per amore dei Corinti. È tanta l'ansia che nutre per loro che non volle trattenersi a Troade, ove avrebbe avuto gran campo di evangelizzazione, ma proseguì per la Macedonia onde incontrarsi più presto con Tito ed aver loro notizie; queste furono buone, e così egli è sempre più sicuro di diffondere ovunque la fragranza di Cristo, giacché egli non è davvero come i molti che frodano la parola di Iddio (2, 17), ma la predica con tutta schiettezza come viene da Dio in Cristo.
495. Qui, rispondendo ad un segreto pensiero, Paolo improvvisamènte si domanda: Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come taluni, di lettere commendatizie, verso voi o da voi? La lettera nostra siete voi, scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini (3, 1-2) (332). La fiducia di Paolo non è in se stesso ma in Dio, che lo ha detto ministro del Nuovo Testamento, fondato non sulla lettera ma sullo spirito; l'Antico Testamento, benché fondato sulla: lettera, ebbe il glorioso ministero di Mosé: perciò tanto più glorioso sarà il ministero del Nuovo, fondato sullo spirito. Ma nell'Antico Testamento Mosé parlava agli Ebrei coprendosi la faccia d'un velo, e oggi un simile velo è rimasto sul cuore di essi alla lettura dei libri di Mosé; al contrario i ministri del Nuovo Testamento parlano senza alcun velo, perché dove è lo spirito del Signore (è) libertà (ivi, 17). Coscienti della loro missione, gli apostoli rifuggono da ogni infingimento ed astuzia, ma annunziano schiettamente la parola di Dio appellandosi alla coscienza degli uomini davanti a Dio; e se il loro vangelo resta velato, è velato per quelli che vanno in rovina accecati come sono dal dio di questo secolo.
496. Ciò che sorregge gli apostoli in questo ufficio è la possanza di Dio: sempre perseguitati, ma giammai vinti: sempre portando nel loro corpo la passione di Gesù, affinché pure la vita di Gesù si manifesti in loro, giacché chi ha risuscitato Gesù risusciterà pure loro. In loro, mentre l'uomo esterno va disfacendosi di giorno in giorno, l'uomo interno si rinnovella continuamente; non mirando essi alle cose visibili e fugaci ma a quelle invisibili ed eterne. Quando la loro dimora terrena sarà disfatta come una tenda, essi saranno accolti in una dimora imperitura nei cieli; frattanto, trattenuti ancora nella dimora terrena, sospiriamo desiderosi di sopravvestirci della dimora nostra che, (è) dai cieli, seppure saremo ritrovati vestiti, non nudi. E invero, (noi) che siamo nella tenda (corporale) sospiriamo aggravati, perché non vogliamo essere svestiti ma sopravvestiti, affinché sia ingoiato il mortale dalla vita (5, 2-4) (333). Ad ogni modo, poiché abitando ancor nel corpo si vaga esuli dal Signore, si preferisca esulare dal corpo e rimpatriare presso il Signore. E qualunque sia il nostro termine, si sia graditi al Signore, perché tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale del Cristo per riceverne premio o castigo secondo le nostre azioni.
497. Paolo spera che i Corinti lo giudicheranno sincero. Con questo non vuole nuovamente raccomandare se stesso, ma metterli in guardia contro i presuntuosi che lo calunniano. A tutto ciò che fa, egli è spinto dall'amore del Cristo ch'è morto per tutti affinché tutti vivano in lui; egli non conosce più nessuno. secondo la carne, neppure. Cristo (334), conosce solo la nuova creatura sorta dalla riconciliazione universale in Cristo: di questa riconciliazione, per Cristo noi siamo ambasciatori, come se Iddio esortasse per mezzo nostro (5, 20). Ricevano pertanto i Corinti la sua esortazione, e accettino il suo ministero, che è quello dell'apostolo sempre angustiato e diffamato e sconfitto, ma pur sempre longanime e veritiero e dominatore. La nostra bocca si è aperta verso di voi, Corinti; il nostro cuore si è dilatato, non siete coartati in noi, siete invece coartati nelle vostre viscere. Ma, in egual contraccambio - parlo come a figli -dilatate (i vostri cuori) anche voi (6, 11). Non facciano i Corinti comunanza con gl'infedeli: quale comunanza vi può essere fra la luce e le tenebre, fra Cristo e Beliar? Si fidino di lui: nessuno offendemmo, nessuno rovinammo, nessuno sfruttammo (7, 2). Essi sono la sua gloria, e fra le innumerevoli, sue tribolazioni egli è pieno di gaudio a loro riguardo. In Macedonia, mentre era oppresso da angustie indicibili, fu consolato dall'arrivò di Tito che gli riferì i loro sentimenti affettuosi per lui e il loro rammarico per le tristi vicende avvenute; Egli; sì, li ha rattristati con la sua severa lettera (quella dalle molte lacrime), ma ne è contento perché li ha rattristati inducendoli a resipiscenza; ecco, invero, questo stesso (fatto) di essere rattristati secondo Dio, quanta sollecitudine operò in voi! anzi (quanta) discolpa, anzi (quanta) indignazione, anzi (quanta) paura, anzi (quanta), brama, anzi (quanto) rigore! In ogni cosa vi addimostraste di essere incolpevoli, in (quella) faccenda (335). Cosicché, se anche vi scrissi, non (scrissi) a causa, dell’offensore né a causa dell'offeso, bensì affinché la sollecitudine vostra per noi risultasse palese fra voi davanti a Dio (ivi, 11-12). Anche Tito personalmente è rimasto consolato dal contegno dei Corinti (Capp. I, 13-7,16).
498. Raccomandazione per le collette. - I fratelli della Macedonia, sebbene poverissimi, hanno raccolto molto per i poveri (di Gerusalemme); i Corinti, che cominciarono a raccogliere già dall’anno scorso (8, 10; 9, 2) (336), gareggino con i fratelli della Macedonia in generosità. Non è un comando, questo, ma un'esortazione: si pensi a Gesù Cristo, che da ricco si è fatto povero affinché gli uomini si arricchissero per la sua povertà. Tito e altri due fratelli inviati da Paolo sono incaricati di raccogliere le offerte; sono persone: degnissime, e Paolo ha disposto così anche non vi sia taluno che ci biasimi in questa abbondanza amministrata da noi (337), giacché ci preoccupiamo di ciò, ch'è decoroso non solo davanti al Signore ma anche davanti agli uomini (8, 20-21). Ritornando in parte sul già detto, Paolo raccomanda, ancora la generosità e gli incaricati che invia, ricordando fra altro la ricompensa divina (Capp. 8-9).
499. Sezione, polemica. - Improvvisamente, e senza alcun richiamo a ciò che precede, Paolo inizia un tratto nettamente polemico che si prolungherà fino alla, fine della lettera (338). Egli, di cui si dice che è timido quando è presente e ardimentoso quando è assente, desidera non esser forzato a mostrarsi ardimentoso nella sua prossima venuta. Egli non si regola secondo la carne, ed ha a sua disposizione armi divine capaci di abbattere ogni protervo che si sollevi contro Dio; se si dicono di Cristo i suoi avversari, anche egli è tale e saprà far valere la sua potestà; e non è vero - come si dice - che le sue lettere sono gravi e forti, mentre la sua presenza è fiacca e la sua parola è spregevole, giacché egli saprà esser da presente quale da assente con le lettere. Taluni si credono un gran che misurandosi da se stessi, ma a torto: Paolo invece si misura secondo la misura che gli ha assegnata Cristo, ossia da ciò che ha fatto tra i Corinti per il Vangelo senza invadere il campo altrui.
500. Lo tollerino i Corinti se parla da stolto! Ma egli è geloso di loro, quasicché fossero una pura vergine da lui unita con sponsali al Cristo, e teme che, la loro fede sia sedotta come Eva fu sedotta dal serpente. Se infatti un tale venisse a predicare un altro Gesù non predicato da Paolo, o un altro Spirito o un altro vangelo, essi giustamente lo sopporterebbero! Ebbene, penso in nulla di essere da meno dei sovreminenti apostoli (339); ché se pure (sono) ignaro di parola, ma non di conoscenza, anzi in ogni cosa manifestammo (ciò) a tutti in voi. Commisi forse un fallo abbassando me stesso affinché voi foste innalzati, giacché gratuitamente vi evangelizzai il vangelo d'Iddio? (11, 5-7). Trovandosi bisognoso a Corinto, Paolo ha bensì accettato soccorsi dai fratelli di Macedonia ma nulla dai Corinti. Perché? Perché non vi amo? Iddio (lo) sa! Quel che faccio farò ancora, affinché (io) tolga l'occasione a quei che vogliono occasione, affinché in ciò di cui si vantano siano ritrovati come me (340). Costoro, infatti, sono falsi apostoli, mestieranti fraudolenti, camuffati da apostoli di Cristo. E non (fa) meraviglia: lo stesso Satana, infatti, si camuffa da angelo di luce; non (è) dunque un gran che se i ministri di lui si camuffano da ministri di giustizia. La loro fine sarà conforme alle loro opere (ivi, 11-15). Parlando così, egli parla da sconsiderato: lo sa; ma giacché i Corinti sopportano tanti che si vantano da se stessi, permettano anche a lui di vantarsi alquanto. In quello in cui taluno è ardimentoso - parlo da sconsiderato - sono ardimentoso anch'io. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io ... (vedi l'intero passo al § 168). Ma, in realtà, Paolo non intende vantarsi se non delle sue infermità. Vi sono, inoltre, i fatti soprannaturali: So di un uomo in Cristo quattordici anni fa... (vedi l'intero passo al § 199).
501. Paolo ha parlato così per difendere il suo apostolato, giacché in nulla egli è inferiore ai sovreminenti apostoli, sebbene per sé non sia nulla. Il suo apostolato presso i Corinti fu confermato da ogni sorta di fatti soprannaturali, e la loro comunità non è infèriore in nulla alle altre, salvo che nell'essere stata evangelizzata gratuitamente: gli perdonino i Corinti questa offesa! Ecco, questa è la terza volta che sono pronto a venire a voi, e non sarò d'aggravio; non cerco infatti le cose vostre, ma voi, giacché non spetta ai figli di ammassare per i genitori ma ai genitori per i figli (12, 14). Egli si prodigherà tutto per loro, come ha fatto certamente anche Tito; tuttavia teme che al suo arrivo li trovi ancora divisi in partiti, e con gelosie, contese, maldicenze, e che egli debba piangere su impurità, fornicazioni e impudicizie di peccatori impenitenti. Venendo questa terza volta, preammonisce come già fece la seconda volta, che non sarà indulgente; perciò si esaminino accuratamente, giacché egli scrive così per non usare con loro il rigore. Termina con brevi saluti generici (Capp. 10-14).
502. Questa lettera, pervenuta a Corinto sugli inizi dell'autunno del 57, dovette raggiungere pienamente il suo scopo. La riconciliazione fra padre e figli fu cordiale, e Paolo poco dopo scese dalla Macedonia a Corinto trascorrendovi i tre mesi dell'inverno fra il 57 e il 58. Non abbiamo notizia di suoi successivi dissensi con quella comunità; anzi, dalla lettera ai Romani scritta appunto da Corinto in quei tre mesi, appare una tranquillità di spirito che doveva certo risentire della recente riconciliazione e rispecchiare la tranquillità di quella comunità. L'intera vicenda, che attraverso ansiose dubbiezze e dolorose esperienze aveva condotto Paolo alla vittoria, dovette anche influire sul suo animo, maturandovi concetti speculativi sempre più grandiosi e dischiudendovi orizzonti pratici più vasti.
503. Non può essere avvenuta che durante questa permanenza in Macedonia l'escursione di Paolo verso l'Illiria. Nella lettera ai Romani (15, 19), delimitando l'area dell'apostolato da lui compiuto fino allora, egli la comprende a partire da Gerusalemme e (progredendo) in giro fino all'Illirico: ossia, Gerusalemme è il limite sud-orientale e l'Illiria è il confine nord-occidentale. L'Illiria, o Illirico, corrispondeva in sostanza all'odierna Dalmazia, estendendosi subito a Nord dell'Epiro e a Nord-Nord-Ovest della Macedonia. In qual senso nomina Paolo l'Illiria, in senso esclusivo od inclusivo? Ha egli evangelizzato la suaccennata area fermandosi ai confini dell'Illiria, oppure penetrando anche in questa ed annunziando il vangelo anche ivi? Non siamo in grado di rispondere. Gli Atti non dicono nulla in proposito, ma ciò può dipendere benissimo da una delle frequenti omissioni di questo libro; il quale tuttavia lascia un periodo di tempo (Atti, 20, 2) sufficiente per una rapida escursione di Paolo in Illiria, onde fondarvi in circostanze favorevoli qualche comunità cristiana come quelle della finitima Macedonia. Dall'Illiria, ripassando per la Macedonia, egli sarebbe poi sceso a Corinto.
504. LA LETTERA AI GALATI. Le cure ed ansietà d'ogni genere, che abbiamo visto fin qui assillare Paolo negli ultimi mesi di permanenza ad Efeso, non sono ancora finite. Se Efeso sussultava come per terremoto e Corinto oscillava paurosamente come torre che stia per crollare, anche dalle comunità più antiche non giungevano buone notizie, specialmente dai Galati. Paolo aveva visitato per la seconda volta i Galati nel 54, a principio di questo suo terzo viaggio missionario (§ 451); egli certamente aveva preferito recarsi fra loro, trascurando le comunità della Pisidia e Licaonia, a causa delle inquietanti notizie ricevute riguardo ai giudaizzanti, che erano penetrati lassù e minacciavano di corrompere la fede di quegli ingenui montanari: ma la presenza dell'amato padre aveva scongiurato il pericolo soltanto per allora, ed egli se ne era ripartito col proposito di vigilare da lontano anche per l'avvenire.
Ne aveva ben motivo: la proverbiale volubilità dei Galati ebbe presto il sopravvento sul loro sincero affetto per Paolo, e a costui un triste giorno fu recata la notizia che lassù i giudaizzanti facevano una strage spirituale e che i suoi cari neofiti cedevano in massa alle lusinghe di quelli. Che fare? Correre di nuovo in Galazia non era possibile a Paolo, per le circostanze in cui allora si trovava; inviare in sua vece qualcuno dei suoi fedeli collaboratori era probabilmente impossibile per le stesse circostanze, e forse anche fu giudicato inutile giacché per far colpo sui Galati ci voleva Paolo e nessun altro che Paolo; non rimaneva che ricorrere alla solita sostituzione di una lettera. Così fece Paolo, che inviò la lettera ai Galati che ancora abbiamo.
505. Ma quando, e dove, fu scritta la lettera? Nei primi tempi della permanenza di Paolo ad Efeso tra il 54 e il 55, oppure quando egli si trovava in Macedonia o a Corinto tra la fine del 57 e gli inizi del 58? Ciascuna di queste risposte ha la sua probabilità. In favore della prima, sta l’esclamazione di Paolo ai destinatari della lettera: Mi meraviglio che così presto disertiate, da colui che vi chiamò nella grazia di Cristo, ad un altro vangelo (Gal., 1, 6): certamente la prima impressione che fanno queste parole è che la diserzione spirituale dei Galati fosse recente, e quindi Paolo doveva aver lasciato la Galazia da breve tempo. In favore di una composizione più tardiva, fatta in Macedonia o a Corinto, sta la palese rassomiglianza concettuale fra la lettera ai Galati e quella ai Romani, tanto che la seconda sembra un ampliamento dei concetti della prima, ampliamento fatto dal solo punto di vista dottrinale e senza preoccupazioni individuali; questa rassomiglianza indurrebbe a credere che, nel periodo trascorso fra la Macedonia e Corinto, Paolo stesse elaborando particolarmente i concetti comuni ad ambedue le lettere, e li esponesse poi in maniera alquanto differente a seconda del differente scopo di ciascuna lettera.
Questa seconda opinione, sebbene non certa, sembra più probabile. Quanto alla rapidità della diserzione dei Galati accennata da Paolo, essa potrebbe interpretarsi come un improvviso crollo di essi di fronte alle reiterate lusinghe dei giudaizzanti: oppure anche riferirsi a rassicuranti notizie, orali o scritte, ricevute poco prima da Paolo riguardo alla costanza e fedeltà di quei suoi neofiti, e subito appresso improvvisamente smentite. In conclusione la lettera ai GALATI fu scritta o sul finire del 54, ò più probabilmente sul finire del 57 poco prima di quella ai Romani. Eccone un riassunto.
506. Paolo comincia inviando il suo saluto quale apostolo (eletto) non da uomini né per (opera d')uomo, ma per (opera di) Gesù Cristo e di Dio Padre che lo risuscitò dai morti (1, 1). L'«encomio» ai destinatari e gli altri convenevoli usuali mancano, e in loro vece c'è un rimprovero. Come mai i Galati, in sì breve tempo, hanno cambiato di sentimento passando ad un altro vangelo, il quale è predicato da taluni che vogliono soltanto perturbarli e pervertire il vero vangelo del Cristo? Ma quand'anche noi o un angelo dal cielo vi evangelizzasse (un altro vangelo) in luogo di quello che vi evangelizzammo, sia anatema! (ivi, 8). E sta tanto a cuore questo anatema a Paolo, che lo ripete immediatamente appresso. Lavora egli per gli uomini o per Iddio? Se cercasse ancora di piacere agii uomini, non sarebbe servo di Cristo! Vi dichiaro infatti, fratelli, (riguardo al) vangelo quello evangelizzato da me, che (esso) non è secondo uomo; né, infatti, io da uomo lo ricevetti né imparai, bensì mediante rivelazione di Gesù Cristo (ivi, 11-12) (341). I Galati sanno che egli, da Giudeo, ha perseguitato accanitamente la Chiesa; quando poi piacque a Dio, che lo chiamò con la sua grazia, di rivelare in lui il suo Figlio affinché lo annunziasse fra i Gentili, egli non prese consiglio da carne e sangue né salì a Gerusalemme da coloro ch'erano apostoli prima di lui, bensì andò in Arabia e poi tornò a Damasco; dopo tre anni salì a Gerusalemme per incontrarsi con Pietro, rimanendo con lui quindici giorni, ma non vide alcun altro apostolo salvo Giacomo. In seguito andò in Siria e Cilicia, e le chiese della Giudea non lo conoscevano sebbene si rallegrassero della sua conversione. Dopo quattordici anni insieme con Barnaba e Tito, salì di nuovo a Gerusalemme in forza di una rivelazione, ed espose colà il vangelo da lui predicato ai Gentili. In tale occasione Tito non fu circonciso, sebbene alcuni falsi fratelli intrusi richiedessero la sua circoncisione mirando ad abolire la libertà arrecata dal Cristo: ma Paolo non cedette, difendendo la verità del vangelo.
507. Inoltre, all'esposizione fatta da Paolo del suo vangelo, i maggiorenti di Gerusalemme non fecero alcuna aggiunta correttiva, e di buon accordo furono delimitati i rispettivi campi di evangelizzazione (vedi il relativo passo al § 309). Più tardi, Paolo rimproverò apertamente in Antiochia a Cefa la sua condotta, che sembrava dar ragione ai giudaizzanti (§ 364 segg.), e gli disse: Se tu che sei Giudeo vivi da Gentile come puoi obbligare i Gentili a giudaizzare? Noi che siamo nati Giudei, sapendo che l'uomo è giustificato non dalle opere della Legge bensì dalla fede di Gesù Cristo, credemmo in lui per essere giustificati dalla sua fede e non dalle opere della Legge; ma se, cercando la giustificazione in Cristo, anche noi siamo computati peccatori, sarebbe Cristo ministro di peccato? Giammai! Al contrario, se io ricostruisco ciò che ho demolito, allora sono un trasgressore; io, invece, sono morto alla Legge per vivere a Dio. Insieme con Cristo sono stato crocifisso, e quello che vive in me, non sono più io, ma Cristo: vivo bensì nella carne, ma vivo nella fede del Figlio d'Iddio che mi amò e si consegnò per me. Non respingo la grazia d'Iddio: che se la giustizia si acquista mediante la Legge, in tal caso Cristo morì senza motivo (Capp. 1-2).
508. La Legge giudaica e la fede cristiana. - O insensati Galati! Chi vi ha ammaliati, (voi) sotto i cui occhi Gesù Cristo fu (presentato) dipinto? Questo solo voglio saper da voi: dalle opere della Legge riceveste lo Spirito, ovvero dall'ascoltazione della fede? Così insensati siete? (Voi) che cominciaste con lo Spirito, adesso finite con la carne? Tante cose esperimentaste invano? Seppure, poi, invano! Colui dunque che vi elargisce lo Spirito ed opera miracoli in voi, (fa ciò) a causa delle opere della Legge ovvero a causa dell’ascoltazione della fede? (3, 1-5). Anche Abramo credette e gli fu computato a giustizia (cfr. Genesi, 15, 6), e ciò dimostra che coloro che accettano la fede sono i veri figli di Abramo. La Scrittura, sapendo in anticipo che i Gentili si sarebbero convertiti mediante la fede, gli annunziò che in lui sarebbero benedette tutte le genti (Gen., 12, 3): cosicché, quanti hanno la fede sono benedetti col fedele Abramo, mentre chi si fonda sulle opere della Legge sta sotto maledizione, perché sta scritto: «Maledetto chiunque non persevera in tutte le cose scritte nel libro della Legge per compierle» (Deuter., 27, 26). Cristo invece, assumendo su se stesso con la morte in croce la maledizione della Legge, ce ne ha liberati, trasmettendo a noi la benedizione di Abramo per mezzo della fede.
Anche un patto umano sancito non può essere rescisso né ricevere aggiunte; ora, le promesse furono rivolte da Dio ad Abramo e al suo discendente che è Cristo; la Legge quindi, venuta 430 anni più tardi di Abramo, non può annullare quelle promesse, rivolte gratuitamente da Dio ad Abramo. La Legge fu aggiunta in mira delle trasgressioni, ed è un contratto bilaterale che richiede l'intervento d'un mediatore, né è capace di conferire la giustizia. Essa fu come il pedagogo che condusse noi a Cristo, per esser giustificati dalla fede: ma giunti a Cristo per la fede e il battesimo, il pedagogo è inutile, perché tutti senza distinzione di razza e di condizione sociale siamo rivestiti di lui.
509. L'erede fanciullo è somigliante in tutto a uno schiavo fanciullo, benché sia padrone di ogni cosa, e sta sotto tutore fino à che diventi maggiorenne: così anche noi; quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi sotto gli elementi del mondo (342); ma quando venne la pienezza del tempo, Iddio inviò il suo Figlio fatto (uomo) da una donna, fatto (uomo) sotto la Legge, affinché riscattasse quelli (ch'erano) sotto la Legge, affinché ricevessimo l'adozione filiale. Che poi siete figli, (ne è prova che) Iddio inviò lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori, il quale grida: «Abba! Padre!» Sicché non sei più schiavo, ma figlio: se poi (sei) figlio, anche erede per (opera di) Dio (4, 3-7). Una volta i Galati furono schiavi dei falsi Dei; ma adesso, che hanno conosciuto il vero Dio, come mai si volgono di nuovo ai deboli e poveri elementi per ridiventarne schiavi? Osservate (le costumanze di) giorni e mesi e stagioni ed anni! (343) Ho paura per voi, che non mi sia invano affaticato per voi (ivi, 9-11). Siano i Galati per Paolo, qual è Paolo per loro.
510. Essi si ricordano che a causa di una infermità egli li evangelizzò per la prima volta; ed essi allora lo accolsero con ogni affetto, quasi fosse un angelo o Gesù Cristo stessa (§ 378). E dove è andata a finire quella cordialità? Allora si sarebbero cavati gli occhi per lui; e adesso è diventato egli loro nemico dicendo la verità? Si guardino dai seduttori, che vogliono allontanarli da lui, mentre egli è sempre una madre affettuosa e soffre di nuovo per essi le doglie del parto (§ 169).
La Legge stessa li avvia verso Cristo: Abramo, infatti, ebbe il figlio Ismaele natogli dalla schiava Agar secondo la carne, e il figlio Isacco natogli dalla libera Sara secondo la promessa; ciò è un'allegoria dei due Testamenti; Agar adombra l'Antico che genera schiavi, e Sara adombra il Nuovo che genera liberi; come Ismaele perseguitò Isacco, così adesso la Sinagoga perseguita la Chiesa, ma sarà scacciata come Agar. Noi siamo figli non della schiava ma della libera: perciò conservino i Galati la libertà apportata loro da Cristo. Se accetteranno la circoncisione, Cristo non gioverà niente a loro; chi si circoncide è obbligato ad osservare tutta la Legge, e decade dalla grazia di Cristo, per il quale vale solo la fede operante per la carità. Badino i Galati a non lasciarsi corrompere: poco fermento fa fermentare tutta la pasta. Egli, Paolo, non ha mai predicato la circoncisione, giacché non avrebbe più scapo lo scandalo della croce! Quegli zelanti che la predicano, sì, si taglino pur tutto (§ 170) (Capp. 3-5, 12).
511. Conseguenze della questione precedente. Ammonizioni varie. ­ La libertà dei cristiani non è però licenza, bensì è messa a servizio della carità: tutta la Legge si riassume nel precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». La stessa libertà esige che si soggioghino i desideri della carne, perché la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ne ha contrari alla carne; opere della carne sono l'impudicizia, l'idolatria, le contese, le sètte, le crapule, ecc., e chi commette tali cose non erediterà il regno di Dio; frutto dello spirito è amore, gaudio, pace, pazienza, ecc. I seguaci del Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni, e procedono secondo lo spirito. Abbiano i Galati pazienza e mansuetudine fra loro; fuggano la vanagloria; seminino nello spirito per raccogliere la vita eterna (5, 13 - 6, 10).
La chiusa della lettera è tutta di mano di Paolo: Vedete con che grosse lettere scrissi a voi di mia mano! (§ 176). Preso oramai in mano il calamo, Paolo ne approfitta per riassumere quasi la lettera in poche righe autografe per quei suoi cari fanciulloni di Galati. Non si lascino circoncidere: quei che li incitano alla circoncisione hanno paura di esser perseguitati per la croce del Cristo e hanno mire mondane. Invece egli, Paolo, non si gloria che della croce di Gesù Cristo, per cui il mondo è crocifisso per lui ed egli per il mondo. Né la circoncisione è alcunché né l'incirconcisione, bensì la nuova creatura. Ormai nessuno lo infastidisca, giacché egli porta sul suo corpo le stigmate di Gesù (345). Un breve saluto generico chiude l'aggiunta autografa (6, 11-18).
512. LA LETTERA AI ROMANI. Abbiamo lasciato Paolo a Corinto, ove egli passò i tre mesi invernali fra il 57 e il 58 in una relativa tranquillità (§ 502). Ma le poche tranquillità di Paolo, oltre ad essere di breve durata, non potevano restare inerti; ecco perciò che, mentre di questo periodo non abbiamo notizie di fatti esterni importanti, cade appunto in esso la composizione dello scritto più lungo e più grandioso elaborato dalla mente di Paolo, la lettera ai ROMANI.
I calcoli che già riferimmo ci portano a concludere che la dettatura e scrittura di questa lettera tennero occupato Paolo un centinaio di ore, le quali distribuite convenzionalmente in giorni compresero da 32 a 49 giorni (§§ 177­178): quindi la metà o poco meno della sua permanenza a Corinto fu dedicata alla elaborazione delle idee meditate durante il giorno, per esser dettate la sera a Terzo, amanuense di questa lettera (§ 180).
Con essa Paolo volle allacciare dirette relazioni con la comunità cristiana di Roma e preparare il suo arrivo colà. Di recarsi a Roma egli pensava già da tempo, e ne aveva fatto formale progetto durante il terzo anno della sua dimora ad Efeso (§ 466); adesso, peragrato quasi tutto l'Oriente, fissava i suoi piani riguardo all'Occidente, il quale era in primo luogo Roma, ma si estendeva anche ulteriormente fino alla Spagna. Si sarebbe detto che quell'uomo, ormai sulla soglia della vecchiezza, non volesse partire dal mondo prima di aver fatto risonare in tutte le sue regioni il proprio nome, o più esattamente, egli non tollerava che nel mondo intero esistesse una sola regione ove non risonasse in benedizione il nome di Gesù Cristo. Ma in quel tempo le fila del mondo intero si riannodavano tutte a Roma: qui, perciò, egli mirava.
513. A Roma, in realtà, il cristianesimo era penetrato da vari anni (§§ 381, 601); i suoi precisi inizi ci sfuggono, ma indubbiamente non erano stati discepoli di Paolo i primi evangelizzatori della città dei Cesari, e tutto invece c'induce a credere che essi fossero provenuti dal gruppo gerosolimitano di Pietro. Nella divisione delle zone di evangelizzazione fatta ad Antiochia (§§ 309, 355), a Pietro era stato riservato l'apostolato particolarmente fra i Giudei e a Paolo quello fra i Gentili; da principio Roma dovette appartenere piuttosto alla zona di Pietro, perché la prima propaganda cristiana si rivolse soprattutto ai Giudei, ivi numerosi e potenti (344): tuttavia, ben presto, la prevalenza di ex-giudei fu sostituita dalla prevalenza di ex-pagani, cosicché sia per proporzione numerica sia per indole morale quella comunità diventò analoga alle varie comunità fondate da Paolo in Asia Minore, Macedonia e Grecia. Paolo aveva bensì per norma di non intervenire in campi dissodati da altri, come egli ricorda agli stessi Romani (Rom., 15, 20; cfr. 2 Cor., 10, 13­15), e quindi a rigore non avrebbe, dovuto occuparsi della comunità romana; ma il carattere etnico-cristiano assunto recentemente da quella comunità poteva ben valere come titolo perché egli si occupasse almeno occasionalmente di essa: del resto relazioni fraterne fra comunità ed evangelizzatori delle differenti zone potevano sempre essere intrattenute, per mutua edificazione e a rinsaldamento della comune fede (cfr. Rom., l, 11-12), e siffatte relazioni erano anche più spontanee con una città eminentemente cosmopolita come la capitale dell'Impero mondiale.
Si aggiunga che Paolo aveva risaputo che i soliti sobillatori e seminatori di discordie tentavano sedurre anche i cristiani di Roma (ivi, 16, 17-20), e perciò desiderava confermare nella vera fede anche costoro sebbene non fossero direttamente suoi figli spirituali. Ad ogni modo, pur con queste giustificazioni, Paolo si proponeva sempre di rispettare il campo altrui: egli intendeva visitare la comunità di Roma, non già con le disposizioni con cui avrebbe visitato una delle comunità sue proprie in Asia Minore, Macedonia e Grecia, ma solo di passaggio, strada facendo mentre era in viaggio per la Spagna (ivi, 15, 24). La realtà, più tardi, fu diversa: ma a questo tempo egli si era stabilito riguardo a Roma questo limitato programma.
L'insieme di queste circostanze fece sì che la lettera risultasse una esposizione dottrinale di carattere quasi impersonale, scarsa di dati storici riguardanti l'autore e senza dirette mire polemiche. Ma appunto perché tratta di temi che sono alla base stessa della fede cristiana, essa era destinata a rimanere, dopo i vangeli, il più ampio e solenne documento del cristianesimo primitivo. Eccone un riassunto.
514. Il titolo, particolarmente solenne, è anche particolarmente frastagliato (vedilo, letteralmente, al § 165). Nell'esordio, Paolo ringrazia Dio per la fede dei Romani, che è celebrata in tutto il mondo, e li assicura che si ricorda sempre di loro, pregando che gli si offra una buona volta l'occasione di venire a visitarli: da molto tempo egli desidera vederli per comunicar loro qualche suo dono spirituale e consolarsi della comune fede. Essendo egli debitore verso tutti indistintamente, Greci o Barbari, è pronto ad evangelizzare anche loro che sono a Roma. Egli non si vergogna del vangelo: è infatti possanza di Dio a salvezza di ogni credente, del Giudeo prima e del Greco; la giustizia infatti di Dio si rivela in esso di fede in fede, conforme sta scritto: «Ma il giusto vivrà di fede» (Abacuc, 2, 4) (Cap. I, 1-17).
515. La giustificazione è dalla fede nel Vangelo. - Enunziata nell'esordio la sua tesi, Paolo passa a dimostrarla. I pagani non hanno la giustificazione, perché sebbene conoscano Iddio argomentandone l'esistenza e gli attributi dalle cose create, tuttavia non gli resero l'onore dovuto e decaddero nell'idolatria. Per punizione Iddio li abbandonò a passioni ignominiose (vedine la cruda enumerazione al § 46) (Cap. I, 18-32).
Ma, a sua volta, quel tale (Giudeo) che condanna il suo fratello condanna anche se stesso, perché anch'egli è colpevole davanti a Dio delle opere condannate nel fratello pagano: il bene sarà premiato e il male sarà punito, nel Giudeo prima e nel Greco, perché Dio non ha riguardi a persone. Quei che peccarono senza la Legge senza di essa periranno, e quei che peccarono nella Legge saranno giudicati per mezzo di essa: non già chi ode la Legge è giusto presso Dio, ma chi la osserva. I pagani, che non hanno la Legge, hanno tuttavia i suoi dettami scritti nei loro cuori e sentono la voce della propria coscienza: e tutto ciò apparirà quando Iddio giudicherà i segreti degli uomini conforme al Vangelo. Ma tu, che ti chiami Giudeo, e ti vanti delle tue prerogative, e sei ammaestrato dalla Legge ed ammaestri gli altri, perché non ammaestri te stesso? Tu che insegni a non rubare e a non commettere adulterio, perché commetti questi delitti? Mentre dunque ti glori della Legge, disonori Iddio trasgredendola, e per tua colpa il nome di lui è bestemmiato fra i pagani! La circoncisione, sì, è cosa buona, purché insieme si osservi la Legge; ma se questa è trasgredita, la circoncisione diventa incirconcisione. Per contrario l'incirconciso che osserva i precetti della Legge sarà considerato come circonciso, e giudicherà il circonciso che non li osserva; il vero Giudeo non è quello apparente, né la vera circoncisione è quella della carne, bensì il vero Giudeo è nell'interno e la vera circoncisione è nel cuore. Tuttavia la condizione dei Giudei è di privilegio; ché se alcuni di essi divennero infedeli, la fedeltà di Dio a loro riguardo rimane egualmente. Cosicché tutti egualmente traviarono, Giudei e Greci, tutti sono sotto peccato, e nessuno si può gloriare davanti a Dio (Capp. 2-3, 20).
516. Tutti però, Giudei e Greci, sono giustificati dalla fede in Gesù Cristo, che fu vittima espiatoria nel suo sangue. Dilla fede in lui è giustificato l'uomo, non già dalle opere della Legge. Dio è soltanto dei Giudei? Non è anche Dio dei pagani? Ed egli giustificherà il circonciso in conseguenza della fede e l'incirconciso mediante la fede; con ciò la Legge non è abolita, bensì confermata. Anche Abramo fu giustificato non dalle opere, ché in tal caso, avrebbe avuto motivo di gloriarsi davanti a Dio, bensì dalla fede secondo ciò che sta scritto che egli credette in Dio e gli fu computato a giustizia (Gen, 15, 6). Questa computazione gli fu fatta quando egli era tuttora incirconciso; la circoncisione venne in seguito quale sigillo della giustizia della fede, cosicché egli divenne padre di tutti i credenti incirconcisi e anche di quelli circoncisi che vanno sulle orme della fede di lui. Egualmente le promesse furono rivolte ad Abramo non per la Legge, ma per la giustizia della fede; la Legge, venuta più tardi delle promesse, non può essere una condizione di queste, perché la Legge occasionò la trasgressione di se stessa, il che impedirebbe il mantenimento delle promesse; queste invece si trasmetteranno ai discendenti spirituali di Abramo ancora mediante la fede (Capp. 3, 21-4, 25).
517. La fede porta con sé la speranza della gloria dei figli di Dio per i meriti di Cristo; a sua volta, la speranza si rassoda nelle tribolazioni e non confonde, perché l'amore d'Iddio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito santo che ci fu dato (5, 5). Se infatti Cristo morì per noi allorché eravamo empii, tanto più dovremo sperare nella salvezza adesso che siamo giustificati dal suo sangue. Mediante un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e mediante il peccato (entrò) la morte, e così in tutti gli uomini trapassò la morte, perché (***) tutti peccarono (5, 12) (345); ma la morte non è punizione dei peccati attuali, perché essa regnò da Adamo fino a che fu data la Legge per mezzo di Mosé e colpì anche coloro che non avevano peccato attualmente a somiglianza di Adamo; il quale è «tipo» (§ 239) del futuro Adamo, ossia del Cristo. Ma il nuovo Adamo restituì sovrabbondantemente ciò che fu tolto da quello antico: come la prevaricazione dell'antico si riversò su tutti gli uomini a condanna, così la giustizia operata dal nuovo Adamo si estese su tutti gli uomini a giustificazione. Il risultato pratico della Legge fu che la trasgressione abbondasse; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia affinché al regno del peccato nella morte subentrasse il regno della grazia nella giustizia per la vita eterna mediante Gesù Cristo (Cap. 5).
518. La conseguenza di tutto ciò è che il cristiano non deve più peccare. Chi fu battezzato in Gesù Cristo, fu battezzato nella morte di lui; consepolto con lui nella morte, il cristiano risuscitò poi ad una nuova vita (346): inserito come un innesto nel Cristo, il neofita che fu partecipe alla morte di lui sarà anche alla resurrezione. Perciò i cristiani si considerino morti al peccato e viventi in Gesù Cristo; non lascino regnare il peccato nel corpo mortale e serbino le loro membra quali armi di giustizia per Iddio. Prima del battesimo essi erano schiavi del peccato, ma qual frutto ne ebbero? La morte. Adesso invece, riscattati dal peccato, sono diventati schiavi di Dio, e hanno per frutto la santificazione e per fine la vita eterna (Cap. 6).
I Romani, pratici di legge, sanno che la legge costringe l'uomo soltanto finché vive: ad esempio, una donna maritata è legata al marito finché costui vive, ma se il marito muore ella è libera di rimaritarsi. Ebbene, il cristiano è morto alla Legge mediante l'incorporazione al Cristo, per appartenere a lui risuscitato. Non già che la Legge sia peccato, ma essa lo fa conoscere: io non conoscevo il desiderio peccaminoso, se la Legge non mi diceva: «Non desiderare»; ma il peccato, colta l'occasione da questo comandamento, istigò in me ogni desiderio, giacché, fuori di legge, il peccato (è) morto (7, 8). Io vivevo, una volta, fuori di legge (347): ma venuto il comandamento, il peccato rivisse ed io invece sono morto, e il comandamento ch'era indirizzato a vita mi condusse a morte. La Legge giudaica è buona in sé, ma il peccato ne prende occasione per arrecare la morte; la Legge è spirituale, ma io sono carnale e venduto al peccato: non mi spiego quel che faccio, perché non opero ciò che voglio e fa ciò che detesto (348). Se dunque detesto ciò che fa, do ragione alla Legge che è buona. Allora, però, non già io lo opero, bensì il peccato abitante in me; so infatti che non abita in me - ossia nella mia carne - (il) bene: il volere, infatti, mi sta dappresso; ma l'operare l'onesto, no (ivi, 17-18). Io mi compiaccio della legge d'Iddio secondo l'uomo interiore, vedo tuttavia un'altra legge nelle mie membra la quale muove guerra alla legge della mia mente e m'incatena alla legge del peccato che sta nelle mie membra. Infelice uomo che sono! Chi mi libererà da questo corpo della morte? (Siano rese) grazie a Dio mediante Gesù Cristo il Signore nostro! (ivi, 23-25) (349).
519. Il Cristo Gesù, mediante lo spirito di vita in lui, ha liberato il cristiano dalla legge del peccato e della morte. Ciò che non poteva fare la Legge, ha fatto Iddio che, inviando suo Figlio in somiglianza di carne di peccato e riguardo al peccato, condannò il peccato nella carne (8, 3); perciò i cristiani camminino non secondo la carne ma, secondo lo spirito, giacché l'inclinazione della carne è verso la morte e quella dello spirito è verso la vita e la pace. I cristiani non sono nella carne ma nello spirito, giacché lo Spirito di Dio abita in essi, e se taluno non ha lo Spirito di Cristo non appartiene a costui: se poi lo Spirito di chi risuscitò Gesù dai morti abita nei cristiani, chi risuscitò lui vivificherà anche i loro corpi mortali per virtù del suo Spirito abitante in essi. Coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, essi sono figli di Dio; i cristiani non ricevettero spirito di schiavitù per ricadere nel timore, bensì spirito di adozione filiale per cui gridano: «Abba! Padre!». Essendo poi figli, noi cristiani siamo anche eredi di Dio, e coeredi di Cristo, patendo insieme con lui per essere glorificati insieme con lui. I patimenti del tempo presente non possono confrontarsi con la futura gloria che si rivelerà in noi.
Lo stesso creato è in ansiosa attesa, sospirando la manifestazione dei figli di Dio: alla vanità, infatti, fu sottoposto il creato - non per suo volere, bensì per subordinazione a chi ve l'ha sottoposto - ma con la speranza che lo stesso creato sarà liberato dalla schiavitù della corruzione e ammesso alla libertà gloriosa dei figli di Dio (350). Sappiamo, infatti, che tutto il creato manda insieme gemiti ed è insieme in doglie di parto fino ad ora; e non solo (esso); ma pure (noi) medesimi che abbiamo le primizie dello Spirito, pure noi medesimi in (noi) stessi gemiamo; sospirando l'adozione filiale; il riscatto del nostro corpo (ivi, 22-23). Ma la nostra liberazione è nella speranza, e quindi nell'attesa di ciò che ancora non si vede. Perciò lo Spirito viene in aiuto alla nostra fiacchezza: noi, invero, non sappiamo pregare per qualche cosa come si conviene; ma lo stesso Spirito superintercede (***) con gemiti ineffabili: lo scrutatore poi dei cuori sa quale (sia) l'intendimento dello Spirito; come interceda secondo Dio per i santi (ivi, 26-27). Per coloro che amano Iddio, tutto coopera al bene, avendo egli preordinato a loro riguardo la predestinazione, la vocazione alla fede e quella alla gloria. Essendo dunque Iddio in nostro favore, chi sarà contro di noi? Se Iddio ci ha dato il suo proprio Figlio, come non ci darà ogni altra cosa? Chi ci separerà dall'amore del Cristo? Nulla: né la tribolazione, né l'angustia, ecc. (vedine l'elenco d'intonazione lirica al §. 167) (Capp. 7-8).
520. Questione dell'incredulità dei Giudei (351). - Paolo è accorato perché i suoi connazionali Giudei non credono nel Messia Gesù (vedi il relativo passo al § 167). Ma per questa defezione le promesse di Dio non sono fallite, Le sue promesse non erano rivolte indistintamente a tutti i discendenti per sangue da Abramo: tra i figli di costui solo ad Isacco furono rivolte quelle promesse, e anche tra i figli di Isacco furono rivolte a Giacobbe e non ad Esau. Iddio non è ingiusto; egli liberamente distribuisce i suoi favori, non secondo gli sforzi dell'uomo, ma secondo la sua propria misericordia. Tu però dirai: «E allora perché Dio rimprovera l'uomo? Chi può resistere a Dio?» No; piuttosto tu, uomo, come osi domandare conto a Dio? Forseché la statua plasmata o il vaso di creta domanderà un conto qualsiasi al plasmatore o al vasaio? Dio per mostrare la sua ira e possanza sopportò con longanimità soggetti che si erano predisposti per la perdizione, e la fece anche per render nota la ricchezza della sua gloria su soggetti della sua misericordia: i quali siamo noi; da lui chiamati non solo di tra i Giudei ma anche di tra i Gentili; questa chiamata dei Gentili, in sostituzione parziale dell'ostinato Israele, è già stata preannunziata dai profeti dell'Antica Testamento. Cosicché, i Gentili pervennero a giustizia per la via della fede; mentre Israele, pur avendo una Legge di giustizia, non vi pervenne, perché non mosse dalla fede ma dalle opere.
Addolorato per l'ostinazione dei Giudei, Paolo testifica ch’essi hanno zelo di Dio ma non secondo una scienza accurata (***), volendo essi quasi sostituire la giustizia di Dio con la loro propria. Giacché il fine della Legge è Cristo, a giustizia per ogni credente; la giustizia della Legge consiste nel compiere le sue opere, ma la giustizia della fede - senza prescrivere di salire in cielo a discendere nell'abisso alla ricerca del Cristo - insegna di credere nel Signore Gesù e di confessarlo palesemente.
Non c'è, infatti, distinzione di Giudeo e di Greco, perché (è) lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l'invocano (10, 12). Ma come crederanno i Giudei nel Cristo Gesù, se non ne hanno udito l'annunzio? No, questo annunzio pervenne bensì fino alle estremità della terra, ma essi non l'accolsero, come già hanno predetto i profeti dell'Antico Testamento (Capp. 9-10).
521. Bisognerà dunque dire che Iddio ha rigettato il suo popolo? Giammai! Anch'io infatti sono Israelita, dalla progenie di Abramo, dalla tribù di Beniamino (11, 1). Tra la defezione generale si è conservato un residuo di fedeli, come avvenne ai tempi di Elia: sono gli eletti dalla grazia, i quali contemplarono ciò che gli altri, accecati, non videro. Ma se gli accecati stramazzarono, la loro caduta non fu senza frutto né durerà in eterno: in primo luogo, alla loro caduta (è dovuta) la salvezza dei Gentili, per provocare quelli a gelosia (ivi, 11); inoltre, quando essi si rialzeranno, il mondo riceverà da ciò più vantaggi che non ricevette danni dalla loro caduta: e perciò Paolo, sebbene apostolo dei Gentili, fa di tutto per salvare quanto più Israeliti può. Segue la comparazione dell'olivo domestico sfrondato, su cui è stato innestato l'olivastro selvatico (vedi al § 166); i rami dell'olivastro innestati, che sono i Gentili, non solo non devono insolentire contro l'olivo domestico, che è Israele, ma si ricordino anche che gli antichi rami sfrondati dall'olivo domestico saranno un giorno inseriti nuovamente in esso. Non voglio, infatti, che voi ignoriate, fratelli, questo mistero - affinché non siate presuntuosi dentro di voi (352) - che l'induramento parziale d'Israele è avvenuto (per il periodo) fino a che la pienezza dei Gentili sia entrata, e così tutto Israele sarà salvato, conforme alla predizione profetica (ivi, 25-26). Gli Israeliti sono sempre oggetto della predilezione di Dio a causa degli antenati; e come i Gentili un tempo furono ribelli a Dio, mentre, adesso hanno ottenuto misericordia, così gli Israeliti adesso sono ribelli, ma un giorno otterranno misericordia a ricompensa della misericordia fatta ai Gentili. O abisso di ricchezza e di sapienza e di scienza di Dio! Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!… Da lui e per lui e verso lui, tutte le cose: a lui la gloria nei secoli! Amen (Cap. II).
522. Ammonizioni morali varie. - I cristiani di Roma offrano i loro corpi come vittime viventi, sante, gradite a Dio: questo è il vero culto da essi dovuto. Essi sono tante membra di un corpo mistico, e perciò servano ciascuno secondo la propria funzione all'intero corpo; lo stesso si dica dei vari carismi che essi posseggono (§ 211 segg.). Ma tutte le varie obbligazioni si riassumono nel precetto della carità, che fa dimenticare sé stessi, servire agli altri, perdonare ogni cosa (Cap. 12).
Nei rapporti con le autorità civili, ogni persona sia soggetta alle potestà superiori: non c'è, infatti, potestà se non da Dio, e quelle che esistono sono disposte da Dio. Cosicché chi si oppone alla potestà, contrasta alla disposizione d'Iddio: i contrastanti, poi, attireranno, su se stessi condanna. I magistrati, infatti, non sono di paura all’azione buona ma alla cattiva (13, 1-3). E bisogna star soggetti, non solo per paura del castigo, ma anche per la coscienza. Per lo stesso motivo si paghino anche le imposte; rendete a tutti il dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi il tributo, il tributo; a chi il timore, il timore; a chi l'onore, l'onore (ivi, 7). Si ricompendi poi ogni dovere in quello della carità, che è la pienezza della Legge. E ciò (tanto più, in quanto siete) edotti del momento (in cui vi trovate): poiché è ora già che vi destiate dal sonno; adesso infatti è più vicina la nostra salvezza, che non quando credemmo. La notte è avanzata, e il giorno si è avvicinato. Deponiamo dunque le opere delle tenebre, e rivestiamoci delle armi della luce (353); abbandonati i vizi d'ogni sorta, rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non abbiate preoccupazioni per la carne a scopo di (malvagi) desideri (Cap. 13).
Chi è debole nella fede sia trattato con tolleranza da chi è forte: se il debole si astiene da certi cibi e compie particolari osservanze in giorni determinati, non deve essere disprezzato dal forte; viceversa, il forte che non pratica siffatte astensioni e osservanze non deve essere giudicato sfavorevolmente dal debole; ambedue hanno intenzione di servire al Signore, e questa intenzione sia rispettata. Per sé, nessun cibo è impuro, ma non si dia scandalo al proprio fratello mangiando una vivanda da lui aborrita: vi si rinunzi, piuttosto, per amar di pace e per carità. Come fece il Cristo, si cerchi di piacere agli altri più che a sé stessi, e si accolgano tutti indistintamente come il Cristo accolse egualmente Giudei e pagani (Capp. 12-15, 13).
523. Conclusione: notizie, saluti. - Paolo sa bene che i cristiani di Roma sono forniti di scienza e in grado di ammonirsi fra di loro; tuttavia ha voluto dar loro qualche ricordo quale apostolo dei Gentili, ai quali dedica tutta la sua operosità. Egli ha annunziato il vangelo da Gerusalemme e (progredendo) in giro fino all'Illirico (§ 503) là dove non era risonato il nome di Cristo, non volendo egli costruire su fondamenta gettate da altri. Molte volte è stato impedito di venire a visitarli, pur avendone desiderio da molti anni; adesso, non avendo più campo nelle contrade ove si trova, si avvierà verso la Spagna e strada facendo spera di fermarsi presso di loro per poi proseguire verso la sua meta; ma per il momento deve andare a Gerusalemme, a recarvi le collette raccolte per i poveri di quella comunità in Macedonia ed Acaia. Si raccomanda quindi che preghino per lui, affinché possa scampare alle insidie dei Giudei della Palestina e la sua missione sia gradita ai fedeli della città santa (15, 14-33).
Raccomanda Febe, diaconessa della comunità di Cencree (§ 426), affinché sia accolta ed assistita amorevolmente. Seguono i saluti per una lunga lista di persone, in cima alla quale figurano i nomi di Prisca (Priscilla) ed Aquila (354). All'invio dei saluti tengano dietro brevi ammonizioni di guardarsi dai seminatori di discordie (§ 513); seguono i saluti dei compagni di Paolo, e una dossologia (Cap. 16).
524. Trascorsi i tre mesi invernali, ai primi di marzo del 58 Paolo lasciò Corinto. Aveva deciso di fare il tragitto per mare imbarcandosi a Cencree e navigando direttamente per la Siria; ma all'ultimo momento gli fu riferito - certamente da qualche cristiano premuroso per l'incolumità del maestro ­ che i Giudei avevano preparato insidie contro di lui nel viaggio (Atti, 20, 3).
È poco probabile che queste insidie mirassero ad impadronirsi delle rilevanti somme che Paolo portava a Gerusalemme come frutto delle collette: i Giudei della Diaspora non erano pirati, e la mira del lucro con violenza ed omicidio a danno di un connazionale non li avrebbe spinti alla congiura. Questa invece dovette esser ispirata da ragioni morali, e Paolo stesso ne aveva carne un vago presentimento allorché scrivendo ai Romani li invitava a pregare per lui affinché (io) scampi dagli infedeli nella Giudea (Rom., 15, 31); il movente della congiura fu l'odio verso il Giudeo rinnegato e verso l'apostolo del Messia Gesù.
Violenze siffatte, anche riguardo ad una singola persona, erano frequentissime appunto in quel tempo da parte degli Zeloti-Sicari, che già conosciamo (355); i quali però erano animati, non già da amore di lucro, ma da fanatismo religioso-nazionalistico. Paolo dovette esser designato come vittima da qualche capobanda Zelota della Giudea, che incaricò dell'esecuzione i suoi emissari all'estero. L'occasione era propizia: per l'imminente Pasqua le navi che veleggiavano verso la Siria dai vari porti del Mediterraneo erano cariche di pellegrini giudei, diretti a Gerusalemme; fra tutta quella folla un colpo ben preparato, eseguito di notte nell'oscurità d'una stiva, protetto dalla complicità di affiliati, avrebbe tolto per sempre di mezzo il rinnegato: il suo cadavere, poi, sarebbe scomparso fra le onde.
525. La denunzia del premuroso cristiano salvò Paolo, che rinunciando al viaggio per mare scelse la via di terra enormemente più lunga, perché l'obbligava a ripassare per la Macedonia: con ciò gli era impossibile trovarsi a Gerusalemme per la Pasqua. Gli furono compagni di viaggio vari rappresentanti delle comunità da lui fondate, cioè Sopatro di Berea, Aristarco e Secondo di Tessalonica, Gaio di Derbe, Timoteo, Tichico e Tronmo dell'Asia proconsolare (Atti, 20, 4); ma ad un certo punto del viaggio - che è impossibile precisare per mancanza di dati nella narrazione - il gruppo si divise, e una sua parte accelerò il cammino andando ad aspettare l'altra parte a Troade. Paolo, risalita la Tessalia e giunto a Filippi, si ricongiunse ivi col suo caro Luca, che difatti da questo punto impiega di nuovo la prima persona plurale nella sua narrazione (§ § 92, 379).
526. A. Filippi fu celebrata la Pasqua; passati gli otto giorni della festa, Paolo, insieme con Luca e forse qualche altro, s'imbarcò al porto di Neapolis (§ 381) dirigendosi a Troade. Questa volta la traversata dovette esser laboriosa, perché richiese cinque giorni; a Troade i nuovi arrivati trovarono l'altra parte del gruppo che li aveva preceduti, e vi rimasero sette giorni.
L'ultimo giorno di permanenza capitò ad essere l'ebraico giorno «primo dal sabbato», ossia la nostra domenica: era perciò il giorno dedicato dai cristiani primitivi ad una adunanza liturgica di particolare importanza (cfr. 1 Cor., 16, 2), resa anche più affettuosa in quella circostanza dagli addii che Paolo avrebbe fatto alla comunità, dovendo, egli partire il giorno appresso. E qui bisogna lasciare la parola al testimonio Luca: Il primo (giorno) dal sabbato, essendo noi adunati insieme per spezzare il pane, Paolo tenne loro un ragionamento, stando per partire il giorno appresso, e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Cerano molte lampade nella sala superiore, dove eravamo adunati insieme. Ora un giovane di nome Eutico, che si era seduto sulla finestra, essendo stato preso da gran sonno mentre Paolo portava a lungo il ragionamento, aggravato dal sonno cadde dal terzo piano al basso e fu rilevato morto. Sceso allora Paolo, si piegò su lui, e tenendolo avvinto disse: «Non vi turbate, giacché la sua anima è in lui!» Risalito poi, e avendo spezzato il pane e mangiato, conversò ancora a lungo fino all'aurora e così partì. Portarono pertanto il giovinetto vivente, e furono consolati non poco (Atti, 20, 7-12).
527. Si sarà notato che l'adunanza di questi cristiani di Troade era tenuta in una sala superiore (***); non sappiamo se ciò fosse una norma usuale dei cristiani, ma sappiamo che in una sala elevata dal suolo (***) era stata istituita l'Eucaristia da Gesù nell'ultima cena (§ 306); quanto al rito dello spezzare il pane non può essere che quello dell'Eucaristia, designato altrove da Paolo con la stessa espressione (I Cor., 10, 16). Lo svolgimento dei fatti, quindi, è abbastanza chiaro: in quel giorno di domenica la comunità si aduna per celebrare il rito dell'Eucaristia a sera inoltrata, cioè nell'ora in cui l'aveva istituita Gesù; Paolo vi partecipa e, dovendo partire il giorno appresso, ne approfitta per congedarsi dai fratelli e per far loro le ultime esortazioni; queste sono fatte prima della celebrazione eucaristica, e si prolungano assai; il giovanetto Eutico, addormentatosi, cade dalla finestra e muore; Paolo scende, lo abbraccia, e assicura che non è morto; ma risalito subito nella sala dell'adunanza, celebra il rito eucaristico con i fratelli, conversa ancora con essi fino all'aurora, e poi parte; il giovanetto infortunato sarà rimasto nel frattempo giacente in un letto di qualche camera vicina, e ci si dice soltanto che scampato dalla morte riempì tutti di consolazione.
In questo racconto è da notarsi la scarsa importanza attribuita all'episodio del giovanetto, che a noi sembra il più importante; l'importanza principale è data invece al rito eucaristico, mentre l'episodio del giovanetto non è che un incidente venuto a perturbare lo svolgimento del rito. Ma il perturbamento è minimo: appena Paolo ha abbracciato il morto e rassicurati i vivi, il rito è ripreso come se nulla fosse accaduto e l'adunanza si prolunga fino all'aurora. Il medico Luca ci dice asciuttamente che il giovanetto prima era morto e poi vivente, senza entrare in particolari. Se Paolo si piegò sul morto e lo abbracciò strettamente (***), possiamo ritenere che egli, perfetto conoscitore della Bibbia, avesse presenti le figure di Elia e di Eliseo i quali sopra i due morti da loro risuscitati avevano compiuto quei simbolici gesti ch'erano usuali al profetismo ebraico: I (III) Re, 17, 21-23; II (IV) Re, 4, 34-36.
Qualche razionalista ha voluto interpretare la parola di Paolo la sua anima è in lui come un'affermazione che il giovanetto non era ancora morto; niente affatto: tutto il contesto dimostra che, nella mente del narratore, esse significano che il giovanetto era nuovamente vivo dopo essere stato morto, ossia che l'anima era presente perché ritornata. Analoghe affermazioni attribuisce il racconto biblico ad Elia, quando risuscitò il suo fanciullo.
528. Partito il gruppo da Troade, il viaggio verso il Sud fu in realtà una navigazione di cabotaggio. La prima sosta fu fatta ad Asson, situata dietro il promontorio che sporgeva a Sud di Troade: ivi si poteva giungere sia per mare costeggiando il promontorio, sia per terra attraversandolo alla sua base con un cammino di circa sei ore; non sappiamo per qual ragione, Paolo volle compiere il viaggio per terra, avendo fatto partire poco prima i suoi compagni per nave e dato loro appuntamento ad Asson.
Riunitisi tutti ad Asson, ne salparono alla volta di Mitilene, che era la città principale dell'isola di Lesbo e situata sulla costa orientale.
La dimane navigarono di fronte all'isola di Chio, all'altezza di Smirne. Il giorno successivo, passando al largo di fronte ad Efeso, imboccarono lo stretto fra l'isola di Samo e il promontorio di Micale, e secondo una particolare lezione approdarono ivi a Trogilio (Santa Maria). Il giorno seguente giunsero a Mileto.
529. Chi oggi durante una bella stagione ha seguito lo stesso percorso di Paolo, costeggiando le regioni ioniche dell'Asia Minore da Troia giù giù fino a Rodi, ha goduto certamente di incantevoli vedute, rese anche più suggestive dai fantasmi di tre millenni di storia che sorgono su dai vari luoghi. Ai tempi di Paolo quelle regioni erano meno ricche di fantasmi storici, ma più ricche di tutto il resto e specialmente più floride; tuttavia egli, secondo il suo solito (§ 233), dovette rimanere estraneo a ciò che lo circondava perché il vero mondo in cui viveva egli lo portava dentro di sé. Ora, questo suo mondo interno era in quei giorni tutt'altro che placido e sereno, e dappertutto sul suo orizzonte spirituale s'alzavano nere nubi.
Egli non volle toccar Efeso per risparmiar tempo, desiderando di giungere a Gerusalemme per la prossima Pentecoste (Atti, 20, 16). A Gerusalemme egli andava non solo per portarvi le collette raccolte da tanto tempo e da tanti luoghi, ma anche spintovi da una forza irresistibile del suo spirito (ivi, 22); tuttavia prevedeva laggiù gravi tribolazioni, In primo luogo, come avrebbero accolto i fratelli di Gerusalemme le collette e colui che le portava? La chiusa della lettera ai Romani (15, 30-31), la quale raccomanda di pregare affinché la sua offerta sia bene accetta a quei fratelli, dimostra che egli non era tranquillo su questo punto. Poteva avvènire che la corrente rigorista, largamente rappresentata a Gerusalemme, si dimostrasse ostile contro Paolo anche riguardo ai soccorsi da lui portati, e facesse di tutto affinché fossero respinti in mala maniera. Non erano doni che venivano, in sostanza, da incirconcisi? Non erano stati raccolti da colui che voleva abolire la Legge? A un benefattore di tal genere qualcuno dei più intransigenti avrebbe voluto rispondere, forse, come aveva risposto Pietro a Simon Mago: Pecunia tua tecum sit in perditionem, (Atti, 8, 20). Le conseguenze di siffatta risposta sarebbero state gravissime, per una parte e per l'altra; e appunto riguardo a ciò Paolo era in angosciosa incertezza.
530. Ma non era tutto qui: oltre ai pericoli interni, c'erano quelli esterni. La medesima chiusa della lettera ai Romani accenna anche agli infedeli della Giudea, ossia agli Zeloti-Sicari che già avevano ordito la congiura contro Paolo durante la navigazione alla volta di Gerusalemme; e delle trame di cotesti fanatici Paolo doveva saper parecchie cose, perché vi accennerà anche nel discorso tenuto a Mileto (Atti, 20, 19). Per quella volta il colpo era fallito: ma quando egli si fosse presentato in persona a Gerusalemme,che cosa non erano capaci ancora di fare quelle belve implacabili? Morire, per lui, sarebbe stato meno che nulla, anzi un guadagno (Filipp., 1, 21); ma che cosa sarebbe avvenuto, scomparso lui, delle comunità da lui fondate e per tanti anni sorvegliate da lontano giorno per giorno? E i cari progetti di evangelizzazione dell'Occidente fino alla Spagna, compresa la visita a Roma, dovevano svanire per la pugnalata di un ignoto Zelota?
Basta: a tutto ciò avrebbe provveduto il Signore; certo è che egli sentiva risonare incessantemente nel suo interno un ammonimento arcano: Vado a Gerusalemme, non sapendo ciò che in essa mi capiterà; solo che lo Spirito santo in ogni città mi attesta, dicendo che mi aspettano vincoli e tribolazioni (Atti, 20, 22-23). Con queste prospettive è chiaro che la navigazione lungo le coste ioniche non poteva essere una gita di piacere, e Paolo piuttosto che ammirare i panorami dispiegantisi attorno alla sua nave stava chiuso a riflettere sul suo
immediato futuro.
531. Di tale stato d'animo risente il discorso da lui tenuto a Mileto (§ 12). Da questa città egli mandò a chiamare gli anziani della vicina Efeso, giacché se la fretta con cui viaggiava non gli permetteva di recarsi colà, neppure voleva allontanarsi da quella regione senza aver salutato, ed esortato i rappresentanti di quella sua cara comunità; giunti che furono, tenne loro un discorso che ci è riportato nella sua sostanza da Luca. Questo discorso, somigliantissimo per espressioni alle lettere di Paolo, riassume concettualmente l'attività da lui spiegata ad Efeso e rispecchia con precisione le condizioni spirituali dell'oratore, commosso da ricordi, turbato da nere previsioni, sostenuto da speranze, confortato dalla testimonianza della sua coscienza.
I convocati -. dice Paolo - sanno come egli si sia comportato fin dal primo giorno che entrò nella provincia dell'Asia, servendo il Signore con ogni umiltà fra le tribolazioni e le insidie dei Giudei; egli non ha tralasciato nulla di ciò che giovava loro, insegnando in pubblico e nelle singole case e invitando Giudei e Greci alla metànoia verso Dio (cfr. § 417) e alla fede in Gesù. Ecco, ora, che si sente spiritualmente costretto a recarsi a Gerusalemme: non sa che cosa gli capiterà colà, ma lo Spirito santo in ogni città gli attesta che lo attendono catene e tribolazioni; egli però non è affatto attaccato alla vita, e gli sta a cuore soltanto l'adempiere l'ufficio assegnatogli dal Signore Gesù di testimoniare il vangelo della grazia d'Iddio. Egli sa che essi, da lui evangelizzati, non vedranno più la sua faccia (356); perciò, mentre attesta di non avere alcun rimorso a loro riguardo, li esorta ad aver cura di se stessi e del gregge nel quale lo Spirito santo vi ha posti ispettori (***, episcopi) (357) per pascere la Chiesa d'Iddio (20, 28). Egli sa che dopo la sua partenza penetreranno nel gregge lupi rapaci, e che pure fra loro ascoltatori sorgeranno taluni ad insegnare perversità per adunar discepoli; siano dunque vigilanti, ricordandosi che per tre anni egli non ha cessato notte e giorno di esortare ciascuno di loro. E adesso li raccomanda alla grazia di Dio, che li assisterà. Egli non ha cercato nulla dei loro beni materiali, ed essi sanno che alle necessità sue e dei suoi compagni ha provveduto egli col lavoro delle sue mani, giacché ha voluto anche mostrar loro che appunto col lavoro si devono soccorrere i bisognosi, rammentandosi delle parole del Signore che disse: È cosa più beata dare che ricevere (§ 302, nota).
532. Terminato il discorso; Paolo s'inginocchiò e pregò insieme con gli anziani. Quindi tutti lo abbracciarono e baciarono piangendo, afflitti per la predizione che non avrebbero più visto la sua faccia; e l'accompagnarono alla nave.
Salpato da Mileto, dopo una permanenza di forse tre giorni, Paolo riprese la navigazione con una comitiva diminuita: dalla narrazione successiva risultano ancora presenti Trofimo ed Aristarco, oltre Luca, mentre gli altri non sono più menzionati; è probabile che si staccassero da Paolo a Mileto. Il primo giorno la nave fece rotta verso l'isola di Cos; il giorno appresso fu raggiunta Rodi; la dimane s'approdò a Patara nella Licia (§ 11), in linea retta a levante di Rodi. A Patara, avendo trovato una nave che faceva la traversata in Fenicia, salitivi salpammo. Giunti in vista di Cipro e lasciatala sulla sinistra, navigammo alla volta della Siria ed arrivammo a Tiro, perché colà la nave doveva deporre il carico (Atti, 21, 2-3).
533. Nonostante la fretta di Paolo, la sosta a Tiro fu lunga, di ben sette giorni, probabilmente per le esigenze di servizio della nave; ma egli ne approfittò per trattenersi con la comunità locale, le cui origini dovevano risalire alla persecuzione dei cristiani da lui stesso promossa (cfr: Atti, 11, 19). Alcuni di essi, edotti circa l'immediato futuro dallo Spirito, esortavano Paolo a non recarsi a Gerusalemme per evitare tristi fatti, ma non riuscirono a trattenerlo; passati i sette giorni, ci mettemmo in cammino, accompagnandoci tutti (i fratelli) insieme con le mogli e i figli fino all’esterno della città; e inginocchiatici sulla spiaggia a pregare, ci salutammo gli uni gli altri e salimmo sulla nave, e quelli se ne tornarono a casa (ivi; 21, 5-6). Da Tiro la nave passò a Tolemaide, e là - a quanto sembra - cessò il viaggio per mare.
534. Rimasti presso la comunità locale un giorno, Paolo e compagni partirono per terra alla volta di Cesarea, ed essendo entrati nella casa di Filippo l'evangelista, che era (uno) dei sette (diaconi), rimanemmo presso di lui; egli aveva quattro figlie vergini che profetavano (ivi, 8-9). Aveva egualmente il carisma di «profeta» un certo Agabo, il quale durante i vari giorni che Paolo rimase a Cesarea, giunse ivi dalla Giudea: doveva provenire da Gerusalemme, e sembra bene che fosse lo stesso Agabo «profeta» presentatosi ad Antiochia (§ 317). Dinanzi a Paolo, egli compì una di quelle azioni simboliche che erano state assai impiegate dagli antichi profeti ebraici, specialmente da Ezechiele; prese cioè la cintura di Paolo, ed essendosi legato mani e piedi con essa sentenziò: L'uomo di cui è questa cintura, in questa maniera i Giudei (lo) legheranno in Gerusalemme e (lo) consegneranno nelle mani dei Gentili! (ivi, 11). All'udir queste parole da un autorevole carismatico, tutti gli astanti, compreso il narratore Luca, pregarono Paolo di non andare a Gerusalemme; ma egli rispose: Che cosa fate piangendo e spezzandomi il cuore? Io, in realtà, sono pronto, non solo ad essere incatenato ma anche a morire in Gerusalemme per il nome del Signore Gesù! Visto che non si lasciava persuadere, gli astanti risposero: Sia fatta la volontà del Signore! (ivi, 13-14). Alle ammonizioni esterne, anche se provenienti indirettamente da comunicazioni dello Spirito, Paolo contrapponeva le sue interne comunicazioni che lo rendevano incrollabilmente certo della via da seguire: la via per lui era quella di Gerusalemme, anche se lo conduceva in una prigione o sotto la scure di un littore. Questa era la volontà del Signore Gesù, e ciò gli bastava.
L'ultimo tratto del viaggio da Cesarea a Gerusalemme fu compiuto, probabilmente con una sosta intermedia, in compagnia di alcuni fratelli di Cesarea che si unirono alla carovana, forse per offrire maggior sicurezza lungo la strada. Costoro anche, raggiunta Gerusalemme, provvidero a fare alloggiare Paolo presso Mnasone, un Cipriota ch'era cristiano da lunga data. La casa di costui, ellenista di origine, fu giudicata più opportuna di altre ad alloggiare un gruppo di cristiani in cui non mancavano certamente degli incirconcisi; presso case di cristiani giudaizzanti essi difficilmente sarebbero stati accolti, e anche se accolti sarebbero sorte troppo facilmente occasioni di conflitto.
Era la quinta visita, a noi nota, che Paolo faceva a Gerusalemme dopo la sua conversione.

L'IMPRIGIONAMENTO A GERUSALEMME

LA PRIGIONIA A CESAREA
535. L'accoglienza che Paolo trovò presso la comunità di Gerusalemme fu un'accoglienza «diplomatica», nel senso familiare della parola; ma sarebbe stata certamente assai peggiore - come del resto egli stesso aveva temuto (§ 529) - se non fosse intervenuta una autorità superiore a cambiare, non proprio la sostanza della situazione, ma almeno la sua apparenza. La diplomazia, in qualunque campo, conosce di simili casi.
È da aver presente, infatti, che a Gerusalemme vivevano fianco a fianco ellenisti-cristiani e giudeo-cristiani, rispettivamente con le loro propensioni (§ 350 segg.); più numerosi e potenti erano certamente i secondi, ma sopra ad ambedue le correnti c'erano le autorità somme, i sovreminenti apostoli, davanti ai quali i due gruppi s'inchinavano riverenti, pur cercando in pratica di tirarli ciascuno dalla parte propria. Cosicché la prudente abilità di quelle autorità somme doveva palesarsi nel far procedere i due gruppi insieme e con minori contrasti possibili, inducendone oggi uno e domani un altro a rinunciare a qualche oggetto delle rispettive predilezioni. Il punto di convergenza, ove i pareri discordi dei due gruppi potevano accordarsi, esisteva benissimo: era la mutua carità, che la catechesi di Giovanni presentava quale precetto distintivo dei seguaci di Gesù impartito loro dal Maestro alla vigilia della sua morte (Giov., 13, 34-35; 15, 12); e che la catechesi di Paolo metteva più in alto di ogni più eccelso carisma (§ 225); ma, se ciò in teoria era chiarissimo; in pratica la pesantezza dell'umanità non permetteva a questo o a quel gruppo di elevarsi fino a quella vetta così sublime. E allora i sovreminenti apostoli proponevano dei compromessi, per far incontrare i due gruppi su una linea intermedia con parziale soddisfazione di ambedue: era quanto di meglio poteva ottenere la diplomazia della carità, per accordare il precetto distintivo dei cristiani con la pesantezza della loro umanità.
536. Il primo incontro di Paolo e compagni con i cristiani di Gerusalemme fu cordiale: arrivati noi a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con gioia (Atti, 21, 17), È facile riconoscere in questi fratelli i cristiani ellenisti, i quali appena saputo che i missionari dei Gentili sono arrivati vanno a salutarli, e si congratulano con loro delle buone notizie arrecate; ma è un incontro privato, avvenuto tra fedeli dello stesso gruppo, che si parlano da cuore a cuore e che non hanno responsabilità direttive né preoccupazioni di mantenere equilibri fra parti contrastanti. Intanto, quella sera stessa, si sparge in tutta la comunità la notizia dell'eccezionale arrivo, giungendo così alle orecchie dei dirigenti minori e maggiori: e poiché gli arrivati hanno espresso il desiderio di esser ricevuti ufficialmente per consegnare, le somme recate; i dirigenti fissano il ricevimento per il giorno seguente e frattanto discutono fra loro sul carattere da dare al ricevimento.
Contrasto di pareri indubbiamente ci fu, e non sarà mancato tra i dirigenti minori chi avrà proposto di rifiutare senz'altro le collette raccolte fra incirconcisi e di sconfessare apertamente i criteri seguiti da Paolo nell'evangelizzare i pagani (§ 529); altri «anziani», invece, saranno stati meno radicali e avranno proposto di non rifiutare le collette, ma nello stesso tempo di prescrivere a Paolo un metodo diverso nell'evangelizzare i pagani, imponendo loro l'osservanza almeno dei punti fondamentali della Legge giudaica; altri si saranno contentati anche di meno, preoccupandosi soltanto dei propri connazionali, e avranno proposto che Paolo imponesse ai Giudei da lui convertiti di osservare anche dopo il battesimo la Legge giudaica. Questi dovettero essere i principali pareri espressi dai dirigenti minori, gli «anziani» della comunità, che quasi esclusivamente erano giudeo-cristiani.
Ma alla riunione assisteva anche l'unico dei sovreminenti apostoli allora presente a Gerusalemme, Giacomo il «fratello» del Signore; il quale, mentre ascoltava tutte queste proposte, dovette ripensare all'atteggiamento da lui tenuto in occasione del concilio apostolico (§ 358) e riscontrare quanto poco quell'atteggiamento fosse ora imitata. Alla fine anch'egli avrà preso la parola, esprimendo nuovamente le sue antiche opinioni e deludendo nuovamente le speranze fondate su lui da quegli anziani; tuttavia, sentendo egli gravare interamente su di sé la responsabilità del momento, giudicò opportuno addolcire l'amarezza della delusione con qualche piccola concessione di natura pratica. Dovette risultarne una specie di «ordine del giorno» con cui fu fissato l'atteggiamento da tenersi il giorno appresso, atteggiamento di caritatevole compromesso e di cautelata prudenza
537. Il giorno appresso entrò Paolo, insieme con noi, da Giacomo: si riunirono pure tutti gli anziani. E avendoli salutati, raccontò una per una le cose che Iddio fece tra i Gentili mediante il suo ministero. Quelli poi, udito che ebbero, lodarono Iddio... E fin qui tutto è naturale e limpido: quegli anziani ascoltano felici notizie sull'espansione della Buona Novella, e ne lodano Iddio; ma subito appresso hanno qualcosa da replicare, e la esprimono in maniera garbata e dissimulata, sebbene rispondente al loro intimo pensiero. Non ci è detto chi fosse l'oratore, ma probabilmente fu Giacomo stesso, che parlò a nome degli anziani e conforme all'atteggiamento fissata nell'«ordine del giorno» della sera precedente.
Chiunque fosse, Paolo udì indirizzarsi queste parole: Vedi, fratello, quante decine di migliaia sono i Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della Legge. Questo fatto è presentata a Paolo quasi in contrapposto alle notizie recate circa i moltissimi pagani da lui convertiti: ed era un fatto di cui certamente bisognava tener conto, giacché riconoscevano Gesù per Messia sia gli ex-giudei sia gli ex-pagani; il fatto poi era tanto più riscontrabile in quei giorni a Gerusalemme, ove per l'occasione della Pentecoste erano confluiti moltissimi Giudei della Diaspora, e buon numero di costoro avevano accettato la fede cristiana pur seguitando a praticare i pellegrinaggi prescritti dalla Legge giudaica. Ma a questo indubitabile fatto è soggiunto subito appresso una informazione, la quale non senza un prudente artificio è attribuita a quegli stessi Giudei: Furono però informati sul conto tuo che insegni l'apostasia da Mosé a tutti i Giudei (che dimorano) fra i Gentili, dicendo ch'essi non (devono) circoncidere i figli né procedere conforme alle costumanze (giudaiche).
538. Veramente, non erano questi i precisi insegnamenti di Paolo; egli sosteneva bensì che i pagani divenuti cristiani non dovevano preoccuparsi delle osservanze giudaiche, ma con i Giudei fattisi cristiani egli, con saggia psicologia, era più remissivo, lasciando alla loro coscienza individuale di continuare o no le pratiche della Legge, pur affermando che essa non arrecava la salvezza e che con la venuta del Messia Gesù era stata abolita. Certo, l'affermazione di questi principi i importava come ultima conseguenza l'apostasia da Mosé, tuttavia Paolo aveva messo davanti ai seguaci di Mosé soltanto i principii, lasciando alle loro coscienze di trarne le conseguenze pratiche; da acuto psicologo, egli trattava i propri connazionali da uomini e non da macchine, sapendo benissimo quanto è costoso all'uomo staccarsi da antiche e venerate tradizioni: egli stesso, del resto, come per devozione personale aveva fatto ed osservato il voto di Cencree (§ 448), così per condiscendenza caritatevole aveva circonciso Timoteo (§ 373). Ma su tutte queste sottili distinzioni e umane considerazioni l'adunanza degli anziani passò sopra e, pur attribuendo l'informazione ad anonimi, fece forza sull’apostasia da Mosé.
A questa diagnosi del morbo fu aggiunto subito il suggerimento della medicina, sotto forma di amorevole consiglio: Che fare, dunque? In ogni caso verranno a sapere che sei arrivato. Fa, dunque, questo che ti diciamo. Abbiamo quattro uomini che hanno un voto su di sé; prendi costoro con te, purificati con essi, e paga per essi affinché si radano la testa, e tutti riconosceranno che non c'è niente (di vero in) quelle cose di cui furono informati sul conto tuo, ma che anche tu ti comporti custodendo la Legge. Quanto poi ai Gentili che hanno creduto, noi scrivemmo (loro) dopo aver deciso che essi si astengano dagli idolotiti, e dal sangue, e dal soffocato, e dalla fornicazione (ivi,18-25).
539. La medicina, suggerita era, in sostanza, di compiere pubblicamente un atto che dimostrasse l'osservanza di una particolare prescrizione della Legge giudaica, ossia del voto di «nazireato» (§ 448); non si chiedevano a Paolo dichiarazioni dottrinali circa il vigore e l'efficacia di quella Legge: egli pensasse pure come voleva, soltanto offrisse questa dimostrazione pratica per dissipare le pericolose voci che circolavano sul conto suo.
In realtà, ciò che si chiedeva a Paolo non era una gran cosa: anzi, è probabile che gli anziani scegliessero proprio quella proposta, in luogo di qualche altra, perché casualmente avevano saputo dello stesso voto fatto da Paolo a Cencree cinque anni prima. Allora egli aveva fatto il voto per devozione personale: ebbene, adesso si accomunasse con quei quattro cristiani che erano nelle sue condizioni di allora, e li aiutasse ad adempiere il voto. Avveniva spesso, infatti, che poveri i quali avevano, fatto voto di «nazireato» non potessero poi affrontare le notevoli spese dei sacrifizi prescritti allo scadere del voto: in tali casi persone facoltose si facevano un pregio di fornire a quei poveri i mezzi per pagare i sacrifizi, e così radersi i capelli e sciogliersi dal voto (cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giud.; XIX, 294).
Per dimostrare più equa questa proposta, già così moderata per se stessa, gli anziani in fondo al discorso fecero un accenno al decreto del concilio, il quale ai Gentili divenuti cristiani non aveva imposto che le quattro note proibizioni (§ 360 segg.); questo accenno, pur potendo valere per Paolo come un velato do ut des, gli ricordava che di fronte ai pagani da lui evangelizzati egli rimaneva perfettamente libero, non essendo quelli astretti da altri obblighi fuor di quei quattro. È ciò che esplicitamente dice la recensione «occidentale» (§ 119, nota), la quale legge: Quanto poi ai Gentili che hanno creduto, non hanno niente da dire contro di te, perché noi scrivemmo, ecc.
540. Con tutti questi addolcimenti, il boccone conservava un sapore assai amaro per chi doveva trangugiarlo. Il prudente Luca non accenna affatto a titubanze di Paolo, e passa subito appresso a narrare come egli seguisse il consiglio ricevuto: ma titubanze e fremiti interni indubbiamente ci furono, e Paolo non sarebbe stato l'uomo che era se non li avesse provati. Tuttavia sull'uomo Paolo si era sovrapposto già da un ventennio l'apostolo del Cristo: egli quindi, ih quel momento. decisivo, si ricordò di avere scritto alcuni mesi prima ai Corinti che si faceva Giudeo con i Giudei per guadagnarli (1 Cor., 9, 20); si rammentò pure di aver dichiarato nella stessa lettera (ivi, 13, 2) che egli non sarebbe valso nulla, qualora avesse potuto trasportare le montagne ma fosse stato privo di carità: perciò nell'ora della prova l'apostolo frenò l'uomo, l'obbligò a farsi ancora una volta Giudeo, e in tutto lasciò trionfare la carità.
Avendo dunque Paolo accettato la proposta, il giorno appresso prese con sé i quattro giudeo-cristiani che avevano il voto, e compiute le cerimonie purificatrici prescritte, entrò nel Tempio di Gerusalemme per farvi la dichiarazione necessaria riguardo alla scadenza del voto, e fissare d'accordo con i sacerdoti il giorno in cui si sarebbero offerti i relativi sacrifizi; nei sette giorni seguenti, in attesa della scadenza del voto, egli seguitò a frequentare il Tempio insieme con i quattro nazirei (358). I sette giorni erano quasi passati e la scadenza era imminente, allorché avvenne il fatto imprevisto che dette tutt'altro indirizzo al resto della vita di Paolo.
541. In quei giorni della Pentecoste il Tempio di Gerusalemme era affollatissimo di pellegrini venuti da ogni parte della Diaspora; e, come già sappiamo (359), il Tempio era non soltanto l'unico luogo di culto sacrificale per il giudaismo del mondo intero, ma anche il gran posto di ritrovo per gli abitanti e i visitatori della città. Il suo «atrio dei gentili», ove potevano entrare anche i pagani, era in pratica per Gerusalemme ciò che per una città greca era l’agorà: ogni affare si poteva concludere ivi, ogni persona vi si poteva incontrare. Specialmente a questo periodo della vita di Paolo, quando la corrente degli Zeloti-Sicari ingigantiva di mese in mese, il Tempio e l'«atrio dei gentili» servivano da osservatorio internazionale e da roccaforte morale, in attesa di diventare anche roccaforte materiale degli insorti durante la guerra del 70. Là i focosi nazionalisti esaltati da visioni messianico-politiche arringavano folle intere, e là guadagnavano individui alla spicciolata; là ordinavano aperti colpi di mano contro lontani villaggi riottosi, e là si stabiliva di spacciare con una misteriosa pugnalata l'impiegato governativo o l'eminente Giudeo avversi alle loro idee. Nel Tempio venivano a riannodarsi tutte le fila della Diaspora mondiale: e perciò sorvegliare e dominare il Tempio equivaleva a sorvegliare e dominare il giudaismo intero.
I Romani, sapendo bene che questo era il punto nevralgico della Palestina e di tutto il mondo giudaico, mantenevano in permanenza una coorte armata nella fortezza Antonia, situata a Nord dei Tempio e collegata internamente con esso: e la coorte, specialmente in occasioni di grandi solennità, era più o meno in stato di permanente allarme, perché l'enorme affluenza di pellegrini frementi di speranze nazionaliste offriva occasioni continue a tumulti, talvolta, anche gravissimi.

542. Molti di questi tumulti sono ricordati da Flavio Giuseppe, ed è inutile farne anche il semplice elenco: sarà invece opportuno riportarne uno, per le ragioni che vedremo. Ecco come egli lo narra: Maggiore fu la sventura che attirò addosso ai Giudei il falso profeta Egiziano, venuto infatti nel paese un uomo ciurmadore, e guadagnatasi la riputazione di profeta, raduna circa 30.000 dei sedotti (da lui); condottili poi torno torno dal deserto al monte detto degli Olivi, di là egli sarebbe stato in grado di penetrare a forza in Gerusalemme, e sopraffatta la guarnigione romana si sarebbe imposto da dominatore sul popolo, sostenuto dagli armati entrati insieme (con lui). Ma la sua mossa è prevenuta dal (procuratore romano) Felice che gli si fa incontro con la fanteria pesante romana, mentre tutto il popolo prende parte con lui alla difesa: cosicché, avvenuto lo scontro, l'Egiziano prende la fuga con alcuni pochi, i più dei suoi seguaci sono uccisi e catturati, e il resto della turba si disperde ciascuno a casa propria. Messi a posto costoro, l'enfiagione, come avviene in un corpo malato, si manifestò nuovamente in un'altra parte. Poiché ciurmadori e briganti, radunatisi insieme, spingevano molti alla rivolta e li incitavano alla libertà, minacciando di morte quei che si sottomettevano alla autorità dei Romani, ecc. (360).
Veramente questo episodio non avvenne proprio nell'interno del Tempio, ma nelle sue immediate vicinanze, perché il Monte degli Olivi dove si era insediato l'Egiziano stava direttamente di fronte al Tempio, ed a questo mirava egli senza dubbio come primo obiéttivo. Ad ogni modo l'episodio è istruttivo; sia perché mostra lo sfondo generico dei tempi di cui trattiamo, sia perché tanto il procuratore Felice quanto il falso profeta Egiziano si ricollegano con Paolo.
543. Tornando a costui, non ci resta che lasciare la parola a Luca: Quando i sette giorni stavano per terminare, i Giudei (provenienti) dall’Asia (proconsolare) avendo scorto lui (Paolo) nel Tempio, sommossero tutta la folla e misero le mani addosso a lui, gridando: «Uomini israeliti, aiuto! Questo è l'uomo che contro il popolo e la Legge e questo luogo insegna a tutti e dappertutto, e per di più anche dei Greci introdusse nel Tempio ed ha profanato questo santo luogo!» Avevano, infatti visto prima Trofimo l'Efesio nella città insieme con lui, e credevano, che Paolo l'avesse introdotto nel Tempio. E tutta la città s'agitò e ci fu concorso del popolo; ed essendosi impadroniti di Paolo, lo trascinarono fuori del Tempio, e subito le porte furono chiuse (Atti, 21, 27-30).
Dunque, Paolo era tenuto d'occhio; i pellegrini Giudei provenienti dall'Asia proconsolare, particolarmente da Efeso, avevano visto per le vie Paolo insieme con Trofimo di Efeso (§§ 525, 643), e da allora lo sorvegliavano con la speranza di ritrovarlo nell'interno del Tempio, dove essi si sentivano padroni. L'accusa da loro gridata a squarciagola, che Paolo avesse introdotto Trofimo nel Tempio, naturalmente era falsa: ma essi, trovatoci Paolo, credevano trovar ci anche Trofimo. Ad ogni modo il cristiano Trofimo, certamente ex-pagano e quindi incirconciso, poteva benissimo entrare nell’«atrio dei gentili»; non poteva invece oltrepassarlo penetrando nell'atrio interno, perché iscrizioni greche e latine apposte sul parapetto che separava i due atri ne impedivano l'ingresso ai pagani sotto pena di morte (361).
544. Il grido dei nemici di Paolo eccitò la folla adunata nel Tempio, e il subbuglio ben presto si propagò anche al di fuori: subito accorsero altri Giudei dalla città, e trascinarono Paolo, fuori dell'atrio interno del Tempio per infliggergli il castigo meritato. Tutto lasciava prevedere un tumulto con effusione di sangue; perciò i Leviti di servizio, abituati ormai a queste violenze popolari, s'affrettarono a chiudere le porte del Tempio per non lasciarlo profanare dal sangue.
Ma, oltre ai Leviti, intervennero anche altre persone meno accette ai tumultuanti, cioè i soldati romani. Essi non solo stavano abitualmente di quartiere nell'attigua fortezza Antonia, ma seconda Flavio Giuseppe (Guerra giud., V, 244) durante le festività si distribuivano armati qua e là lungo i portici, perché in quelle occasioni i tumulti erano più facili; e così certamente avevano fatto anche in quella festività di Pentecoste. I soldati di guardia inviarono di corsa uno di loro alla fortezza Antonia, per avvisare il tribuna comandante la coorte che cominciava uno dei soliti tumulti; il tribuno, che si chiamava Claudio Lisia, subito prese con sé soldati e centurioni e si recò sul posto, ove trovò un forte gruppo di gente che infieriva contro un uomo cercando di ucciderlo a percosse. Naturalmente, era Paolo.
E qui sarà meglio ascoltare di nuovo Luca: Quelli allora, vedendo il tribuno e i soldati, cessarono di percuotere Paolo. Avvicinatosi allora, il tribuno lo prese e ordinò che fosse incatenato con due catene. Domandò poi chi fosse, e che cosa avesse fatto; ma nella folla chi gridava una cosa chi un'altra; non potendo egli pertanto sapere la realtà a causa del tumulto, ordinò che fosse condotto nel quartiere. Ma quando (Paolo) fu sui gradini (che portavano dall'atrio del Tempio su nella fortezza Antonia) (362), avvenne (che dovette) esser portato di peso dai soldati a causa della violenza della folla, giacché la massa del popolo veniva appresso, gridando: «Ammàzzalo!». Stando poi sul punto d'essere introdotto nel quartiere, Paolo dice al tribuno: «Mi è lecito di dirti una cosa?» E quello disse: «Sai il greco? Ma non sei tu l'Egiziano che, giorni or sono, sollevò e condusse fuori nel deserto i 4000 uomini dei Sicari?» Ma Paolo disse: «Io sono un uomo Giudeo, Tarsense, cittadino di città non ignobile della Cilicia. Ti prego, pertanto, permettimi di parlare al popolo!». Avendoglielo (quello) permesso, Paolo, stando ritto sui gradini, agitò la mano verso il popolo; e fattosi gran silenzio, parlò in lingua ebraica dicendo: (Atti, 21, 32-40).
545. Uomo straordinario, questo Paolo, ma sempre uguale a se stesso! Sta per morire sotto pugni e bastonate; è salvato dall'intervento inaspettato dei soldati romani; ammaccato e sanguinante, è trasportato di peso in un luogo sicuro, fuori del Tempio del suo Dio diventato per lui luogo malsicuro: e invece di pensare a prender fiato e a curarsi le ferite, pensa non tanto al Tempio materiale da cui esce quanto al popolo dei suoi connazionali ch'egli lascia là dentro, quasicché lasciasse là dentro l'anima sua! Che avrà egli da dire a quei suoi consanguinei che vogliono il suo sangue?
Il tribuno Lisia, poco informato, l'ha scambiato con l'Egiziano rivoluzionario (§ 542); Paolo per il momento si contenta di dirgli che è invece un Giudeo di Tarso, senza ancora informarlo di una circostanza più importante per il tribuno e della quale lo informerà più tardi (§ 547). Ottenuto il permesso, egli parla in lingua ebraica, ossia in aramaico. Era questo, infatti, l'idioma allora usuale in Palestina, e naturalmente appena la folla udì le prime parole in aramaico si fece anche più silenziosa e attenta, riconoscendo in chi parlava uno dei loro.
546. Il discorso tenuto da Paolo ai suoi aspiranti assassini fu, in sostanza, un'autobiografia apologetica.
Egli si presenta come Giudeo, nato a Tarso, istruito a Gerusalemme ai piedi di Gamaliel secondo l'esattezza della Legge dei padri, zelante della causa di Dio al pari dei suoi ascoltatori. Egli già perseguitò la fede cristiana mettendone in prigione i seguaci, come possono ancora testimoniare il sommo sacerdote e il collegio degli anziani. Inviato dà loro a Damasco per estendere colà la persecuzione, egli si convertì (secondo le circostanze che già esaminammo: § 267 segg.). Più tardi, mentre pregava nel Tempio di Gerusalemme gli apparve in visione Gesù, ordinandogli di uscire dalla città perché la sua predicazione non sarebbe stata accolta ivi; e infine annunziandogli che lo inviava a genti lontane (§ 293) (22, 1-21).
Quest'ultima affermazione, che Gesù aveva, inviato Paolo a genti pagane, fece scattare l'uditorio, mantenutosi quieto fino allora: fosse vera o falsa per quegli uditori l'apparizione di Gesù, essi non potevano ammettere che genti pagane fossero considerate una degna sostituzione della stirpe santa d'Israele. La protesta fu espressa con la solita teatralità orientale: tutti si dettero a gridare, ad agitare i mantelli, a lanciare polvere in aria. Vista la brutta piega che prendeva la faccenda, il tribuno Lisia ordinò ai soldati di condurre Paolo dentro il quartiere; d'altra parte, Lisia non aveva capito nulla né del discorso in aramaico né delle grida, e non sapendo spiegarsi quella nuova esplosione di furore, volle veder chiaro in tutto l'affare. Paolo aveva risposto di non essere l'Egiziano: sarà stato dunque un rivoluzionario o mestatore d'altro tipo. Ma che aveva fatto? Perché mai i Giudei erano così furibondi contro di lui? Bisognava inquisire l'imputato e ottenere qualche confessione da lui. Ma per evitare perdite di tempo fra menzogne, reticenze e simulazioni, abituali nelle interrogazioni fatte ad imputati di quel genere, Lisia giudicò opportuno ricorrere senz'altro alle verghe: un interrogatorio fatto a suon di verghe era più redditizio e più sbrigativo. Impartiti perciò gli ordini in proposito, il tribuno si allontanò.
547. I soldati incaricati dell'esecuzione, sotto il comando di un centurione, cominciarono col preparare l'imputato, spogliandolo delle vesti e legandolo ricurvo a qualche basso pilastro. Ma, ad un certo punto, Paolo disse al centurione che assisteva: «Vi è forse lecito di fustigare un uomo Romano e non sottoposto a giudizio?» Si ripeteva la situazione di Filippi (§ 393); la gravità del caso fu ben valutata dal centurione che, fatta sospendere l'esecuzione, corse dal tribuno per dirgli: Che cosa stai per fare? Quest’uomo, infatti, è Romano! Stupore e spavento da parte del tribuno; il quale si precipita verso l'imputato e, quasi per assicurarsi meglio su ciò che gli è stato riferito, gli chiede: «Dimmi, sei tu Romano?». Quello disse: «Sì». Rispose allora il tribuno: «Io con una forte somma acquistai questa cittadinanza!» Ma Paolo disse: «Io, invece, ci sono proprio nato!» Subito, perciò, si allontanarono da lui quelli che stavano per inquisirlo; anche il tribuno poi ebbe paura, sapendo ch'era Romano e che l'aveva fatto legare (22, 25-29).
Al tribuno neppure passa per la mente che Paolo affermi il falso, attribuendosi la cittadinanza senza averla: sarebbe un'audacia enorme, e nei rarissimi casi ch'è avvenuta è stata punita di morte (Svetonio, Claud., 25); piuttosto, con una punta di tristezza, egli ripensa alla forte somma con cui ha comperato la preziosa cittadinanza. In realtà poco prima, ai tempi di Claudio, si era fatto largo mercimonio di essa, che come una merce qualsiasi aveva avuto periodi di alto e di basso prezzo (Cassio Dione, LX, 17); si vede che Lisia l'aveva comprata quando era molto costosa, cioè ai primi tempi in cui si cominciò a venderla, e quindi l'aveva pagata assai cara (363). Ad ogni moda; essendo certo che Paolo godeva della cittadinanza romana, il tribuno ebbe paura anche per il semplice fatto di avère ordinato di legarlo (364). Non solo, ma in tutto l'affare egli aveva cominciato a commettere anche un'altra violazione del diritto romano, sebbene poi non l'avesse condotta a termine; aveva cioè dato l'ordine a principio di inquisire l'imputato con le verghe, mentre l'imperatore Augusto aveva stabilito che un processo non dovesse iniziarsi con la tortura (Digest., XLVIII, 18, 1).
548. Con questi patemi d'animo, il povero Lisia non dormì tranquillamente nella fortezza Antonia quella notte, e forse la passò quasi tutta a pensare in qual modo potesse uscire immune da quel pericoloso incidente: la conclusione delle sue notturne meditazioni fu che il meglio era implicare quanta più gente era possibile nell'affare, poi lasciarne ad altri la risoluzione finale.
Il giorno appresso egli cominciò ad agire. La dimane, volendo (Lisia) sapere la realtà riguardo a ciò di cui (Paolo) era accusato dai Giudei, lo sciolse (dalle catene) e ordinò ai sommi sacerdoti e a tutto il Sinedrio di adunarsi; avendo poi condotto giù Paolo, lo presentò a quelli (Atti, 22, 30). Torna in campo il gran Sinedrio, come nel processo di Gesù ventotto anni prima (365): e non è impossibile che a questo tempo fossero ancora superstiti alcuni suoi membri che avevano assistito al processo di Gesù. Se il tribuno fece comparire Paolo davanti a questo supremo tribunale della nazione giudaica, non lo fece certo per consegnarlo in potere di esso: egli, invece, prima di tutto mirò a conoscere quali fossero precisamente le accuse che i Giudei adducevano contro quel loro connazionale cittadino romano, e secondariamente volle mostrare deferenza verso il Sinedrio; le accuse, infatti, non potevano essere altro che di natura religiosa, ossia tali che non interessavano affatto il tribuno, mentre interessavano sommamente il Sinedrio; il Sinedrio, quindi, avrebbe gradito questo appello alla sua notorietà, e inoltre avrebbe certamente protetto il tribuna se costui avesse dovuto render conto ai suoi superiori delle irregolarità commesse contro il cittadino romano. Ad ogni modo l'ultima parola su Paolo non doveva dirla il Sinedrio, e anche deferito a questa suprema assemblea giudaica Paolo era coperto dall'autorità di Roma e perciò salvaguardato dal tribuno.
549. Quando Paolo fu davanti all'assemblea dette - secondo il racconto di Luca (23, 1) - un lungo sguardo ai suoi componenti: forse ne riconosceva alcuni e ne cercava altri, con cui aveva trattato venti due anni prima quando aveva ricevuto dal Sinedrio le lettere di persecuzione per i cristiani di Damasco (§ 260). Poi cominciò a parlare, attestando in primo luogo che la sua coscienza era tranquilla davanti a Dio.
All'udire questo appello a un giudice invisibile mentre l'imputato doveva giustificarsi davanti a giudici visibili, il sommo sacerdote che presiedeva all'assemblea si stizzì, e ordinò a coloro che gli stavano dappresso di percuotere Paolo sulla bocca. Il sommo sacerdote in carica era allora Anania (366), che Paolo non poteva conoscere perché eletto nell'anno 47: forse anche Paolo udì l'ordine ma non vide distintamente la persona da cui era partito. Quando pertanto l'ordine del sommo sacerdote risonò nell'aula, avvenne una scena psicologicamente assai significativa; allora Paolo gli disse: «Iddio sta per percuotere te, muro scialbato! Pure tu t'assidi a giudicare me secondo la Legge, e violando la Legge ordini di percuotermi?» Ma gli astanti dissero: «Insulti il sommo sacerdote d'Iddio?» Disse allora Paolo: «Non sapevo, fratelli, che fosse (il) sommo sacerdote! Sta scritto, infatti: Non parlerai male del principe del tuo popolo (Esodo, 22, 28)» (Atti, 23, 3-5). L'epiteto di muro scialbato risente della metafora analoga già impiegata da Ezechiele (13, 10 segg.), diretta appunto contro le guide spirituali del popolo giudaico: a questo passo biblico allude il Giudeo che parla a Giudei e che subito appresso citerà espressamente un altro passo biblico, mentre un'allusione ai sepolcri scialbati di Gesù non sarebbe stata compresa, nella sua provenienza, da quegli uditori.
550. Chi legge oggi questo episodio non può fare a meno di confrontarlo, con quello somigliante di Gesù, avvenuto egualmente davanti al Sinedrio (367). Là il sommo sacerdote Anna si stizzisce, e uno zelante servitore prendendo le sue parti dà uno schiaffo a Gesù, il quale con calma divina chiede allo schiaffeggiatore di mostrargli dove abbia sbagliato; qui il sommo sacerdote Anania si stizzisce egualmente ed ordina di percuotere Paolo, ma con tutta probabilità l'ordine non fu eseguito: eppure Paolo risponde nella maniera che abbiamo udita.
Si è voluto dire che Paolo aveva diritto di reagire e perché l'atto era illegale, e perché doveva difendere il suo prestigio di cittadino romano di fronte al tribuna, e per altre ragioni; come pure si è voluto vedere nella sua risposta un annunzio profetico della morte di Anania, che finì assassinato dai suoi connazionali. Tutte buone considerazioni, e tutte circostanze degne di essere messe in conto: ma, alla conclusione finale, Gesù è Gesù, e Paolo non è che Paolo. ­ La migliore considerazione è quella fatta, dopo il confronto fra i due, da Girolamo: Dov'è quella pazienza del Salvatore, il quale condotto come agnello ad essere ucciso non aprì la sua bocca, anzi rispose con dolcezza a chi lo percoteva?... Non denigriamo l'apostolo, no, bensì manifestiamo la gloria del Signore, il quale patendo nella carne supera l'ingiuria e la fragilità della carne (C. Pelagianos, III, 4; in Migne, Patr. Lat., 23, 600).
551. L'«umanità» di Paolo riapparve subito appresso. La risposta da lui data al sommo sacerdote aveva sempre più esacerbato l'intera assemblea contro di lui. Per infrangere quell'odio compatto bisognava infrangere la compattezza spirituale dell'assemblea, mettendo in contrasto un partito con l'altro. Divide et impera. Paolo, accortamente, ricorse a questo ripiego e infisse il coltello proprio ne1punto di sutura fra i due partiti.
Già sappiamo che i settantun membri del Sinedrio. potevano appartenere sia alla corrente dei Sadducei sia a quella dei Farisei (368), le quali erano in assoluto contrasto fra loro (369); egli quindi, prendendo nuovamente la parola, affermò di essere Fariseo figlio di Farisei, e di esser perseguitato per la speranza messianica e per la resurrezione dei morti: erano due punti di dottrina, fra altri, su cui le due correnti dissentivano. La fiaccala lanciata fece divampare in quella materia infiammabile l'incendio che il lanciatore desiderava: immediatamente sorse una delle abituali e interminabili dispute tra Sadducei e Farisei, e fece dimenticare l'oggetto principale della riunione.
Ma, era vera l'affermazione di Paolo? In realtà egli anche da cristiano continuerà a dirsi Fariseo (Filipp., 3, 5) riferendosi al suo passato, e forse lo stesso significato cronologico dette egli qui all'affermazione; ma era stato egli arrestato per i due punti dottrinali ricordati? Dal suo punto di vista, sì. Egli, apostolo del Vangelo, era perseguitato in quanto tale, in quanto cioè aveva riposta la sua speranza nel Messia Gesù e credeva nella resurrezione dei morti: se poi i Farisei non cristiani aspettavano un altro Messia futuro, era affar loro; ad ogni modo, un elemento di dottrina comune tra Paolo e i Farisei esisteva, e a questo elemento egli dovette riferirsi con la sua affermazione. Il sottile accorgimento di Paolo dimostra che coloro che sono stati veramente rapiti al terzo cielo, come lui, continuano benissimo a guardare nella loro realtà le cose di questa terra.
552. La disputa provocata da Paolo divenne violentissima, secondo le usanze orientali. Alcuni Scribi, della corrente farisaica, gridavano che non trovavano nulla di riprovevole in Paolo; gli avversari replicavano urlando altrettanto forte, e minacciando direttamente l'imputato. Il tribuno che assisteva a questo alterco, e che era responsabile dell'incolumità del cittadino romano, temendo che Paolo fosse fatto a pezzi da quelli, ordinò alla truppa di venir giù a sottrarlo d'in mezzo a loro e di condurlo nel quartiere (Atti, 23, 10).
Alla umiliante scenata umana tenne subito dietro una confortante scena divina. La notte seguente il Signore, presentatosi a lui, disse: «Coraggio! Giacché, come testimoniasti i (fatti) miei in Gerusalemme, così tu li devi testimoniare anche in Roma» (ivi, II). Era la conferma divina dell'antico proponimento (§ 512).
553. E così ai Giudei che avevano pedinato Paolo era sfuggita la preda. Ma non saremmo ai tempi degli Zeloti-Sicari, se i persecutori avessero abbandonato la partita per tanto poco: per farsi un'idea dell'incredibile ostinazione di quella gente, basterà ricordarsi di ciò che pochi anni più tardi fecero nella guerra contro i Romani. Saputo dunque il fallimento dei loro progetti, li rinnovarono il giorno appresso ordendo una regolare congiura di carattere religioso: più di quaranta di essi, radunatisi insieme, giurarono con imprecazioni a loro danno di restare senza mangiare e senza bere finché non avessero ucciso Paolo. Finito ch'ebbero di sacramentare su se stessi, andarono dal sommo sacerdote e dagli anziani - ossia dai membri del Sinedrio non Farisei e ostili a Paolo - pregandoli d'invitare il tribuno a condurre nuovamente Paolo davanti all'assemblea, quasicché lo volessero interrogare di nuovo: essi, poi, avrebbero provveduto ad ucciderlo durante la sua venuta. Ma i congiurati, infervorati com'erano, non conservarono il necessario segreto; qualcuno parlò, e di bocca in bocca la notizia giunse a un nepote di Paolo che stava a Gerusalemme (§ 229).
Il giovane corse alla fortezza Antonia per avvisare lo zio, il quale era trattato con riguardo dal tribuno e perciò poté ricevere il nepote e parlare liberamente con lui. Udito di che si trattava, Paolo, chiamato uno dei centurioni, disse: «Questo giovane conducilo dal tribuno, giacché ha alcunché da comunicargli». Quello allora, presolo seco, lo condusse dal tribuna, e disse: «Il prigioniero Paolo, avendomi chiamato, mi pregò di condurre da te questo giovanetto, che ha alcunché da dirti». Il tribuno quindi, presolo per mano e ritiratosi in disparte, domandò: «Che cos'è quello che hai da comunicarmi?» (ivi, 17-19). Il giovane svelò la congiura.
554. Ascoltato che ebbe, il tribuno congedò il giovane raccomandandogli di non dire ad alcuno della comunicazione fattagli, e avendo ormai compreso la situazione, passò ad attuare la seconda parte del suo piano, che era di scaricare su altri la decisione finale di tutto l'affare (§ 548).
Da provetto militare abituato all'imperium, egli chiamò immediatamente due centurioni e cominciò ad impartire gli ordini: Preparate duecento soldati perché vadano fino a Cesarea!... a questo punto una breve riflessione: forse 200 soldati non bastano con questi furibondi Zeloti-Sicari che sono in giro per le campagne; eppoi, sono tutti soldati appiedati; ci vorrà per rinforzo truppa d'altro genere, più celere; e allora aggiunge: ...anche settanta cavalieri e duecento lancieri! ..... altra breve riflessione; a che ora partire? È subito fissata ...per l'ora terza della notte! ... ossia circa per le nove pomeridiane; con l'oscurità e la segretezza il viaggio avrà meno disturbi: infine un pensiero anche per il prigioniero... tener pronte anche delle cavalcature; ci facciano salir Paolo, e lo conducano incolume al procuratore Felice (ivi, 23-24).
Con questi ordini tutto è predisposto, e Lisia si sente sicuro. La scorta di 470 uomini sarà forse giudicata eccessiva a Cesarea, ma nei tempi in cui siamo è meglio abbondare. L'importante è che Paolo arrivi sano e salvo a Cesarea; per il resto, se la vedrà il procuratore laggiù; egli, Lisia, ne ha avuto abbastanza di tutta questa spinosa faccenda. È anche sperabile che l'attenzione usata a Paolo facendo gli preparare le cavalcature, per lui e per il soldato di guardia personale, inducano quel cittadino romano a non lamentarsi col procuratore di essere stato incatenato e quasi sottoposto alle verghe all'inizio del processo (§ 547).
555. Fatto ciò, non manca che lo scritto di presentazione, l'elogium della legge romana, con cui un magistrato inferiore deve accompagnare un imputato da lui deferito a un magistrato superiore: lo scritto è necessario per informare dell'antefatto il superiore, e di solito contiene il parere personale dell'inferiore. Perciò il tribuno scrive sul conto di Paolo l'elogium indirizzato al procuratore Felice, ed è il seguente:
Claudio Lisia, all'ottimo procuratore Felice, salute. - Quest'uomo, ch'era stato preso dai Giudei edera sul punto di essere ucciso da loro, intervenuto (io) con la truppa (lo) trassi fuori, avendo saputo che è Romano. Volendo poi conoscere la causa per cui l'accusavano, lo condussi giù nel loro Sinedrio. Trovai che era accusato su questioni della loro legge, ma senza avere (su di sé) alcuna accusa degna di morte o di catene. Essendomi poi stato segnalato che ci sarebbe stato un agguato contro quest'uomo, lo inviai subito a te, dopo aver avvisato anche gli accusatori di (venire a) parlare contro di lui davanti a te. Sta sano (ivi, 25-30).
Questo documento, che mostra tutti i caratteri dell'autenticità: (salvo che per i soliti studiosi negatori di professione), contiene in primo luogo una piccola deformazione dei fatti praticata in proprio vantaggio da Lisia: egli non era accorso a salvare Paolo dalle mani dei Giudei avendo saputo ch'era Romano, ma seppe ciò più tardi quando già l'aveva salvato. Nulla poi dice il documento dell'incatenamento di Paolo, né delle verghe preparate per lui. Ma tutto si spiega benissimo: la piccola deformazione è per farsi bello davanti al superiore, e le due piccole omissioni sono per non farsi brutto.
556. Il viaggio non ebbe disturbi. Il primo tratto fu compiuto a marcia forzata e in gran parte di notte; la prima sosta fu fatta ad Antipatride, l'odierno Ras el-Ain, a una sessantina di chilometri da Gerusalemme, ove praticamente non erano più da temersi assalti dai congiurati (370). Qui perciò i soldati a piedi terminarono il viaggio, che fu ripreso il giorno dopo dai soli cavalieri di scorta a Paolo. Giunto a Cesarea, l'imputato e il relativo elogium furono presentati al procuratore Felice; il quale, letto l'elogium, domandò a Paolo di quale provincia fosse, e udito che era della Cilicia, rispose che lo avrebbe ascoltato quando i suoi accusatori fossero giunti. Frattanto ordinò che l'imputato fosse custodito nel pretorio di Erode (ivi, 35).
557. Questo pretorio di Erode era in realtà il palazzo reale eretto per sé da Erode il Grande, quando aveva ricostruito totalmente la città di Cesarea impiegandovi ben dodici anni di lavoro; adesso era designato come pretorio, perché vi alloggiava il supremo magistrato romano della Giudea, essendo abitudine dei magistrati romani d'insediarsi nei palazzi reali delle regioni assoggettate (cfr. Cicerone, In Verrem, IV, 5, 30). La costruzione era assai sontuosa, ma di spirito ellenistico e prettamente pagano. Il re Erode Agrippa I l'aveva anche adornata con statue delle proprie figlie, violando la nota proibizione dell'ebraismo; ma quando nel 44 egli morì (Atti, 12, 18-23), il popolo aveva invaso il palazzo, e abbattute le statue le aveva portate in un lupanare oltraggiandole oscenamente (Flavio Giuseppe, Antichità giud., XIX, 343-359). Il palazzo aveva anche prigioni e stanze per detenzione più o meno rigorosa, come si conveniva alla dimora di un governatore orientale. In una di queste stanze entrò Paolo in attesa degli eventi, non immaginandosi certamente che tale attesa doveva essere assai lunga.
Sul procuratore Antonio Felice non abbiamo nulla da aggiungere a ciò che dicemmo altrove (371). Basterà solo ricordare il giudizio che su di lui dà Tacito, quando dice che «esercitò il suo potere regale con animo da schiavo ricorrendo ad ogni sevizia e libidine) (Hist., V, 9).
558. Cinque giorni dopo, giunsero gli accusatori che Felice aspettava. Da Gerusalemme vennero il sommo sacerdote Anania ed alcuni anziani del Sinedrio, accompagnati da un certo Tertullo, avvocato che doveva sostenere l'accusa contro Paolo. Felice li ricevette, convocò l'imputato e la discussione si aprì.
Tertullo cominciò la sua arringa con l'abituale captatio benevolentiae all'indirizzo del procuratore: grazie alla previdenza di lui e al suo ottimo governo la nazione giudaica godeva di una pace profonda, sennonché a turbar tale pace era sorto quel pestifero uomo di Paolo, suscitatore di sedizioni per tutti i Giudei che sono in tutta la (terra) abitata, e antesignano (***) della setta dei Nazorei; costui aveva perfino tentato di violare il Tempio, ma era stato preso dai Giudei; bastava del resto interrogare l'imputato stesso che non poteva che confermare quelle accuse (Atti, 24, 2-8). Naturalmente il codazzo, portatosi appresso dal sommo sacerdote, rincalzò le accuse dell'avvocato.
559. Dopo di ciò, fu concessa la parola all'imputato. Paolo si difese con un semplice appello ai fatti palesi, non senza immettervi quell'elemento dottrinale che già aveva addotto davanti a Lisia ed al Sinedrio.
Egli parla con fiducia, sapendo che Felice da molti anni è al governo di questa nazione, e quindi è pratico di siffatte questioni. Da non più di dodici giorni. Paolo è salito a Gerusalemme per fare adorazione nel Tempio, ma nessuno l'ha trovato a discutere nel Tempio né a radunar folla dentro le sinagoghe o per la città. Gli avversari non potranno dimostrare il contrario di quanto egli afferma. Egli ammette che, secondo questa via (del cristianesimo) che (quelli) chiamano setta, adora il Dio dei padri credendo a tutto ciò che sta scritto nella Legge e nei Profeti ed avendo la stessa speranza ivi affermata, cioè che vi sarà la resurrezione dei morti sia giusti che ingiusti; e per questo ha cura di conservare la sua coscienza irreprensibile davanti a Dio e agli uomini. Dopo molti anni di assenza, egli è tornato a Gerusalemme, per portare soccorsi materiali ai suoi connazionali e fare offerte al Tempio; in questa occasione. lo trovarono purificato nel Tempio, senza calca né tumulto, taluni Giudei dell'Asia proconsolare, i quali però avrebbero dovuto presentarsi a sostenere e provare la loro accusa, e invece sono assenti. Ebbene; almeno i presenti dicano quale colpa è stata ritrovata in lui quando fu condotto davanti al Sinedrio, salvo che sia colpa ciò ch'egli proclamò allora a voce alta, di essere cioè giudicato da quell'assemblea a causa della resurrezione dei morti (ivi, 10-21).
560. Il procuratore Felice dovette dare alle parole di Paolo lo stesso peso dato alle parole di Tertullo; egli sapeva benissimo che l'esordio di Tertullo, secondo cui sotto il suo governo la Giudea godeva di pace profonda, poteva esser preso sul serio solo come un'ironia; ma per Felice il servilismo di Tertullo valeva quanto i sogni di Paolo sulla resurrezione dei morti. Ad ogni modo, dato che c'era gente che parlava come l'avvocato o che sognava come l'apostolo, spettava alla sua sagacia sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Evidentemente quei Giudei erano odiosi cialtroni, e Paolo era un illuso esaltato: tuttavia bisognava evitare di indispettire quei pezzi grossi Giudei con una pronta assoluzione dell'imputato, come purè bisognava appurare se Paolo avesse dietro di sé una larga schiera di ammiratori o seguaci pronti a sostenerlo. Del resto, con tutte le sue stramberie, quel Paolo era un tipo interessante, e qualche conversazione con lui era sempre opportuna per riempire gli ozi del pretorio di Cesarea. La conclusione fu che ogni decisione doveva essere rimandata.
Il pretesto addotto per giustificare questa decisione fu, naturalmente, di carattere burocratico. Finita la discussione, il procuratore si alzò e, stringendosi nelle spalle con aria rammaricata, disse agli astanti: Quando il tribuna Lisia sarà venuto giù, esaminerò la vostra causa (ivi, 22). Subito appresso dette ordine al centurione di tener Paolo, custodito, sì, ma con urta certa benignità e di non impedire a nessuno dei suoi conoscenti di prestargli assistenza.
561. Questo trattamento di Paolo era chiamato custodia militaris. Essa era assai più lieve della custodia publica, che si scontava nel carcere comune, quale quello di Filippi esperimentato da Paolo (§ 389); nella custodia militaris, invece, il prigioniero normalmente risiedeva in una fortezza o altro luogo sicuro, ma abbastanza comodo, ed era legato abitualmente ad un soldato mediante una catena, in maniera che un'estremità di essa era fissata al polso destro del prigioniero, e l'altra estremità al polso sinistro del soldato: eadem catena et custodiam et militem copulat, dice Seneca (Epist., 5, 7). Questa custodia militaris poteva essere ulteriormente addolcita in vari modi, ad esempio, permettendo al prigioniero di stare in una casa privata, da lui affittata, e perfino di andare in giro a far visite o anche di restare sciolto temporaneamente dalla catena in luoghi chiusi. In questi casi la custodia militaris si avvicinava più o meno alla custodia libera, che era la più benigna di tutte, perché in essa il prigioniero dimorava in casa di qualche autorevole persona che s'impegnava, mediante promessa formale o cauzione in denaro, alla presenza del prigioniero.
Paolo quindi, dopo una disagiata operosità prodigata in lontani paesi, era adesso costretto ad una inoperosità quasi agiata nel paese stesso d'Israele, e tale sua condizione era destinata a prolungarsi per due anni interi. E il suo viaggio a Roma quando sarebbe avvenuto? Su ciò Paolo non aveva alcun dubbio: il viaggio a Roma gli era stato confermato dalla recente apparizione di Gesù (§ 552), e quindi egli era tranquillissimo. Certo, guardando con occhi umani, il viaggio appariva adesso più che mai inverosimile e improbabile; ma appunto da questa improbabilità umana la sua fiducia traeva nuovi argomenti di certezza, perché egli vi riconosceva il paradossale stile del Discorso della montagna che consisteva nell'estrarre il vero dall'inverosimile (§ 405).
562. Alcuni giorni dopo Felice volle incontrarsi con Paolo in un colloquio privato, senza alcun carattere ufficiale; ma questa volta egli non éra più solo, bensì accompagnato dalla moglie Drusilla. Già dicemmo che Felice ebbe la smania del plebeo diventato potente, quella d'imparentarsi con famiglie altissime, cosicché in vita sua fu «marito di tre regine» come lo chiama Svetonio (372); questa Drusilla; della famiglia degli Erodi e figlia di Agrippa I, era la sua terza moglie, ma anch'essa a sua volta, contava in Felice il suo secondo marito; il primo marito era stato Azizo re di Emesa fattosi apposta giudeo per sposarla, ma la sposina quindicenne dopo due anni di convivenza lo aveva abbandonato nel 54, preferendo a lui Felice, pagano di religione e liberto di nascita. Questa facilità di costumi, abituale nella famiglia degli Erodi, non impediva però a Drusilla di sentirsi giudea; anzi, a quei tempi, era un vezzo delle grandi dame giudee interessarsi di questioni religiose sotto l’aspetto storico e filosofico, naturalmente come semplice giostra intellettuale e non già per preparare l'adesione del proprio spirito. È ben possibile, dunque, che l'incontro con Paolo fosse ricercato da Drusilla stessa, curiosa di conoscere personalmente questo «rivoluzionario» della sua religione del quale aveva inteso parlare molte volte.
Il colloquio dei tre non ci viene riferito minutamente, ma certamente fu lungo e sotto un certo aspetto anche efficace; ciò si ricava dalle parole di Luca, secondo cui Felice udì Paolo circa la fede in Cristo Gesù; e disputando egli circa la giustizia e la continenza e il giudizio futuro, Felice preso da paura rispose: «Per adesso, và; quando avrò tempo, ti richiamerò!» (Atti, 24, 25).
Figurarsi! Paolo parlava di continenza (***) a quei due, i quali la conoscevano a mala pena di nome! È vero che, all'illustrazione della giustizia e della continenza, Paolo faceva seguire quella del giudizio futuro quale sanzione contro chi non avesse praticato quelle virtù; ma appunto l'idea di tale giudizio, forse quasi nuova per quegli ascoltatori, disturbava la calma delle loro putride coscienze, e li infastidiva. Se Felice avesse fatto suo ciò che Paolo diceva, avrebbe dovuto rinunziare alle rapine sui suoi sudditi e al possesso della donna altrui; e su questo neppure c'è da discutere; egli preferiva far sue le rapine e la donna altrui, e rinunciare a Paolo: Per adesso, và...
563. Anzi, Paolo stesso poteva essere una buona occasione per Felice a continuare nei suoi metodi lucrosi. Quello strano predicatore poteva esser ricco, o di famiglia o per offerte fattegli dai suoi discepoli. Non aveva egli portato poco fa a Gerusalemme somme rilevanti in soccorso ai suoi correligionari? E fra tanti discepoli ch'egli contava nelle varie regioni, non vi sarebbero stati molti facoltosi pronti ad aprire le loro borse per assisterlo adesso ch'era prigioniero, e forse anche a tentare di liberarlo con forti somme? Ottima prospettiva, questa, per Felice, infinitamente più attraente della giustizia e della continenza e del giudizio futuro predicati da Paolo! Bisognava dunque lavorare in questo senso, ma accortamente e senza darlo a divedere, dissimulando il vero scopo sotto la parvenza di discussioni filosofico-religiose. È quanto ci dice Luca, comunicandoci che Felice sperava che gli sarebbe stato dato denaro da Paolo, perciò. anche frequentemente mandandolo a chiamare ragionava con lui (ivi, 26);
Paolo, dopo un po' di tempo, capì certamente il giuoco; ma come non pensava ad offrir denaro e probabilmente non ne aveva, così non poteva rifiutarsi di perdere il suo tempo nei colloqui col procuratore. Ma quale umiliazione dovette esser questa per un carattere fiero e ardente come quello di Paolo! Invece di parlare a onesti schiavi che avevano fame e sete di giustizia, egli era costretto di star là a schermagliare con quel furfante togato che aveva soltanto fame di oro e sete di piaceri! Le persecuzioni già sopportate in Asia Minore, Macedonia e Grecia, erano state materialmente più gravi, ma non avevano avuto il carattere sottilmente crucciante di questa umiliazione: eppure il Cristo domandava al suo apostolo anche questa prova, quale condizione della sua andata a Roma. Paolo comprese e sopportò la lunga prova.
564. Compiutosi un biennio, Felice ricevette (quale) successore Porcio Festo; e volendo accaparrarsi la gratitudine dei Giudei, Felice lasciò Paolo imprigionato (ivi, 27). Lo scambio dei, due procuratori avvenne nel 60 verso la metà dell'anno (§ 160); quanto alla decisione di lasciar Paolo in prigione, Felice dovette prenderla sia per non aver ottenuto da lui il denaro sperato, sia per diminuire il risentimento dei suoi governati, che si poteva sfogare in una valanga di accuse inviate a Roma proprio mentre egli colà doveva rendere conto del suo governo.
Alcuni pochi codici aggiungono una terza ragione, cioè a causa (***) di Drusilla; l'espressione corrisponde all'altra a causa di Erodiade (Marco 6, 17), che appare nel racconto della morte di Giovanni il Battista, e il senso sarebbe che Drusilla, irritata dai discorsi di Paolo sulla continenza e sul giudizio futuro, si sarebbe vendicata esigendo - se non la morte del proprio censore, come aveva fatto Erodiade - almeno il prolungamento della sua prigionia: e il fatto è possibilissimo, sebbene non attestato sufficientemente.
565. Il biennio d'immobilità a Cesarea non fu però d'inerzia. Il permesso che Paolo aveva di ricevere persone di suo gradimento, lo metteva in condizione non solo di essere assistito da affezionati discepoli, ma anche di mantener relazioni sia con tutta la Giudea sia con le cristianità da lui fondate nel bacino del Mediterraneo. Oltre ad essere la sede del governatore romano, Cesarea era praticamente l'unico porto della Giudea e da esso si poteva corrispondere con ogni punto del Mediterraneo: cosa, questa, opportunissima per Paolo.
La notizia della sua prigionia sarà giunta immediatamente a Corinto, in Macedonia, ad Efeso, e da Efeso si sarà propagata nelle regioni interne dell'Asia Minore: come non pensare, dunque, che da questa o da quella comunità siano partiti discepoli per portare una buona parola e un soccorso materiale all'amatissimo maestro? Ad esempio, la buona Lidia, la padrona del porporifìcio di Filippi che già aveva sovvenuto all'indigenza di Paolo (§ 383), non avrà mandato anche questa volta un gruzzoletto di denaro e una parola di devozione? Con quanta gioia non avrà Paolo accolto questi visitatori? Con quanta ansia non avrà chiesto a uno di essi, venuto dalla Galazia, se quei fanciulloni di Galati avevano rinunciato definitivamente all'idea di farsi circoncidere (§ 504 segg.): e a un altro, venuto da Corinto, se delle vecchie conventicole di laggiù (§ 475 segg.) era scomparso anche il ricordo; e così di seguito? Come si vede, sono ipotesi più che legittime, sebbene soltanto ipotesi.
566. Lo stesso si dica degli scritti. È ben naturale che Paolo, nel congedare visitatori venuti da lontano, affidasse loro o una lettera per una intera comunità o un biglietto per una singola persona; ma su ciò non abbiamo notizie positive; giacché le lettere della prigionia come non furono scritte da Efeso (§ 472) così non furono scritte da Cesarea ma da Roma (§ 613 segg.).
Non sappiamo se il fedele Luca, per tenere assidua compagnia al prigioniero, avesse preso stabile alloggio in Cesarea: sembra tuttavia più verosimile che, senza dimorarvi stabilmente, facesse frequenti visite alla città e quindi a Paolo: certo è che, appena fu decisa la partenza del prigioniero, Luca si trovò a fianco a lui per accompagnarlo in quella navigazione, che è raccontata nuovamente in prima persona plurale (27, 1 segg.), e perciò svela il testimonio dei fatti. È anche molto probabile che, in questi frequenti viaggi a Cesarea e dintorni, Luca sfruttasse le molteplici occasioni per raccogliere nei vari luoghi e dalle varie persone della Giudea il materiale della sua grande opera storica, costituita dal III vangelo e dagli Atti (§ 95 segg.), alla cui ultima redazione egli lavorò più tardi in Roma.
Questa sintesi storica poté anche essere suggerita all'autore da Paolo, il quale ne previde l'opportunità durante le sue solitarie riflessioni nel pretorio di Cesarea; e se tale suggerimento effettivamente fu dato, sarà stato poi seguito anche da consigli e indicazioni di vario genere con la mira di rendere il lavoro più adeguato e degno. Nessuna meraviglia, quindi, che un'opera nata sotto tale patronato recasse con sé una certa impronta del patrono stessa (§ 100): certo è che, fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, quello più vicino a Paolo concettualmente e letteralmente è appunto Luca, come già rilevammo (373), tanto che per i suoi tempi Tertulliano poteva affermare: Lucae digestum Paulo adscribere solent (Adv. Marcion., IV, 5).
567. Porcio Festo, il procuratore succeduto a Felice, fu un degno magistrato, ma non compié tutto il bene che avrebbe potuto perché fu sorpreso da morte immatura mentre era ancora in carica (374). Tre giorni dopo il suo arrivo a Cesarea, egli salì a Gerusalemme, la città più difficile di tutta la sua giurisdizione. Subito gli si presentarono i maggiorenti giudei per fargli i convenevoli d'uso, e insieme anche per presentargli le loro più urgenti richieste. Fra queste fu messa in prima linea la questione di Paolo.
Quel pessimo uomo già da due anni stava là a Cesarea in attesa della sentenza, la quale non poteva essere che di condanna; ebbene, il procuratore fosse così condiscendente da non procrastinare più oltre il meritato castigo, ansiosamente atteso da tutti i Giudei; facesse egli venire l'imputato a Gerusalemme, il Sinedrio si adunerebbe subito, e definirebbe in una sola seduta quella interminabile e vergognosa vicenda; così il nuovo governatore inaugurerebbe il suo ufficio con un provvedimento sommamente gradito al popolo e si guadagnerebbe la riconoscenza di tutta la nazione.
Queste, in sostanza, dovettero essere le parole dette dai maggiorenti a Festa; ma, in realtà, essi erano andati molto più in là perché, riprendendo il progetto di due anni prima (§ 553), avevano stabilito di uccidere Paolo in un agguato durante il viaggio da Cesarea a Gerusalemme.
568. La risposta di Festo fu un puro e semplice appello alla legge. Paolo stava a Cesarea, ave fra poco egli stesso sarebbe tornato; la sua causa era stata deferita al tribunale di Cesarea, e quindi non c'era bisogno di trasferire l'imputato a Gerusalemme; se poi i maggiorenti avevano capi di accusa da addurre, si presentassero in qualità di accusatori al tribunale di Cesarea: ecco tutto, ma condiscendenze contrarie alla legge per ingraziarsi il popolo il procuratore non ne avrebbe fatte.
Passati un dieci giorni, Festo fu di ritorno a Cesarea, e il giorno appresso tenne tribunale facendovi comparire Paolo. I Giudei, ch'erano venuti da Gerusalemme, subito addussero numerose e gravi accuse, che essi non furono però in grado di dimostrare. Dalle risposte di Paolo, che replicava di non aver commesso alcun delitto né contro la Legge dei Giudei né contro il Tempio né contro Cesare (25, 8), comprendiamo che le accuse addotte si riducevano a questi tre capi: dei quali soltanto il terzo, riguardante Cesare, cadeva sotto la competenza diretta del procuratore; gli altri due spettavano direttamente all'autorità religioso-giudiziaria della nazione, che pure dopo l'insediamento del governo romano aveva seguitato a funzionare liberamente, sebbene sotto l'alta sorveglianza di questo.
Era, dunque, un caso di competenza mista, in cui era necessario comportarsi con prudenza e possibilmente per mutuo accordo. Perciò Festo, dando ascolto dentro di sé tanto all'uomo di legge quanto al governatore prudente, tentò prendere una via di mezzo, che avrebbe tenuto conto sia dei diritti del suo tribunale e dell'imputato, sia della suscettibilità dei Giudei; volgendosi a Paolo egli disse: «Vuoi salire a Gerusalemme per essere colà giudicato di queste cose davanti a me?». Ma Paolo disse: «Sto davanti al tribunale di Cesare, e qui devo essere giudicato. Ai Giudei non feci alcuna ingiustizia) come sai benissimo tu pure. Se poi feci ingiustizia o commisi alcunché degno di morte, non ricuso di morire; se invece non sussiste nulla di quelle cose di cui costoro mi accusano, nessuno può far dono di me ad essi. Mi appello a Cesare!».
569. La solenne formula era stata pronunziata: Caesarem appello. Quando un cittadino romano, in qualunque regione dell'Impero e davanti a qualsiasi tribunale, pronunciava questa formula, tutte le giurisdizioni dipendenti da quella imperiale erano abolite; il cittadino romano aveva invocato la giurisdizione suprema dell'imperatore, suo capo e governatore naturale, e di conseguenza gli altri governatori da lui delegati dovevano ritirarsi per far posto all'imperatore e dovevano inviare a Roma l'appellante (salvo casi specialissimi ed estremamente rari). Anche se il processo tenuto in provincia stava sul punto di concludersi con una condanna, appena la formula d'appello fosse stata pronunciata, tutto, cessava e l'imputato appellante veniva deferito a Roma: esso non poteva più essere né condannato né assolto da un tribunale inferiore.
Anche nel caso di Paolo, la formula da lui pronunziata produsse il suo effetto magico: Allora Festo, dopo aver parlato con (i membri del) consiglio, rispose: «A Cesare ti sei appellato; a Cesare andrai!» (ivi, 9-12). La breve consultazione tenuta da Festo con i suoi consiglieri che assistevano al processo, e che di solito erano giovani all'inizio del loro cursus honorum, fu una semplice formalità, tanto il caso era chiaro. Dopo la risposta di Paolo, a Festo non restava che d'inviarlo a Roma: per tutto il resto, il procuratore non c'entrava più.
570. Se nel processo di Gesù Ponzio Pilato si era lavato le mani a torto, adesso Porcio Festo poteva stropicciarsele allegramente essendosi cavato da tutto l'affare senza far torto a nessuno. Coloro invece che si morsero le mani, almeno metaforicamente, furono gli accusatori Giudei che vedevano sfuggirsi la preda; è vero che ad essi restava la possibilità di perseguire l'imputato anche davanti al tribunale dell'imperatore, ma Roma non era Cesarea, se non altro per la distanza. Valeva proprio ad essi la pena, per colpire Paolo, di affrontare viaggi e spese enormi, e di disturbare le potenti ma costose protezioni che i Giudei avevano al Palatino? Tutto sconsigliava di prendersi tante brighe; e perciò è probabile che, quando il processo di Paolo fu effettivamente discusso a Roma, nessuno degli accusatori della Giudea fosse presente (§ 603).
Con questa piega presa dal processo, Paolo era oramai sicuro di andare a Roma: nel passato, quando pensava a questo viaggio, non aveva mai immaginato, che l'avrebbe fatto in quelle condizioni, ma adesso riflettendoci egli spiegò tutto ricordandosi di una frase che tre anni prima aveva scritto ai Romani: Agli amanti d'Iddio tutte le cose cooperano per il bene (Rom., 8, 28). Tutto era stato predisposto da Dio, per il bene di lui che amava Dio.
571. Prima di mettersi in viaggio, avvenne un fatto incidentale che fu come un riempitivo di quei giorni d'attesa. Poco dopo giunsero a Cesarea, per salutare il nuovo procuratore, il re Agrippa e Berenice (Atti, 25, 13). Noi già conosciamo questi due spudorati, per chiamarli col nome che meritano (375): figli ambedue di Agrippa I (§§ 557, 562), fra loro esistevano relazioni incestuose di cui si parlava con scherno anche a Roma. Il fratello, cioè Agrippa II, era uno spirito colto che s'interessava anche di questioni religiose giudaiche, e negli scritti rabbinici sono ricordati alcuni casi di legge da lui proposti: ma era un'erudizione puramente intellettuale, che non esercitava alcuna influenza pratica sulla sua vita da scettico, ed egli soggiacque imbelle al nefasto dominio della sorella. Berenice ebbe in vita sua un paio di mariti legali e forse tre, ai quali si aggiunse, oltre alla tresca incestuosa col fratello, anche l'altra più famigerata con Tito, cominciata nel 68 in occasione della guerra giudaica e continuata più tardi a Roma: in conclusione, era una degna sorella di Drusilla, la moglie di Antonio Felice (§ 562), anche superiore a lei per dissolutezza.
A questi due personaggi, uno a fianco all'altro, fu presentato Paolo per una ragione spontanea. Prolungandosi, parecchi giorni la loro dimora in Cesarea, Festo parlò loro del caso di Paolo: egli aveva quel prigioniero lasciato da Felice, del quale non era riuscito a farsi un'idea ben chiara; i maggiorenti di Gerusalemme avevano chiesto la sua condanna, ma egli aveva risposto che la legge romana non permetteva di condannare senza regolare processo; aperta poi la discussione a Cesarea, gli accusatori non avevano né addotto né provato contro l'imputato alcun vero delitto, soltanto avevano contro di lui talune questioni circa la (loro) particolare religione (ovvero superstizione: (***) e circa un certo Gesù morto, che Paolo diceva esser vivo; egli aveva domandato all'imputato se accettava di esser giudicato a Gerusalemme, ma quello aveva appellato a Cesare, al quale perciò egli stava adesso per inviarlo (25, 14-21). L'elegante caso interessò Agrippa, il quale del resto molto probabilmente già conosceva Paolo di nome, come indubbiamente conosceva i fatti di Gesù e del cristianesimo primitivo (cfr. 26,26); cosicché disse a Festo: «Vorrei anch'io ascoltare quest'uomo!». «Domani» disse (Festo) «l'ascolterai» (ivi, 22).
572. Il giorno appresso si dette particolare solennità all'avvenimento, il quale oltre tutto serviva come svago per gl'illustri ospiti e come diversivo nella monotona vita provinciale. Agrippa e Berenice vennero con gran pompa nell'aula delle udienze, che si riempì di tribuni e di insigni persone della città; infine fu introdotto Paolo incatenato.
Il procuratore credette opportuno dire due parole di presentazione. Quello era l'uomo di cui i Giudei avevano chiesto più volte la morte, ma Festo aveva trovato che non aveva commesso nulla degno di morte; sennonché l'imputato aveva appellato all'imperatore, ed effettivamente gli sarebbe stato inviato; ma Festo non sapeva quale elogium (§ 555) scrivere a suo riguardo per presentarlo all'imperatore; gli suggerissero dunque che cosa avrebbe potuto scrivere in proposito (ivi, 24-27). Subito appresso Agrippa, a cui il procuratore aveva lasciato per onore la presidenza, dette la parola a Paolo.
Il discorso tenuto in questa occasione, ultimo fra i grandi discorsi degli Atti, ha notevole somiglianza con l'altro tenuto da Paolo ai Giudei tumultuanti nel Tempio (§ 546), ossia è in sostanza un'apologia della propria vita, non senza uno speciale riguardo al nuovo uditorio: qui l'uditorio è rappresentato soprattutto da Agrippa, giudeo anch'egli, mentre Festa e gli altri pagani sono tenuti presenti soltanto in seconda linea.
573. Paolo si stima felice di poter parlare davanti al re Agrippa, perché sa che egli è ben versato nelle costumanze e questioni giudaiche. Le vicende della vita dell'oratore sono note a tutti i Giudei: egli è vissuto da Fariseo, ed ora è chiamato in giudizio per la speranza nelle promesse fatte da Dio ai padri ed aspettate dalle dodici tribù. È forse incredibile che Dio risusciti i morti? Egli dapprima credette esser suo dovere agire contro il nome di Gesù il Nazoreo: per conseguenza imprigionò molti a Gerusalemme, dando anche il suo voto per l'uccisione di altri (§ 255) ed estendendo la persecuzione anche fuori della città. Inviato a Damasco, si convertì (secondo le circostanze che già esaminammo; § 267 segg.). Egli, in seguito, ha obbedito agli ordini divini ricevuti alla sua conversione, ed ha predicato a Damasco, a Gerusalemme, nella Giudea e ai Gentili di pentirsi e convertirsi a Dio. Per questa ragione i Giudei che l'hanno catturato nel Tempio volevano ucciderlo; ma egli, con la grazia di Dio, persisterà a far testimonianza davanti a piccoli e a grandi, non insegnando nulla che non sia stato predetto dai Profeti e da Mosé: ossia, che il Messia deve patire e che, quale primo della resurrezione dei morti, deve annunciare luce al popolo d’Israele ed ai Gentili (26, 2-23)
574. Il bonario Festo, che fin qui aveva ascoltato con interesse certo non abbondante, a sentir parlare di resurrezione dei morti e di una conseguente illuminazione di popoli, imitò inconsapevolmente l'atteggiamento degli Areopagiti (§ 414); interrompendo l'oratore, egli esclamò ad alta voce: «Impazzisci, Paolo! I molti libri ti fanno andare in pazzia!» Ma Paolo disse: «Non impazzisco, eccellentissimo Festo, bensì pronunzio parole di verità e di saggezza! Di queste cose è edotto il re, al quale sto pure parlando con franchezza. Non credo, infatti, che a lui sia ignota alcuna di queste cose, giacché (tutto) ciò non è avvenuto (occultamente) in un angolo (376). Credi, re Agrippa, ai profeti? So che ci credi!» E Agrippa a Paolo: «Con poco (***) mi persuadi a farmi cristiano!» (Atti, 26, 24-28).
Come l'esclamazione di Festo è amichevolmente burlesca e di spiccato colorito romano (frasi simili, anche letterariamente, si possono udire ancora oggi dalla plebe di Roma), così la risposta di Agrippa è quella di un elegante e cortese scettico. Il suo significato non sembra essere quello di una profonda impressione ricevuta da Agrippa, quasicché per poco egli stia per convertirsi o poco manchi alla sua conversione: è piuttosto un invito a disilludersi, quasicché con poco sforzo e mediante poca fatica Paolo sia riuscito o riesca a convertirlo; un moderno avrebbe esclamato in tono ironico: «Eh! sì, ci metti poco tu a convertirmi!...» Insomma è uno scettico che parla, sia pure con una certa cortesia.
575. Paolo, pazientemente, replica ripigliando l'espressione impiegata da Agrippa: Piacesse a Dio che, con poco o con molto (sforzo mio), non solo tu ma anche tutti coloro che oggi mi ascoltano diventaste tali quale sono pure io, salvo queste catene! (ivi, 29). E la catena appesa al fianco del prigioniero tintinna, mentre egli apre le braccia nel gesto oratorio finale.
Agrippa, Festo e gli altri intervenuti si alzano, e man mano che escono dall'aula si scambiano le loro impressioni: quel Paolo sarà un sognatore che ha la testa nelle nuvole, ma non ha commesso nulla che meriti la morte o la prigionia! Agrippa, il principale invitato, esprime a Festo in poche parole il suo parere, giacché il procuratore ha detto poco prima in pubblico di attribuire tanta importanza a questo suo parere; perciò gli confida: Quest'uomo poteva essere rilasciato, se non avesse appellato a Cesare (ivi, 32).
Sì, poteva essere rilasciato dal punto di vista della legge, ma non da quello della Provvidenza. Se Paolo fosse stato rilasciato, un incidente qualsiasi seguito man mano da altri l'avrebbero trattenuto ancora in Oriente chissà per quanto tempo, e forse a Roma non sarebbe andato mai. La Provvidenza, invece, aveva decretato che egli andasse a Roma, e vi andasse precisamente in quanto civis romanus.

LA NAVIGAZIONE VERSO ROMA IL NAUFRAGIO A MALTA
576. Quando fu stabilito che noi salpassimo per l'Italia, consegnarono Paolo e alcuni altri prigionieri a un centurione di nome Giulio, della coorte Augusta (Atti, 27, 1). Con queste parole Luca comincia il suo lungo racconto del viaggio e arrivo di Paolo a Roma, che si estenderà fino al termine del suo libro (§ 115 segg.). La descrizione della navigazione è minutissima, e svela non solo il testimonio oculare, ma anche l'uomo colto, solerte, e attento ad osservare i fatti; ricchissima com'è di termini tecnici, questa descrizione fu giudicata dal Mommsen e da altri insigni storici uno dei più importanti documenti relativi all'arte nautica dei Greco-Romani, e dotti navigatori moderni l'hanno esaminata accuratamente sotto la doppia luce storica e nautica definendola opera eccellente (377). Si racconta che Nelson rileggesse questo tratto degli Atti la mattina di Trafalgar: dal libro ispirato, e precisamente da quelle pagine che meglio rispecchiavano l'intera sua vita, il grande ammiraglio traeva gli auspici per quella giornata che sarebbe stata l'ultima della sua vita e insieme quella della sua somma vittoria.
Un viaggio simile dalla Palestina a Roma fece quattro anni più tardi, ossia nel 64, Flavio Giuseppe, il quale egualmente naufragò e poté salvarsi con soli 80 passeggeri dei 600 ch'erano sulla nave: ma il racconto di Giuseppe non occupa che poche righe (Vita, 14-16).
577. Il centurione Giulio, a cui Paolo fu consegnato, si mostrò durante il viaggio uomo di nobili sentimenti ed usò particolari riguardi a Paolo. La coorte Augusta, o Sebastena, a cui egli apparteneva, non si sa con certezza quale fosse: forse era una delle cinque coorti allora di guarnigione permanente nella Giudea; ma è anche possibile che fosse una coorte dei pretori ani di Roma, e che Giulio fosse stato inviato con un distaccamento di essa per fare scorta d'onore a Porcio Festo nella sua recente venuta: dovendo adesso il distaccamento ritornare a Roma, Festo ne approfittava per affidare al centurione Paolo e gli altri prigionieri. Questi potevano essere delinquenti volgari, destinati alle belve dei circhi di Roma.
Era l'estate inoltrata dell'anno 60, e bisognava affrettarsi: già alla metà di settembre, nel Mediterraneo, la navigazione era stimata pericolosa; passata poi la prima decade di novembre cessava normalmente, per riprendersi ai primi di marzo col soffiare dei venti Favonii all'inizio della primavera. Tuttavia anche questo periodo, di «mare chiuso», come lo chiamavano gli antichi, conosceva delle eccezioni: i primi a violarlo erano stati i pirati a detta di Plinio (Natur. hist., II, 47), il quale osserva che al suo tempo l'esempio dei pirati era seguito dagli avari: ma anche Erode il Grande, ansioso di salvare il proprio trono, nel colmo dell'inverno del 40 av. Cr. si era imbarcato ad Alessandria alla volta di Roma, giungendovi dopo grave pericolo superato al largo della Pamfilia (Flavio Gius., Guerra giud., I, 279-281).
In mancanza di meglio, Giulio impiegò una nave di Adramittio, porto della Misia poco sotto a Troade (§ 17) (378), che da Cesarea salpava per il suo porto di base costeggiando l'Asia Minore; ivi salirono i prigionieri, e insieme con Paolo salirono Luca ed Aristarco di Tessalonica (§ 469). Questi due salirono o come passeggeri privati - trattandosi di una nave di noleggio pubblico - o più probabilmente furono ammessi dalla benignità del centurione, che finse considerarli schiavi di Paolo, giacché la legge permetteva che un cittadino romano prigioniero fosse assistito da un paio di schiavi.
578. Il giorno dopo la partenza si approdò a Sidone (379), e qui Giulio permise a Paolo di scendere a terra per visitare i fratelli della comunità locale. Salpata da Sidone, la nave risalì verso il Nord e passò sopra a Cipro a causa del vento che veniva dall'Ovest, tenendosi in tal modo parzialmente riparata dall'isola. Raggiunta Mira, porto della Licia (§ 11) (380), il centurione trasbordò i prigionieri su una nave ivi trovata, che veniva da Alessandria e proseguiva per l'Italia; poi si riprese il mare.
Il nuovo vascello era una navis oneraria addetta al trasporto del grano dall'Egitto a Roma; larga e tozza, come le navi di quel tipo, aveva un grosso albero al centro dello scafo ,e un altro minore verso prua: poteva stazzare un 300 tonnellate o poco più. Ma essendo già carica di frumento ed aggravata anche dai passeggeri sopraggiunti, la nave avanzava assai lentamente col vento che si manteneva contrario; cosicché impiegò parecchi giorni (Atti, 27, 7) per arrivare all'altezza di Cnido, sulla punta sud-occidentale dell'Asia Minore di fronte a Rodi mentre ordinariamente vi si arrivava da Mira in un giorno. Per trovare una rotta più libera, il pilota piegò a sinistra verso Sud, progettando di doppiare Creta navigando a Sud dell'isola onde tenersi sottovento da essa; girato perciò Salmone, il promontorio orientale, di Creta ricordato anche da Strabone (II, 4, 3), avanzò bordeggiando lungo la costa meridionale dell'isola e così poté arrivare non senza fatica alla baia chiamata Buoni Porti, presso cui stava la cittadina di Lasaia.
579. A Buoni Porti si era al sicuro, perché era una piccola baia ovale ben riparata dal mare, tuttavia il luogo non era molto adatto per una lunga permanenza. Ma a valutare l'insieme della situazione ci aiuta un'osservazione di Luca, secondo cui era trascorso molto tempo e la navigazione era già malsicura essendo già passato anche il Digiuno (27, 9): questo Digiuno è il giorno del Kippur, o Espiazione, che impone digiuno ai Giudei; poiché questa ricorrenza cadeva il giorno 10 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio d'ottobre, si considerava praticamente come termine di chiusura della navigazione, dopo il quale sarebbe stata grave imprudenza avventurarsi in mare.
I marinai della nave sapevano ciò benissimo, tuttavia essi avevano un progetto che non sembrava loro una grave imprudenza: poco più ad Occidente, sulla stessa costa meridionale di Creta, esisteva un altro porto, chiamato Fenice, che era molto più comodo e adatto a svernarvi che non Buoni Porti dove si trovavano; la distanza fra i due porti, ch'è di circa 40 miglia marine, poteva esser superata in una giornata o poco più di navigazione, appena avesse soffiato un po' di vento favorevole. Con questo non temerario tentativo si poteva scaricare e proteggere bene per la durata dell'inverno la mercanzia della nave, mentre a Buoni Porti ciò era ben difficile: inoltre anche la nave sarebbe stata custodita meglio a Fenice, e i passeggeri vi avrebbero svernato con maggiori comodità.
580. Su questo progetto si tenne consiglio fra gli uomini che sulla nave avevano maggiore responsabilità a credito: v'intervennero primo fra tutti il centurione, perché la nave apparteneva alla flotta mercantile imperiale e quindi egli era a bordo il più elevato per grado militare, poi il capitano della nave (***), il pilota (***), e infine anche Paolo che fu invitato probabilmente dal centurione per la stima che l'ufficiale aveva per lui.
Nella discussione il centurione da principio si mantenne neutrale, mentre il capitano, il pilota, e forse qualche altra marinaio intervenuto sostennero che doveva tentarsi il breve salta da Buoni Porti a Fenice; Paolo invece fu di parer contrario, e lo espresse in sostanza con queste parole: Uomini, scorgo che la navigazione sta per diventare di infortunio e gran perdita, non solamente per il carico e la nave, ma anche per le nostre vite (27, 10). Ma il parere di Paolo non fece impressione; il centurione, a cui spettava decidere, dovette pensare che quel suo prigioniero era, sì, persona moralmente degna e rispettabile, ma forse provava una certa pauretta davanti al mare, e ad ogni modo non aveva l'esperienza degli altri intervenuti: cosicché - come dice Luca - il centurione aveva più fiducia nel pilota e nel capitano che nelle cose dette da Paolo (ivi, 11), e prese la decisione finale conforme a questa sua fiducia.
Di lì a poco, infatti, si levò il vento meridionale, che era proprio quello aspettato per attuare la decisione presa: oramai, a far presto, in poche ore si sarebbe raggiunta Fenice e tutto sarebbe andato a posto. L'àncora fu subito levata, e si prese il largo; girata il capo Matala, ad Ovest di Buoni Porti, si fece rotta verso Nord-Ovest tenendosi vicino (381) alla costa e puntando verso Fenice.
581. Ma ad un tratto la scena si cambia, in quella maniera repentina e radicale in cui avvengono i cambiamenti meteorologici in quella zona del Mediterraneo e in quella stagione. Improvvisamente dalle montagne dell'isola si scaricò il vento tifonico chiamato Euro-aquilone, ossia che proveniva dal Nord-Est e perciò s'inoltrava verso Sud-Ovest.
Le conseguenze furono immediate: Essendo la nave trascinata via e non potendo far fronte al vento, abbandonata (la manovra) eravamo portati (alla deriva) (ivi, 15). In breve si fu all'altezza di Cauda (oggi Gaudos), un'isoletta a Sud-Ovest di Buoni Porti. Là, trovandosi la nave un po' sottovento, si poté compiere una manovra importante: la nave era salpata da Buoni Porti trascinandosi a rimorchio la scialuppa destinata agli sbarchi; ma adesso ciò costituiva un pericolo grave, perché nell'infuriar delle onde la scialuppa veniva a cozzare di continuo contro lo scafo della nave danneggiandolo seriamente: perciò in quel piccolo intervallo, con molta fatica, fu issata a bordo.
Ammainate già le vele, si procedette adesso anche alle operazioni di «fasciatura» dello scafo, rinforzandolo con gomene torno torno e con puntelli all'interno. I marinai temevano che la nave, trascinata dal turbine, fosse portata in linea retta ad incagliarsi nella grande Sirte Libica, l’enorme insenatura che il mare fa tra la Tripolitania e la Cirenaica, totalmente insabbiata e priva di ogni approdo: sarebbe stata la perdita della nave, della merce e d'ogni cosa. Per impedire o almeno ritardare questa corsa verso lo sfacelo, i marinai calarono in mare da poppa il cosiddetto «strumento» (***), il quale pare che fosse un ammasso di cordami, oppure un tavolone tenuto perpendicolarmenteda ancore, che trascinato dalla nave ne tratteneva l'impeto.
582. In tali, condizioni la nave, senza alcun governo, rimase abbandonata alla furia degli elementi per quattordici giorni continui.
Chi si è trovato in occasioni somiglianti può farsi un’idea - aggravando mentalmente la sua esperienza - dei patimenti sofferti in quelle due settimane dalle persone che erano a bordo. Quell'esile scafo di 300 tonnellate balzava sulle onde come un guscio di noce, beccheggiando: e rullando e scricchiolando sotto gli urti dei marosi. Adesso era rapito sulla cima spumeggiante di una enorme ondata: un momento appresso era sprofondato fra due nere muraglie d'acqua. La mancanza d'ogni forma di spinta interna rendeva lo scafo più che mai sensibile, a,d ogni colpo esterno (382).
Durante la prima notte la tempesta dovette crescere d'intensità, tanto che il giorno appresso si stimò necessario dare maggior forza di galleggiamento allo scafo alleggerendolo: fu quindi gettato in mare il carico che stava sopra il ponte. Il terzo giorno l'alleggerimento fu continuato, e furono gettati in mare gli attrezzi di manovra che non erano strettamente necessari.
In seguito, una spaventosa monotonia gravò su ciurma e passeggeri, senza alcuna differenza fra un giorno e l'altro: ogni giorno poteva esser l'ultimo. Al di dentro, corpi spossati che gemevano nel buio della stiva, fra vomito e lordura. Al di fuori, soltanto onde furiose; nient'altro in vista; smarrito ogni orientamento. Non c'era nulla da fare. Quanto avrebbe ancora resistito lo scafo ai colpi del mare? Né sole né stelle essendo comparse per molti giorni e gravando (su noi) una tempesta non ordinaria, oramai era tolta ogni speranza che ci salvassimo (27, 20).
583. Frangenti di questo genere senza dubbio scuotono un uomo ordinario, e lo distolgono, almeno per qualche tempo dal mondo morale in cui egli abitualmente vive. Quegli interminabili giorni avranno scosso anche Paolo? Lo avranno distolto, almeno in parte, dal mondo spirituale di quel Cristo in cui egli viveva? Non risulta affatto; al contrario, dalle parole che Luca soggiunge subito appresso, risulta che Paolo inquadrava anche quell'eccezionale avvenimento nell'ampia visione del suo mondo spirituale; inoltre - sorprendente a dirsi - egli non si estraniava affatto dalla realtà materiale, anzi si prendeva cura di umili esigenze della vita che erano trascurate dagli altri passeggeri. Egli, come più tardi altri mistici cristiani, mostrerà di avere la testa sublimata al terzo cielo ma nello stesso tempo i piedi saldamente poggiati sulla terra.
Da molto (tempo) non era stato preso alcun nutrimento: allora Paolo, stando ritto in mezzo a quelli, disse: Bisognava, o uomini, dando retta a me, non salpare da Creta e risparmiarci questo infortunio e perdita. E adesso vi esorto a star di buon animo: non vi sarà, infatti, alcuna perdita di vite fra voi, salvo (la perdita) della nave. Mi fu dappresso, infatti, questa notte un angelo del Dio, a cui appartengo ed a cui anche presto culto, dicendo: «Non temere, Paolo; bisogna che tu compaia davanti a Cesare, ed ecco, Iddio ha fatto grazia in favore tuo a tutti quelli che navigano con te». Perciò state di buon animo, uomini! Ho infatti fede in Dio, che avverrà così come mi è stato detto; tuttavia dovremo esser gettati in una qualche isola (ivi, 21-26).
584. È probabile che questa esortazione di Paolo fosse ascoltata da pochi e assecondata da pochissimi: quando da molti giorni si balla una ridda infernale e quando il mal di mare ha spremuto via dal corpo l'ultima goccia di linfa vitale, non fa più impressione nulla, salvo l’effettiva liberazione da quello strazio. E adèsso quel prigioniero saltava su a dire che si sarebbe finiti su un'isola! Quale? Dove? Che poteva saperne, lui, dopo tanti giorni di smarrimento, se i marinai stessi con la loro esperienza non ne sapevano nulla? Gli era apparso l'angelo del suo Dio? Sì: ma non sarà stata piuttosto un'allucinazione creata nella sua fantasia dai crampi dello stomaco e dall'eccitazione dei nervi? Forse solo pochi, di quanti udirono l'esortazione di Paolo, giudicarono che quel prigioniero poteva aver parlato con qualche fondamento: fra costoro dovette essere il bravo Giulio, che già aveva intravisto in Paolo alcunché di straordinario.
È anche probabile che l'esortazione di Paolo avvenisse il tredicesimo giorno dopo la partenza da Buoni Porti. Certo è che, quando giunse la quattordicesima notte, mentre noi eravamo alla deriva nell’Adria, verso la metà della notte i marinai sospettarono che una qualche terra si avvicinava ad essi (ivi, 27). Quest'ultima espressione era tipicamente marinara: la terra si avvicinava quando un vascello calava verso essa; ed era espressione anche più appropriata per gente come quella, che da quattordici giorni non seguiva alcuna precisa direzione aspettando che una terra qualsiasi venisse incontro a loro improvvisamente. Il mare chiamato Adria era a quei tempi non soltanto l’Adriatico, ma anche il tratto più in basso, tra la Sicilia ad Occidente e la Grecia e Creta ad Oriente (383). Ma questa designazione fu nota a Luca solo più tardi, quando seppe il nome della terra allora intravista; in quella notte, invece, egli non era in grado di dire se il mare in cui si trovava era l'Adria oppure la grande Sirte.
585. Frementi di speranza, i marinai calarono lo scandaglio, e in realtà trovarono che l'acqua era profonda soltanto 20 «canne»; poiché la «canna» (***) ossia il «doppio braccio» equivaleva circa a metri 1,85, la profondità d'acqua era appena di 37 metri. Ritentarono poco dopo, e trovarono 15 «canne». Non c'era più dubbio: la terra si avvicinava rapidamente, sebbene non si scorgesse per l'oscurità della notte e della tempesta.
Questo rapido avvicinarsi dimostrava che le onde spingevano la nave verso qualche secca; e allora, per timore di andare ad urtare su scogli invisibili, i marinai fermarono la nave calando quattro ancore da poppa, in attesa che spuntasse il giorno e si potesse scorgere la sospirata terra. Ma, così vicini ad essa, il pericolo sotto un certo aspetto era cresciuto, e i marinai lo sapevano bene. La nave, essendo ora quasi ferma, avrebbe resistito ai colpi delle onde fino al mattino? E se avesse cominciato a sfasciarsi, com'era probabile, come e dove trasportare i passeggeri, che si sarebbero precipitati confusamente sulla scialuppa? Era quindi meglio - pensarono i marinai - provvedere a sé stessi. mettendosi in salvo a terra: più tardi, se era possibile, si sarebbe provveduto ai passeggeri.
Essi perciò cominciarono a calare in mare la scialuppa (§ 581), allegando come pretesto che dovevano stendere i legami delle ancore anche da prua. Sennonché Paolo, che forse aveva udito qualche loro parola mentre si accordavano su questo progetto, disse al centurione ed ai soldati: Se costoro non rimangono nella nave, voi non potrete salvarvi. Questa volta l'ammonizione di Paolo ebbe un effetto immediato; i soldati, trattandosi della propria vita, estrassero le spade e tagliarono le corde della scialuppa lasciandola cadere in acqua.
586. Il giorno stava per spuntare, ed era facile prevedete che sarebbe stato giorno di grandi fatiche e sforzi, nell'intento di salvare la nave o almeno le persone fra mille incertezze e difficoltà. Ma nessuno aveva pensato che, a queste imminenti fatiche, i passeggeri erano fisicamente del tutto impreparati, giacché dopo quattordici giorni di mal di mare, d'insonnia e di eccitazione nervosa, si reggevano in piedi a mala pena. Ci pensò però Paolo, mistico e positivo insieme: non è escluso, tuttavia, che questa sua preoccupazione fosse confermata da qualche suggerimento del fisiologo Luca. Rivolgendosi dunque alla gente che fremeva in attesa di potere sbarcare, Paolo disse: «Oggi è il quattordicesimo giorno che, stando in attesa, continuate a star senza nutrimento, non prendendo nulla. Perciò vi esorto a prendere cibo, giacché ciò sarà a vantaggio della vostra salvezza; non perirà, infatti, un capello dalla testa di nessuno di voi». Avendo detto questo e preso del pane, rese grazie a Dio in presenza di tutti, e avendo spezzato (il pane) cominciò a mangiare. Fattisi allora tutti di buon animo, presero anch'essi cibo. Eravamo in tutti nella nave 276 persone (ivi, 33-37).
Qualche esegeta ha voluto scorgere nell'azione di Paolo il rito dell'Eucaristia, da lui compiuto per sé e per i suoi compagni cristiani: l'opinione, espressa anche da protestanti e da razionalisti, non è affatto da giudicarsi assurda, essendo ben possibile che in circostanze di eccezionale importanza i cristiani primitivi praticassero per loro conforto quel sacro rito restringendolo alle azioni essenziali; tuttavia sembra più verosimile che l'azione di grazie premessa allo spezzamento del pane fosse, non la formula dell'Eucaristia, ma la solita preghiera devozionale usata dai Giudei prima dei pasti e impiegata anche da Gesù alla moltiplicazione dei pani e ad Emmaus (384).
587. Contenendo la nave, oltre al carico morto, 276 persone, doveva essere più piccola di quella su cui naufragò Flavio Giuseppe, che ne conteneva 600 (§ 576). Quanto al carico, Luca dice subito appresso che, appena finito il pasto, per alleggerire la nave fu gettato il frumento in mare: e tutto induce a credere che appunto questo frumento costituisse il carico destinato a Roma. Qualche studioso ha supposta che questa improvvisa ed unica menzione del frumento (***) sia dovuta ad un antico errore di amanuense, perché con il semplice spostamento di una lettera si potrebbe leggere albero di nave (***), il quale sarebbe l'albero centrale, allora tagliato e gettato in mare per alleggerire la nave; ma la congettura, per quanto paleograficamente attraente, non è confermata da alcun argomento del contesto e rimane campata in aria.
588. Luca quindi passa a descrivere con precisione la manovra fatta dai marinai: Quando poi si fece giorno, non riconoscevano la terra; ma scorgevano un certo golfo che aveva una spiaggia, sulla quale decisero di spingere, se potevano, la nave. Sciolte allora le ancore (le) abbandonarono in mare, rilasciando nello stesso tempo i legami dei timoni; alzata quindi (la vela dell’)artimone al (vento) che soffiava, si spinsero verso la spiaggia (ivi, 39­40). I marinai dunque, vista un'ampia insenatura, decisero subito di entrarvi, pur sospettando che la sua imboccatura fosse sbarrata da banchi di sabbia appena ricoperti dall'acqua, e quindi difficili a scoprirsi ed evitarsi: quando la nave fosse entrata nell'insenatura, sarebbe stato facile spingerla con forza, sulla spiaggia che si scorgeva in fondo, conficcandola là nella sabbia.
Perciò liberarono la nave dall'ormeggio, slegando e abbandonando le ancore in fondo al mare; quindi rimisero in funzione i timoni - che nelle navi di allora erano due in forma di grossi remi, e collocati ai fianchi dello scafo uno a destra e l'altro a sinistra - e ne rilasciarono i legami che li tenevano immobili; infine alzarono l'artimone, la piccola vela assicurata all'albero minore di prua, che era bastevole a spingere con forza moderata la nave dentro l'insenatura.
589. Da principio sembrò che la manovra riuscisse bene; ma, appena abbordata l'imboccatura, il pericolo dei banchi di sabbia sospettato dai marinai si palesò subito. Essendo capitati in un posto di doppio mare, incagliarono la nave: quanto alla prua, essendo conficcata, rimaneva immobile, ma la poppa si sfasciava per la violenza (delle onde) (ivi, 41).
Questo posto di doppio mare (***) doveva essere uno di quei bassifondi sabbiosi che sono ordinari nelle entrate di insenature marine: essi si formano sulla linea d'urto tra due forze contrastanti, cioè i colpi del mare esterno e le ripercussioni dell'acqua interna, e per la violenza permanente del posto sono pericolosissimi a chi incagli in essi. I marinai, che non avevano riconosciuto il bassofondo, vi urtarono in pieno incagliando la nave con la prua: e gli effetti si videro immediatamente, perché mentre la prua affondata nella sabbia rimaneva ferma, la parte posteriore della nave cominciò a sfasciarsi sotto i colpi dei marosi.
La gravità del pericolo fu avvertita da quanti erano nella nave, che furono presi subito dal panico ordinario in tali circostanze. Ognuno non pensò che a sé stesso. I soldati di scorta pensarono alle proprie responsabilità, che erano gravissime se i prigionieri a loro affidati fossero fuggiti: per cavarsi quindi d'impaccio, deliberarono di ucciderli. Ma il centurione, che voleva salvare Paolo, proibì la strage: perciò dette ordine che coloro che potevano nuotare raggiungessero la terra a nuoto, e gli altri li seguissero sorreggendosi su tavole o rottami che si staccavano man mano dalla nave. Così avvenne che tutti si salvarono a terra; e giunti in salvo, allora venimmo a sapere che l'isola si chiama Melita (27, 44-28, 1).
590. Il nome Melita, diventato poi Malta, era di origine punica, cioè semitica; il gruppo delle due isole di Gozo e Malta era anche chiamato collettivamente Gaudo-Melìta.
Qualche studioso dilettante ha ritenuto che l'isola ove naufragò Paolo sia, non già Malta, bensì l'isola di Meleda (greco ***, latino Melite, croato Mljet) situata lungo la costa della Dalmazia poco sopra a Ragusa, di fronte alla costa italiana degli Abruzzi; poiché questa opinione, suggerita soprattutto da fierezza paesana, non ha a proprio favore alcun serio argomento, basti averla ricordata.
A Malta il posto ove avvenne il naufragio è riconosciuto con grande probabilità, la quale è rafforzata da un'antica tradizione. Sulla costa settentrionale dell'isola si apre verso Oriente (la direzione donde veniva la nave) l'insenatura chiamata Baia di S. Paolo; naturalmente lungo i secoli l'aspetto della baia può aver cambiato, in molti particolari, ma in sostanza è rimasto uno specchio d'acqua in forma di angolo acuto che s'insinua nella terra, ferma, ed è circondato in gran parte da rocce friabili. Ai piedi di queste rocce la sabbia è un po' dappertutto; ma è probabile che la spiaggia sabbiosa: verso cui i marinai avevano sperato di spingere la nave, fosse nel lato settentrionale della baia, dove l'isolotto di Salmonetta (Selmunett) è separato mediante un canale dalla terraferma: ivi anche, sulla linea d'urto ove la corrente che veniva dal mare aperto si scontrava con le acque della baia e del canale, era facilissima la formazione di bassifondi sabbiosi, su uno dei quali dovette incagliare la nave. Oggi una statua di S. Paolo eretta presso il canale di Salmonetta, e inoltre una Fonte di S. Paolo e una cappella in suo onore sulla spiaggia meridionale della baia, ricordano il drammatico approdo di San Bulos, il protettore dei Maltesi.
591. Giunti finalmente a terra spossati e bagnati fino alle ossa, i naufraghi furono presto circondati dagli abitanti del posto. Luca li chiama barbari, secondo l'abitudine dei Greco-Romani di chiamare barbaro chi parlava una lingua ignota al mondo ellenistico; ma egli aggiunge subito un attestato assai onorifico per quegli isolani: I barbari mostrarono verso di noi una umanità non comune: infatti, dopo aver acceso un fuoco, accolsero tutti noi (in casa) a cagione della pioggia che cadeva e del freddo (28, 2).
Oggi la lingua parlata dai Maltesi è una mescolanza di italiano e di semitico, proveniente quest'ultimo dall'antica lingua punica e dai successivi enormi accrescimenti di arabo; a quei tempi la lingua degli isolani doveva essere sostanzialmente la punica, ossia quella parlata già dai Cartaginesi che usavano un dialetto fenicio; ma i Fenici, insediati immediatamente a Nord della Palestina e confinanti con gli Ebrei, parlavano una lingua strettamente imparentata con l'ebraico: cosicché la differenza tra il punico e l'ebraico era, all'ingrosso, quella che c'è oggi tra l'italiano e il francese, che sono ambedue del gruppo neolatino come il punico e l'ebraico erano del gruppo semitico nord-occidentale. Dovette perciò avvenire che, quando Paolo scambiò le prime parole con i premurosi isolani accorsi attorno a lui, trovò che essi erano meno «barbari» di quanto sembravano a Luca, giacché aiutandosi con l'ebraico e con l'aramaico Paolo riusciva mediocremente a capirli e a farsi capire; del resto, poco dopo saranno accorsi anche isolani che parlavano greco o latino, e allora le conversazioni saranno divenute più generali ed animate.
592. Essendo circa i primi di novembre (§ 579), i naufraghi furono rinfrancati dal buon fuoco acceso dagli isolani; era il soccorso di cui avevano bisogno prima d'ogni altro, dopo tanta tempesta e sotto quella gelida pioggia. Paolo, che non sapeva stare inoperoso quando vedeva gli altri lavorare, volle contribuire anch'egli ad alimentare il fuoco: avendo pertanto Paolo raccolto una certa quantità di sarmenti, ed avendoli messi sul fuoco, una vipera venuta fuori per il calore s'attaccò alla mano di lui. Quando i barbari videro la bestia pendente dalla mano di lui, si dissero gli uni agli altri: «È proprio un omicida quest'uomo, al quale dopo essersi salvato dal mare la Giustizia non permette di vivere!». Egli però, avendo scosso la bestia nel fuoco, non soffrì male alcuno. Quelli invece s'aspettavano ch'egli dovesse gonfiarsi o cascar morto ad un tratto; avendo essi aspettato a lungo e vedendo che nessun inconveniente gli capitava, cambiata opinione dicevano ch'egli era un dio (28, 3-6).
La riflessione fatta da principio dagli isolani era del tutto naturale. Quel prigioniero si salva a stento dal mare, e appena raggiunge la terra vi è morso da un serpente velènoso? Dunque è certamente un immane omicida, al quale la Dike - la Giustizia personificata - vuole infliggere la meritata pena! Ella ha permesso che scampasse dalle onde, solo perché facesse una fine più tormentosa, corroso e bruciato dal veleno. Ma, poiché questo decreto della Giustizia non viene eseguito, gli isolani ne traggono la conclusione opposta: quello là non è un uomo, che possa morire o affogato o avvelenato; quello è un dio! Un giudizio simile era stato dato su Paolo dai Licaoni di Listra (§ 343).
593. Nel racconto greco di Luca sono impiegati parecchi termini medici, che qui non è il caso di segnalare: vivida è anche la descrizione del testimonio oculare che scorge, anch'egli non senza spavento, la vipera dondolante dalla mano di Paolo, e il gesto tranquillo di lui che scotendola la fa cadere nel fuoco.
I razionalisti, naturalmente, non credono al fatto perché miracoloso e lo rigettano senza neppur discuterlo: solo qualcuno di essi ha obiettato che oggi Malta non alberga serpenti velenosi. La realtà è che la fauna di Malta oggi è poverissima, e anche poco studiata, tantoché altri ha sostenuto che fino a un secolo fa vi esistevano vipere: ma qualunque sia la realtà d'oggi, non è detto che venti secoli addietro fosse la stessa. Quanti animali, specialmente piccoli, sono scomparsi in un tempo assai minore? (385). Gli isolani, che erano bene esperti, s'aspettavano di veder Paolo in preda alle conseguenze dell'avvelenamento, e la loro esperienza vale più delle tendenziose ipotesi d'oggi.
594. Riscaldatisi alla meglio, i 276 naufraghi furono ricoverati - come ci ha detto Luca - nelle varie case di quei buoni isolani. Ma l'episodio della vipera fece subito effetto, perché Paolo con Luca ed Aristarco, e forse anche il centurione Giulio con qualche altro naufrago di maggior riguardo, furono accolti in casa di Publio, che possedeva dei terreni in quelle parti ed era il «primo» dell'isola (28, 7).
Questo titolo di «primo» è stato ritrovato in varie iscrizioni di Malta (386), e designava il rappresentante «principale» dell'autorità romana che dimorava sul posto, giacché l'isola dipendeva dal pretore di Sicilia: era titolo di indole schiettamente romana, e non sarebbe infondato scorgere una sua continuazione nel termine di «principale», che il popolo ancora oggi in Roma dà al capo di una officina o bottega. È verosimile che la casa di Publio, ove furono accolti i naufraghi di riguardo, fosse situata nei pressi di Città Vecchia: questa antica capitale dell'isola dista circa otto chilometri dalla baia del naufragio, e nelle sue vicinanze sono state ritrovate alcune delle suddette iscrizioni menzionanti il «primo» dell'isola.
In quella comoda casa gli ospiti rimasero tre giorni, trattati con amabilità; la quale però fu subito ripagata da Paolo in una circostanza che non poteva non attirare la particolare attenzione del narratore medico. Avvenne pertanto che il padre di Publio fosse giacente, preso da febbri e dissenteria. Paolo, essendo entrato da lui e avendo pregato, imposte le mani su lui lo guarì. Avvenuto ciò, anche i restanti dell'isola che avevano malattie venivano ed erano guariti (28, 8-9). Il termine febbri, al plurale, allude ad accessi ricorrenti, e spingerebbe a pensare alla cosiddetta «febbre maltese»; ma i dati per una diagnosi sono troppo scarsi. Il medico Luca riscontra il fatto, ma Paolo impiegando il carisma delle «guarigioni») (§ 216) guarisce il malato: subito appresso è costretto ad impiegare il suo carisma per i molti altri malati dell'isola che, appena risaputo della guarigione, accorrono all'uomo della vipera, il quale si è mostrato così potente su sé e sugli altri.
Naturalmente, benefattori così insigni furono trattati con ogni deferenza. Essi ci onorarono anche con grandi onori, e quando partimmo ci fornirono le cose necessarie (ivi, 10). Il che significa che furono forniti di tutto, perché tutto avevano perduto nel naufragio.
595. Questo, sotto l'aspetto materiale. Sotto l'aspetto spirituale, come saranno andate le cose? Paolo, a cui bastava una sosta di pochi giorni in un luogo per mettersi a predicare il Cristo Gesù, non avrà fatto ciò anche a Malta nei tre mesi che vi rimase? Gli Atti non ci dicono nulla in proposito, né abbiamo notizie da altre fonti antiche: tuttavia il silenzio di Luca non è mai una negazione, e rimane non solo possibile ma anche probabile che dopo il passaggio di Paolo una piccola comunità cristiana esistesse nell'isola che lo aveva albergato.
La partenza avvenne appena il periodo più aspro dell'inverno fu superato, ossia nel febbraio dell'anno 61. Dopo tre mesi partimmo su una nave che aveva svernato nell'isola, (nave) Alessandrina con l'insegna dei Dioscuri; essa, cioè, portava sulla prua le immagini dei numi tutelari dei marinai, i due Dioscuri Castore e Polluce. Veramente la navigazione ricominciava di solito un poco più tardi, ai principii di marzo: ma trattandosi di un breve tragitto, quale quello da Malta alle coste meridionali d'Italia, e forse con l'opportunità di tempo calmo e vento favorevole, la nave dei Dioscuri volle guadagnar tempo e tentò il breve passaggio.
Questa volta non ci furono sorprese: perciò il giornale di viaggio di Luca diventa schematico come alcuni tratti dell'Anabasi di Senofonte e della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe (387). Approdati a Siracusa, sostammo tre giorni. Di lì, girando attorno, giungemmo a Reggio. E dopo un giorno levatosi il vento meridionale, arrivammo il secondo giorno a Pozzuoli; ivi avendo trovato dei fratelli, fummo esortati a restare presso di loro sette giorni (28, 12-14) A Pozzuoli la nave fu abbandonata, e il resto del viaggio per Roma fu fatto per via di terra (388).
596. È notevole che a Pozzuoli Paolo trovi dei cristiani, ma la loro presenza ivi si spiega ai solito mediante la presenza di Giudei: secondo una notizia di Flavio Giuseppe (Guerra giud., II, 104) i Giudei dovevano essere numerosi e facoltosi a Dicearchia (Pozzuoli), dal che si conclude che taluni di essi già prima dell'arrivo di Paolo erano passati al Cristianesimo. Nei sette giorni di permanenza, dovuti forse a ragioni di servizio riguardanti Giulio e la scorta militare dei prigionieri, i cristiani di Pozzuoli si affrettarono ad avvertire per lettera i fratelli di Roma che Paolo era giunto e stava per proseguire alla loro volta; perciò subito alcuni si mossero da Roma per andare ad incontrare il viaggiatore lungo la strada, la quale non poteva essere che la Via Appia.
Questi rappresentanti della comunità romana si spinsero fino alle Tre Taverne, ch'era un luogo di sosta per viaggiatori ricordato anche da Cicerone (ad Attic. I, 13, 1; II, 10; 12) situato a 33 miglia da Roma dove la Via Appia aveva una diramazione che portava ad Anzio; altri invece proseguirono fino al Foro di Appio, alcune miglia più a Sud, ch'era stato fondato da Appio Claudio e poi era diventato luogo di gran convegno per marinai, osti e bricconi, come si esprime Orazio in una nota descrizione del posto fatta dopo esperienza personale (Sat., I, 5, 2-4). Il Foro di Appio era all'orlo delle Paludi Pontine; di là anche cominciava il decemnovium, ossia un tratto di strada rettilineo lungo diciannove miglia, a fianco al quale correva un canale che arrivava fino a Terracina (Anxur), e che permetteva di viaggiare su barca invece che sulla strada. È probabile che Paolo, da Terracina al Foro di Appio, risalisse in barca questo canale. Al Foro di Appio e di nuovo alle Tre Taverne avvenne l'incontro con i cristiani di Roma, e vedendoli Paolo rese grazie a Dio e prese coraggio (Atti, 28, 15).
Dopo la sosta a Tre Taverne la comitiva cominciò la salita dei Colli Albani, passando lungo Velletri; l'ultima sosta, delle sei o sette che richiese il viaggio da Pozzuoli a Roma, avvenne probabilmente ad Ariccia (Orazio, ivi), situata a 16 miglia: da Roma. Dall'alto dei Colli Albani Paolo contemplò per la prima volta Roma.
597. Quella Roma dell'anno 61 era destinata a scomparire quasi tutta con l'incendio neroniano di tre anni dopo: era una città sorta lungo i secoli zona per zona, ammassata, confusa, irregolare. Salvo la mole del Palatino imperiale col biancore del Foro ai suoi piedi, ben poco si doveva discernere di essa da lontano. Ma intorno intorno; per la campagna, una fitta rete di fili provenienti da tutte le direzioni correvano verso di essa, quasi ansiosi di ricongiungersi ivi: erano gli acquedotti e le strade, che recavano acque e popoli alla dominatrice del mondo.
Forse Paolo, fermatosi un momento a contemplare il panorama e riflettendo su quella rete di acquedotti e strade, pensò a quell'acqua viva di cui Gesù aveva parlato alla Samaritana (389) e a quei popoli avviati alla casa del Dio d'Israele di cui avevano parlato gli antichi profeti (§ 262), acqua e popoli fino allora giunti a Roma in misura troppo scarsa; ma egli aveva tanto anelato di toccare Roma appunto per avvolgere quella fatale città in un'altra rete di fili immateriali. L'acqua della Samaritana avrebbe avuto la sua fonte perenne in Roma, e di là sarebbe stata distribuita nelle più remote regioni; i popoli si sarebbero avviati non più al colle di Sion, ma alla città che aveva sette colli come le sette lampade del candelabro aureo nel Tempio di Gerusalemme. Questa previsione del prigioniero che giungeva incatenato a Roma era una stoltezza, ed egli lo sapeva benissimo; ma appunto perché era una stoltezza egli aveva incrollabile fede in essa (§ 419). Del resto a sostenere questa fede contribuiva in Paolo un altro ricordo: come egli allora stava contemplando Roma dai Colli Albani, così un trentennio prima Gesù aveva contemplato Gerusalemme dal Monte degli Olivi pochi giorni prima della sua morte (390); se allora Gesù aveva pianto, adesso il suo apostolo sorrideva, ma l'antico pianto del Maestro giustificava adesso il sorriso del discepolo.
598. Scendendo dai Colli Albani lungo la Via Appia, Paolo entrò in Roma per la Porta Capena, corrispondente circa all'odierna Porta di S. Sebastiano. In città il centurione Giulio consegnò Paolo e gli altri prigionieri all'ufficiale destinato a riceverli.
Secondo alcuni pochi manoscritti quest'ufficiale sarebbe stato un «comandante d'accampamento» (***), titolo che corrisponde al praefectus castrorum dei Romani; ma quale era l'accampamento, o castra, qui accennato? Si è pensato all'accampamento dei milites peregrini, o castra peregrinorum, situato fra il Celio e il Palatino e destinato ad accogliere i soldati di passaggio, nonché ad altri servizi di polizia: e la cosa non è impossibile, sebbene notizie sicure di questi castra peregrinorum non si abbiano prima del sec. III. Ad ogni modo anche se Paolo fu condotto in questo accampamento, ove forse dovevano alloggiare Giulio e i soldati di scorta, subito appresso egli fu trasferito all'accampamento principale dei pretoriani, ossia al Castro Pretorio, come si chiama ancora oggi il suo posto presso la Via Nomentana; là egli fu consegnato al praefectus castrorum, che comandava l'accampamento per delega del prefetto del pretorio.
Era allora prefetto del pretorio Afranio Burro, amico di Seneca e come lui filosofo stoico e già precettore del giovane Nerone. Burro, o un suo sostituto, dovette ricevere da Giulio la consegna di Paolo e insieme le informazioni ufficiali che riguardavano il suo processo; ma poiché l'elogium scritto da Porcio Festo (§ 572) quasi certamente era finito in fondo al mare col naufragio, non restava per il momento che attenersi alla presentazione verbale del prigioniero fatta dal centurione. Questa senza dubbio fu ottima, conforme ai sentimenti mostrati più volte dal bravo Giulio verso Paolo lungo il viaggio: ottimo perciò fu anche il risultato della presentazione.
599. Quando entrammo a Roma, fu permesso a Paolo di restarsene a sé con un soldato che gli faceva la guardia (28, 16). Ciò significa che, invece di rimanere rinchiuso dentro il Castro Pretorio, Paolo fu sottoposto alla custodia militaris e in forma molto mitigata (§ 561): egli poteva starsene in una casa privata qualunque, ma uscendo doveva avere sempre a fianco il soldato a cui era legato con una catena. Difatti Paolo prese in affitto una casa privata, certamente consigliatagli dai cristiani di Roma, e ivi riceveva liberamente quanti venivano a lui, predicando il Vangelo e parlando di Gesù Cristo con ogni libertà senza impedimenti (28, 31). Dove fosse questa casa privata non ci risulta in alcun modo: le tradizioni che la collocano a S. Maria in via Lata presso l'odierno Corso Umberto, o a S. Paolo della Regola presso l'odierna Sinagoga, o altrove, sono assai tardive e prive di sodo fondamento (391). Piuttosto, come presunzione generica, sarebbe da pensare a qualche casa vicina al Castro Pretorio.
600. Appena allogatosi in quella casa, Paolo cominciò ad agire: prima d'ogni altra cosa, egli desiderava chiarire la sua posizione di fronte ai Giudei di Roma, i quali erano numerosi e potenti e contavano anche protettori nella corte imperiale (392). Quindi, tre giorni dopo, egli fece avvertire i maggiorenti della colonia giudaica che li avrebbe ricevuti volentieri, perché essendo giunto testé dalla Giudea voleva presentarsi a loro. Certo, parecchi di quei maggiorenti avevano già sentito parlare di Paolo come di un innovatore balzano, senza però averne un concetto preciso: accettarono quindi l'invito, per poterlo giudicare a ragion veduta.
Convenuti che furono, Paolo si presentò loro incatenato col soldato a fianco: cominciando poi a parlare, volle far rilevare soprattutto che egli non aveva alcuna ostilità contro la comune nazione né era venuto per accusarla; imprigionato senza motivo a Gerusalemme, era stato consegnato ai Romani, i quali avrebbero voluto rilasciarlo avendolo ritrovato innocente; ma poiché i Giudei di laggiù avevano protestato, egli era stato costretto ad appellarsi a Cesare, e perciò inviato a Roma; per questa causa, dunque, vi ho invitati, per veder(vi) e parlar(vi), giacché a motivo della speranza d'Israele sono avvinto da questa catena (28, 20).
601. La presentazione fatta da Paolo di se stesso era un po' generica, e a bella posta: un primo incontro non era opportuno per una discussione dottrinale condotta a fondo. Egualmente vaga e ponderata fu la risposta dei Giudei, non priva di una certa delicatezza: dissero che non avevano ricevuto fino allora dalla Giudea alcuna informazione scritta riguardo a Paolo, e neppure era giunto alcuno che avesse parlato di lui con biasimo; sarebbe stato quindi opportuno che egli stesso, in un giorno fissato, facesse un'ampia esposizione del suo pensiero, giacché era notorio che la «setta» (***) a cui egli apparteneva trovava forti ostilità dappertutto (ivi, 21-22).
Da questa risposta risulta, incidentalmente, che la corrispondenza epistolare delle autorità giudaiche di Gerusalemme con la colonia di Roma (come del resto con le colonie di tutta la Diaspora) era intensa, giacché i convocati quasi si meravigliano di non aver ricevuto, dal Sinedrio alcun rapporto riguardante Paolo; risulta anche che il cristianesimo era ben conosciuto dai Giudei di Roma, e per loro era cosa nota che in genere in tutta la Diaspora esso incontrava costante opposizione. Invece al cristianesimo di Roma non si fa, con finezza diplomatica, alcuna allusione, sebbene l'espulsione dei Giudei da Roma ordinata un decennio prima da Claudio (§ 157) e motivata da tumulti avvenuti a cagione di «Cresto» fosse dovuta quasi certamente a tumulti di Giudei contro i «Crestiani», ossia i cristiani (393)

602. Fissato il giorno, i Giudei vennero in numero anche maggiore a prender parte alla discussione con Paolo tenuta nel suo alloggio; e ad essi egli esponeva (l’argomento), testimoniando il regno d'Iddio e persuadendoli riguardo a Gesù (con ragioni tolte) sia dalla Legge di Mosè sia dai Profeti, (e ciò) dalla mattina fino alla sera. E alcuni si persuasero per le cose dette, altri invece non prestavano fede. Essendo pertanto discordi fra loro, si separarono, dopo che Paolo ebbe detto una sola parola, cioè: «Giustamente lo Spirito santo parlò per mezzo del profeta Isaia ai vostri padri dicendo ...»; o qui segue il passo di Isaia, 6, 9-10, citato secondo i Settanta, in cui il profeta a nome di Dio rinfaccia ad Israele la sua ostinatezza. Poiché discutemmo altrove il vero senso di questa citazione, già impiegata da Gesù, rimandiamo a quanto là dicemmo (394).
Alla citazione del profeta, Paolo fece seguire la sentenza finale che aveva anch'essa un tono profetico: Vi sia pertanto noto che alle genti è inviata questa salvezza d'Iddio: esse inoltre ascolteranno (28, 23-28).
In quella discussione, inconsciamente, era stata in giuoco la sorte di Roma. I Giudei rifiutarono di essere i cittadini di quella Roma onde Cristo è Romano (Purgatorio, 32, 102); per conseguenza, la stessa cittadinanza fu offerta ai pagani, i quali s'affrettarono ad accettarla. Invitati a trasferirsi dal colle di Sion sul colle del Campidoglio, quei Giudei respinsero l'invito; ma avvenne in compenso che il Campidoglio fu occupato dai pagani invitati, i quali vi demolirono il tempio del loro Giove e v'innalzarono una croce, mentre sul colle di Sion crollò per sempre l'unico Tempio del Dio Jahvè e fu innalzata la Mezzaluna.
PRIMA PRIGIONIA ROMANA
603. Dante racconta che, dopo aver visitato il purgatorio ed esser giunto al paradiso terrestre, si voltò ad un tratto per fare una delle sue solite domande a Virgilio, ma inaspettatamente non lo vide più a suo fianco: il fedele maestro era scomparso all'improvviso. Ma, per fortuna, Beatrice calava in quel momento dal cielo per sostituire Virgilio nelle sue funzioni, giacché il poeta pagano non sarebbe potuto entrare nell'imminente paradiso a fare anche lassù da guida al poeta cristiano. Cosicché, in sostanza, Dante ci guadagnò, e le lacrime versate per la scomparsa di Virgilio furono asciugate subito da Beatrice.
Noi siamo assai meno fortunati di Dante. A questo punto del racconto la nostra fedele guida, Luca, scompare in maniera non meno brusca di quella di Virgilio, ma nessuna Beatrice cala per noi dal cielo a sostituirlo: eccoci quindi abbandonati, non già in un paradiso terrestre, ma in una landa quasi deserta, giacché d'ora innanzi non ci resteranno per guida che scritti dottrinali assai avari di notizie storiche.
Già vedemmo come Luca, dopo aver impiegato ben 21 versetti per narrare solo i primi giorni della permanenza di Paolo a Roma, riassuma poi in una ventina di parole l'intero biennio della successiva permanenza, senza fare allusione alcuna al processo tenuto davanti al tribunale dell'imperatore, sebbene questo processo fosse la conclusione naturale degli ultimi capitoli del libro: osammo anche proporre una spiegazione di questo strano fatto e dell'improvviso troncamento finale di tutta la narrazione (§§ 118-119). Noi crediamo che il processo fu concluso agli inizi del 63 con sentenza assolutoria.

La lunga aspettativa della sentenza poté avere più di un motivo: uno fu di dare agli accusatori della Giudea il tempo necessario per presentarsi a Roma a sostenere l'accusa; un altro probabile motivo fu l'attesa di un nuovo rapporto scritto richiesto al procuratore della Giudea sul conto di Paolo, dato che quasi certamente l'elogium affidato al centurione Giulio era andato perduto nel naufragio di. Malta (§ 598). L'assoluzione dovette essere motivata egualmente da più ragioni: prima di tutto dall'effettiva innocenza dell'imputato anche di fronte alla legge di Roma, ancora non avversa al cristianesimo; poi dai rapporti fatti sull'imputato dalle autorità romane, sia dal rapporto orale del centurione Giulio sia da quello scritto inviato in duplicato dalla Giudea; infine dalla ragione molto probabile che gli accusatori della Giudea non si presentarono a Roma (§§ 116, 570), e perciò al processo venne a mancare la spinta principale, dato che tutti gli altri elementi erano favorevoli all'imputato: l'insieme di queste ragioni non poteva portare che ad una assoluzione.
E così, nei primi mesi dell'anno 63, Paolo riacquistò piena libertà dopo cinque anni di custodia militaris, e ricominciò a pensare ai suoi antichi progetti di evangelizzazione dell'Occidente; ma nel biennio di permanenza a Roma egli era rimasto tutt'altro che inoperoso, e a noi spetta adesso il compito di investigare - per quanto è possibile - questa sua operosità svolta nei riguardi di Roma e di luoghi lontani da Roma.
604. Lo stato di custodia militaris, sebbene molto attenuata, doveva impedire a Paolo due cose principali, fra altre secondarie: il lavoro manuale, e le dispute pubbliche in sinagoghe o altrove. Vedemmo in più occasioni quanto Paolo tenesse alla sua indipendenza economica ed a mangiare il pane procuratosi col lavoro delle sue mani: tuttavia di questa sua norma ordinaria egli non era schiavo, e se la Provvidenza disponeva diversamente egli era anche capace di umiliarsi a ricevere soccorsi materiali ed a lasciarsi mantenere da altri. Tale fu il caso di Roma.
In quell'immenso alveare umano formato da quasi due milioni di persone d'ogni stirpe e condizione, appena una terza parte viveva di sostanze proprie, mentre la gran maggioranza non possedeva nulla e viveva appoggiandosi in una maniera o un'altra ai possidenti: da una parte stavano gli antichi patrizi con i nuovi arricchiti, dall'altra i clientes con i proletari e gli schiavi. Paolo divenne allora un cliens della carità cristiana: alle spese per l'affitto del suo alloggio e per il suo sostentamento provvidero in un primo tempo i fratelli di Roma, che lo ammiravano ed amavano già da quando avevano ricevuto la lettera ch'egli aveva inviata loro; più tardi vi provvidero i fratelli delle comunità da lui fondate in Oriente, i quali appena seppero della lunga detenzione sopportata a Roma dal maestro amatissimo si affrettarono ad inviargli aiuti: primi fra tutti i Filippesi (Filipp., 2, 25; 4, 14 segg.), e tra i Filippesi fu certamente prima la solita buona Lidia (§ § 382-383).
605. Assicurata così la vita materiale, Paolo si prodigò con più ardore che mai a quella spirituale. Il suo primo tentativo fu fatto anche a Roma con i Giudei e, come altrove, il risultato del convegno tenuto nell'alloggio di Paolo fu meno che mediocre (§ 602). Ma egli adesso non poteva frequentare le loro sinagoghe del Trastevere o d'altri quartieri, trascinandosi appresso il pretoriano di guardia a cui era legato dalla comune catena; avrà perciò tentato di agire sui suoi connazionali mediante altre adunanze tenute nel suo alloggio, ma riscontrata la loro irriducibilità si sarà man mano disinteressato di loro rivolgendosi ai pagani.
Ciò rese sempre più profondo il distacco che già si era formato in Roma fra giudaismo e cristianesimo; questo distacco non poteva non produrre fra i Giudei invidia contro i cristiani, che crescevano continuamente per numero e potenza, ed alla prima occasione l'invidia si sfogò in accuse ben precise. Infatti un trentennio più tardi Clemente Romano (1 Corint.) 5, 2-5) attribuisce a zelo ed invidia la morte di Pietro e Paolo, e più esattamente a zelo iniquo il martirio di Pietro e a zelo e contenzione quello di Paolo; egli non dice in realtà quale fosse la fonte di questo zelo, invidia e contenzione, ma poiché subito appresso descrive la persecuzione mossa da Nerone dopo l'incendio del 64 (§ 118), la fonte che si presenta come più naturale alla ricerca dello storico è il giudaismo romano, corrispondendo in tutto alle circostanze contemporanee. Questa rivalità era l'ultima conseguenza della ripulsa opposta dal giudaismo locale ad accettare la cittadinanza di quella Roma onde Cristo è Romano (§ 602).
606. Dopo i Giudei increduli Paolo dovette occuparsi dei Giudei credenti. Ai tempi della sua prigionia la comunità di Roma contava certamente assai più ex-pagani che ex-giudei (§ 513); d'altra parte non abbiamo alcun sentore, neppure dalla lettera ai Romani, che esistesse un vero pericolo dottrinale da parte dei giudaizzanti e che Paolo dovesse entrare in polemica con essi. Sennonché, ecco avvenire un fatto strano: l'incessante operosità svolta dall'incatenato Paolo rende ben presto il suo alloggio quasi il centro spirituale del cristianesimo romano, e per salutare epidemia induce parecchi altri ad imitarlo in questa diffusione della Buona Novella; ora, fra cotesti nuovi predicatori ve ne sono taluni i quali - come dice Paolo - per invidia e contenzione... annunziano il Cristo (Filipp., 1, 15); essi, cioè, non mirano tanto alla diffusione della Buona Novella quanto a far dispetto a Paolo alzandogli un contraltare: taluni per contenziosità predicano il Cristo, non sinceramente, credendo di suscitare tribolazione alle mie catene (ivi, 17). Chi sono questi predicatori malintenzionati?
Si sarà notato che le espressioni di Paolo... invidia... contenzione... sono quelle che già udimmo qui sopra impiegate da Clemente quando trattava dell'ambiente romano: non già che si riferiscano in ambedue i casi alle stesse persone, ma si possono ben riferire ad una disposizione di spirito abituale in un dato ceto di persone. È il ceto del giudaismo romano: Clemente allude a Giudei increduli, e Paolo allude ad alcuni fra i Giudei credenti. Costoro, benché cristiani, vedevano con rammarico la rapida preponderanza che Paolo acquistava in seno alla comunità, e non potevano tollerarla: essi non ammettevano che quel rivoluzionario nomade, dopo aver affrontato Pietro ad Antiochia e aver dato noie d'ogni genere a Giacomo «fratello» del Signore ed alla comunità-madre di Gerusalemme, venisse anche a Roma a far da padrone accentrando attorno a sé l'intera comunità. Si proposero quindi di mostrare con i fatti che si poteva ben essere diffusori della Buona Novella senza dipender da lui: si sarebbe forse spenta la fede nel Cristo, mancando Paolo?
607. Queste gelosie umane, in parte nazionalistiche e comunque meschine, non fecero impressione su Paolo. Da esse, in pratica, risultava un'ulteriore diffusione della Buona Novella; e ciò, prescindendo dalle intenzioni, bastava al prigioniero del Cristo. Il quale, perciò, rispondeva con tutta semplicità: Che (ne risulta), dunque? (Nulla), se non che in ogni modo, sia per pretesto sia per verità, Cristo è annunziato: e di ciò godo, anzi godrò pure (in avvenire) (ivi, 18). E tanto più egli se ne consolava in quanto, a fianco a questi predicatori per dispetto, erano sorti in forza del suo buon esempio anche predicatori per buona volontà (ivi, 15), i quali agivano per carità, sapendo che (io) sono collocato a difesa del vangelo (ivi, 16).
Personalmente Paolo predicava il Cristo a quanti capitavano dentro il suo raggio d'azione: perciò, in primo luogo, ai pretoriani che gli facevano la guardia: E come no? Quei soldati non erano forse anch'essi anime redente dal Cristo, e non valevano agli occhi del Cristo quanto l'imperatore di Roma o il sommo sacerdote di Gerusalemme? Ogni pochi giorni Paolo vedeva a suo fianco un soldato nuovo che, venendo dal Castro Pretorio e ricevendo le consegne dall'altro soldato che aveva finito la guardia, si fissava al polso la catena che lo legava a Paolo, e si preparava a restare 1egato con lui alcuni giorni: una volta poteva essere un Italico Cispadano, altre volte poteva presentarsi un nativo della Pannonia o del Norico o della Macedonia o della Galazia, a seconda del turno di servizio. In questo continuo avvicendamento Paolo vedeva una bella occasione per affermare la «cattolicità» del messaggio cristiano, e cercava di agire sul suo compagno di presenza e di sofferenza, attirandolo al Cristo. Avrà agito con la parola e con l'esempio, con intenzione e senza intenzione, con buon successo e con cattivo successo. Nei colloqui che Paolo aveva con i suoi visitatori il pretoriano di guardia avrà inevitabilmente assistito a lunghe dispute sulla Legge e sulla grazia, su Mosé e sul Cristo: talvolta egli avrà sonnecchiato annoiato, talvolta si sarà interessato incuriosito.
608. Negli intervalli tra una visita e l'altra Paolo avrà domandato al pretoriano notizie sul suo paese, che forse egli aveva percorso, sulla sua famiglia, sulla sua religione: e allora da sotto al rozzo soldato spuntava fuori l'uomo, che s'inteneriva a lontani ricordi, e riviveva un'ora della sua antica adolescenza a fianco a quello sconosciuto prigioniero, così comprensivo e così tenero. Sempre poi il pretoriano, vizioso e abbrutito che fosse, ammirava nel suo prigioniero l'uomo intemerato, dai costumi così puri che difficilmente si sarebbero ritrovati allora a Roma anche in una fanciulla dodicenne, pieno di premura per gli altri, dimentico di sé, sprezzatore del denaro.
Che razza d'uomo era costui? Certo ben differente da quegli uomini che dal Castro Pretorio e dal Palatino comandavano su Roma e su tutto il mondo! E perché mai faceva egli una vita così singolare, di cui nulla sfuggiva al pretoriano né di giorno né di notte? Di qui, domande del pretoriano incuriosito: alle quali rispondeva il prigioniero, parlando gli di un certo Cristo che era stato povero quanto il pretoriano a casa sua, eppure era più potente del prefetto del Pretorio e dell'imperatore del Palatino. Molte volte il dialogo rimaneva un semplice scambio di parole; molte altre diventava la cattura di un'anima. Misteri della grazia del Cristo.
609. Fatto sta che, prolungandosi questa comunanza di vita per molti mesi, se ne videro effetti sorprendenti: le catture di anime, di quelle anime umane nascoste sotto gli involucri di soldati viziosi ed abbrutiti, furono più numerose dei dialoghi rimasti semplici scambi di parole. Scrivendo ai Filippesi, Paolo poteva dar loro questa bella notizia: Voglio che sappiate, fratelli, che le mie cose si sono rivolte piuttosto a vantaggio del Vangelo, sì da diventare le mie catene palesi in Cristo in tutto il Pretorio e a tutti gli altri, e la maggior parte dei fratelli nel Signore, acquistata fiducia per le mie catene, ardiscono più abbondantemente parlare la parola d'Iddio senza timore (Filipp., 1, 12-14).
Il Pretorio a cui allude qui Paolo è, non tanto l'accampamento materiale del Castro Pretorio (§ 598), quanto i 12000 pretoriani ivi accasermati che si avvicendavano nel venire a fargli la guardia; passati dunque parecchi mesi di questo avvicendamento, in tutto il Pretorio più o meno si sapeva chi era Paolo e come fosse in catene per la causa del Cristo. Egli non pretende certo dire che tutti i pretoriani erano o già cristiani o disposti a diventar tali: egli afferma soltanto che la sua persona e la sua causa erano notorie fra quei soldati, e che questa notorietà si era rivolta non a discapito ma piuttosto a vantaggio del Vangelo, dunque, pur fra moltissimi ostili o indifferenti, vi saranno stati parecchi benevoli e anche taluni già conquistati. In relazione poi con questa penetrazione morale nel Pretorio, Paolo ci fa sapere che il suo esempio ha prodotto la salutare epidemia a cui già accennammo, inducendo molti fratelli ad imitarlo con buona intenzione od altri invece per invidia (§ 606).

610. Un'altra allusione di Paolo, preziosa ma troppo scarsa di luce, è contenuta nelle parole indirizzate ai Filippesi: Vi salutano tutti i santi (i cristiani di Roma), e specialmente quelli della casa di Cesare (Filipp., 4, 22). Non c'è dubbio che la casa di Cesare sia qui il palazzo imperiale del Palatino, ove perciò esistevano cristiani quando Paolo scriveva queste parole, ossia fra il 62 e il 63: ma quanti e quali fossero, non ci è possibile dire. E neppure è da presumere che questi cristiani del Palatino fossero tutti conquiste personali di Paolo, ché anzi un esame della lunga lista di saluti con cui si chiude la lettera ai Romani (§ 523) induce a supporre che tal uni dei cristiani ivi nominati fossero in relazione con la casa di Cesare già allora, ossia prima dell'arrivo di Paolo a Roma; non è escluso, tuttavia, che Paolo personalmente accrescesse il loro numero.
Secondo una notizia di Clemente Alessandrino (395) furono alcuni «cavalieri di Cesare» che invitarono Marco a mettere in scritto la catechesi di Pietro da essi ascoltata, ed accedendo a tale invito Marco scrisse il II vangelo appunto verso quel tempo. È molto probabile che i cristiani della casa di Cesare ricordati da Paolo fossero soltanto schiavi o liberti, giacché nei bassi ceti della società il cristianesimo fece le sue prime conquiste a Roma come altrove; i primi cristiani di alto grado sociale sono testimoniati con sicurezza a Roma soltanto più tardi, sotto gl'imperatori Flavii. Per i tempi precedenti abbiamo, sotto Nerone, la forte presunzione che fosse cristiana quella Pomponia Grecina, insignis femina e moglie del consolare Plauzio, che, a detta di Tacito (Annal., XIII, 32), fu sospettata di «superstizione straniera», ma sottoposta al tribunale di famiglia fu dichiarata innocente; tuttavia ciò avvenne nell'anno 58, e quindi prima dell'arrivo di Paolo.
611. Anche altri patrizi romani sono stati ritenuti cristiani (e qualcuno figura, insieme con Paolo, nel notissimo romanzo Quo Vadis?), ma più in forza di una generica possibilità che per sicure prove storiche. Già ricordammo la corrispondenza epistolare fra Seneca e Paolo (§ 53): indubbiamente è una falsificazione tardiva, provocata sia dalle superficiali rassomiglianze tra stoicismo e cristianesimo sia dalla contemporanea permanenza a Roma del filosofo e dell'apostolo; che i due si siano incontrati e parlati è certo possibile (si abbia presente che Paolo aveva conosciuto il fratello di Seneca, Gallione, che a quel tempo era a Roma: § 446 segg.), ma una vera influenza dell'apostolo sul filosofo non ci risulta. Ad ogni modo rimane sempre possibile e anche probabile che Paolo estendesse la sua attività anche fra il ceto patrizio; egli aveva facoltà di uscire dal suo alloggio e far visite in case private, accompagnato però dal pretoriano di guardia, e quindi poteva partecipare ad adunanze di fratelli tenute, specialmente nei primi tempi del cristianesimo romano, in quelle case patrizie che qualche fervoroso neofita concedeva a tale scopo.
Gli assistenti abituali di Paolo a noi noti in questa sua prigionia sono suoi, antichi collaboratori, alcuni dei quali venuti apposta a Roma da lontane regioni. Oltre ai compagni di navigazione e naufragio, Luca ed Aristarco (§ 577), ritroviamo con piacevole sorpresa a fianco a lui Marco il cugino di Barnaba (Coloss., 4, 10; Filem., 24), Il che mostra che l'antica alienazione d'animo (§ 370) si era dissipata senza lasciar tracce; è appunto la permanenza romana in cui Marco scrive il suo vangelo (§ 610). Non mancano al convegno degli affezionati il fedele Timoteo (Filipp., 1, 1; Coloss. 1, 1), e quel Tichico (Efes., 6, 21; Coloss., 4, 7) che aveva accompagnato Paolo in un tratto del suo terzo viaggio (§ 525). Sono pure nominati un «Gesù detto Giusto» di cui sappiamo soltanto che era di stirpe giudaica (Coloss., 4, 11), e un Dema il quale sembra che non fosse giudeo (Coloss., 4, 14; Filem., 24); quest'ultimo, più tardi, abbandonò Paolo ritirandosi a Tessalonica, e fece ciò amando il presente secolo (2 Timot., 4, 10): probabilmente fu un apostata.
Vennero apposta a Roma, per visitare il prigioniero, Epafrodito da Filippi (§ 384) ed Epafra da Colossi (§ 461), di cui riparleremo.
612. Costoro ci vengono menzionati occasionalmente, ma senza dubbio non furono tutti gli assistenti di Paolo prigioniero. Inoltre, più che assistenti di conforto, essi devono esser considerati come collaboratori di apostolato, perché Paolo non era certo l'uomo che elemosinava compianto o commiserazione: nel suo fervore di evangelizzazione aveva bisogno di collaboratori per arrivare in Roma là dove le sue catene glielo impedivano, come pure i visitatori venuti a recargli l'attestato affettuoso di lontane comunità erano da lui incaricati di varie incombenze per il viaggio di ritorno, sempre a scopo di apostolato. Per lui vivere (era) Cristo (Filipp., 1, 21), e chi gli stava a veniva a fianco era travolto in questa sua vita: chi invece proponeva alla propria vita un'altra meta, finiva per abbandonarlo come fece Dema.
Ma la sua visione perenne del Cristo non lo distraeva affatto dalla vita pratica, bensì lo dirigeva e ispirava anche negli avvenimenti più umili e volgari. Ne abbiamo un caso tipico, conservatoci provvidenzialmente.
613. LA LETTERA A FILEMONE. Un giorno, quando Paolo era prigioniero da molti mesi, si presentò al suo alloggio un uomo dall'aspetto strano: vestito poveramente e in foggia orientale, sembrava uno schiavo al pari di tanti altri che capitava no da Paolo; parlava male il greco, e con l'accento particolare ai Frigi; dippiù, aveva un contegno circospetto, ombroso, quasicché temesse d'ognuno che incontrava. Ammesso dentro casa, ebbe quasi un sussulto quando si trovò di fronte al pretori ano che faceva la guardia a Paolo e che in quel momento, stando in posto chiuso, aveva staccata la catena che lo legava al prigioniero. Paolo, alle prime parole, capì l'impaccio del visitatore e la condusse in un'altra stanza perché gli parlasse da solo a solo con franchezza. Quello che i due si dissero non ci è riferito a parola, ma si può estrarre facilmente dal risultato del colloquio (i critici romanzeschi che si permettono tante ricostruzioni contrastanti con i documenti, permetteranno questa piccola ricostruzione che si basa sullo scritto autentico del principale interlocutore). Paolo dunque dice al visitatore:
- Chi sei? Come ti chiami?
- Mi chiamo Onesimo.
Paolo ha un paterno sorriso:
- Ah! sei uno schiavo, dunque!...
«Onesimo», infatti, significa in greco «Giovevole»; e agli schiavi si mettevano volentieri siffatti nomi espressivi, come oggi ad un cane si metterebbe il nome di «Fido».
- Sì, sono schiavo e appartengo ad un uomo che tu conosci. Io sono della Frigia, sto a Colossi e il mio padrone è Filemone, quello che tu convertisti alla tua religione (§ 461).
- Lo conosco benissimo, e mi è assai affezionato. Mi porti qualche sua lettera? Ti ha inviato lui da me?
- Oh! tutt'altro!… Sono fuggito da casa sua ... perché ... perché ho rubato... - Fu un momento di pazzia, lo riconosco, anche perché egli mi trattava bene... Ma oramai che posso fare?... Dopo il furto e la fuga... se mi prendono, tu sai quello che mi aspetta: con un ferro rovente mi bollano sulla fronte un grande F, per far sapere a tutti che sono un Fugitivus (§ 345), e poi mi mandano in un ergastulum o ad metalla a lavorar come una bestia fino alla morte (396)... Certo la polizia è stata avvertita da Filemone e mi sta ricercando... sono venuto perciò a Roma dove vengono tutti, specialmente quelli nelle mie condizioni. Ma mi sono accorto di essermi messo in un pericolo maggiore: proprio pochi giorni fa ho visto sfilare per le strade di Roma i 400 schiavi di Pedanio Secondo, prefetto della città, portati tutti alla morte perché uno solo di essi aveva ucciso il padrone (397) ... Da quel giorno m'aspetto di esser preso anch'io da un momento all'altro... Non reggo più, sono stanco: da mesi e mesi sempre fuggiasco come una belva inseguita, senza casa, senza pane, senza... una buona parola mai... mai... (qui uno scoppio di pianto)... perciò sono venuto da te...
- Hai fatto bene. Ma come hai saputo che io sono a Roma?
- Pochi giorni fa ho incontrato un amico tuo e del mio padrone, quell'Epafra di Colossi che segue anch'egli la tua religione (§ 461). Laggiù a Colossi egli è stato sempre tanto buono con me; al vederlo, non potendone più, mi sono sfogato con lui e gli ho detto in sostanza quello che ho detto a te... egli mi ha consigliato di venire da te, assicurandomi che verrà anch'egli a parlarti...
- Bene, bene... infatti Epafra sta a Roma da molte settimane, e mi ha portato da Colossi notizie dei nostri fratelli di laggiù... Su dunque! Sta' di buon animo: adesso studieremo il modo di riparare al malfatto e di salvarti. È tanto buono il tuo padrone... eppoi è cristiano... Tu, povero Onesino, non sai che cosa vuol dire esser cristiano!…
614. Per quel giorno la cosa finì lì. Onesimo cenò insieme con Paolo; la notte dormì su un giaciglio preparatogli alla meglio in un cantuccio della stanza di Paolo; la mattina appresso si alzò rinfrancato, e non ebbe più tanta paura del pretoriano di guardia. Poche ore dopo venne Epafra, con cui Paolo parlò a lungo da solo; poi i due chiamarono Onesimo e gli comunicarono ciò che avevano stabilito di fare per aiutarlo.
Onesimo sarebbe rimasto lì nell'alloggio di Paolo a prestargli qualche piccolo servigio, come se fosse stato suo schiavo; quanto al suo vero padrone, Filemone, Paolo avrebbe provveduto scrivendogli che gli cedesse Onesimo. La cessione era più che sicura, dato l'affetto che Filemone aveva per Paolo: anche Epafra, che era amico di ambedue, poteva eventualmente garantirla ed attestarla davanti alle autorità. Quindi Onesimo stesse pur tranquillo, perché oramai nessuno più l'avrebbe disturbato; egli però si ricordasse che tutti e tre, Paolo, Filemone ed Epafra, facevano a lui ciò per amore del Cristo.
All'udire questa decisione, Onesimo restò come trasognato. Si guardò poi attorno, e domandò dove poteva incontrarsi con questo Cristo, capo della loro religione, per parlargli e ringraziarlo. Paolo, sorridendo, rispose che avrebbe veduto il Cristo lì, a casa sua.
Passate poche settimane, Onesimo era diventato cristiano. Ascoltando egli giorno e notte Paolo che parlava del Cristo ai suoi innumerevoli visitatori, e molto più considerando come Paolo vivesse totalmente dimentico di sé e totalmente immerso nel suo Cristo, anch'egli vide il Cristo con gli occhi dello spirito, se non con quelli del corpo, e volle esser seguace di lui: e così padrone e schiavo furono livellati nel Cristo.
615. Rimaneva però l'antico padrone, Filemone, a cui Paolo non aveva scritto non essendosi ancora offerta l'occasione. Ma un'occasione si avvicinava rapidamente: Epafra, che era venuto apposta da Colossi, non poteva ancora ripartire da Roma, ma in sua vece sarebbe partito Tichico (§ 60:) con varie commissioni per l'Asia proconsolare e con una lettera per la comunità di Colossi; egli, dunque, avrebbe portato anche la lettera per Filemone. Tuttavia, quando la partenza fu imminente, Paolo ripensò a tutto l'affare, e trovò che la decisione presa era stata giusta finché Onesimo si trovava fuori della spirituale famiglia cristiana ed affidata alle leggi umane, ma aveva cessato di esser giusta allorché egli era diventato fratello nel Cristo e affidato alla divina legge della carità. Consultatosi quindi con Epafra, decise di far partire Onesimo insieme con Tichico e così rinviarlo a Filemone, da cui sarebbe stato trattato come adesso era trattato da Paolo.
Secondo questa nuova soluzione, egli scrisse a Filemone una breve lettera, proprio un biglietto. La letterina, giudicata concordemente un piccolo gioiello letterario, contiene anche nella sua brevità i principii per la soluzione di gravi questioni sociali alla luce della morale cristiana, e in primo luogo della schiavitù, l'arduo problema che il paganesimo lasciava da risolvere al cristianesimo (§ 50). Ecco la letterina, e sembra certo che Paolo la scrivesse tutta di sua mano lavorandovi un po' più di quattro ore (§§ 177, 180):
616. Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timoteo, a Filemone diletto e cooperatore nostro, ed alla sorella Appia, e ad Archippo commilitone nostro, ed alla chiesa che (è) in casa tua (§ 461): grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.
Ringrazio il Dio mio sempre facendo di te memoria nelle mie orazioni, udendo l'amore e la fede che hai verso il Signore Gesù e per tutti i santi (= cristiani), affinché la comunanza della tua fede divenga efficace nella piena cognizione (***) di tutto il bene che (è) in voi, in (onore di) Cristo. Allegrezza grande, infatti, ebbi e consolazione per l'amore tuo, perché le viscere (=intimo) dei santi ricevettero requie per te, fratello.
Perciò, pur avendo molta franchezza in Cristo per comandarti ciò ch'è opportuno, piuttosto ti esorto per amore, tale quale sono Paolo vecchio, ed ora anche prigioniero di Cristo Gesù: ti esorto a riguardo del mio figlio - che generai nelle catene - Onesimo, quello una volta a te disutile ed ora a te ed a me ben utile; te l'ho rimandato, (proprio) lui, ossia le mie viscere. Lui io volevo trattenere presso di me, affinché in pro tuo servisse a me nelle catene del vangelo; tuttavia, senza la tua cognizione, nulla volli fare, affinché il tuo beneficio non (fosse) quasi per necessità bensì per spontaneità. Giacché forse per questo li separò (da te) per breve tempo, affinché (tu) lo ricuperassi in eterno, non più come schiavo, ma meglio che schiavo (come) fratello diletto: (diletto) sommamente a me, e quanto più a te e nella carne e nel Signore! Se dunque mi hai per collega, accoglilo come me (stesso). Ché se ti fece ingiustizia o è debitore, metti ciò: a conto mio. Io Paolo ho scritto di mia mano: pagherò io! Senza che ti dica che mi devi per giunta anche te stesso! Sì, fratello, che io tragga giovamento da te nel Signore: dà requie alle mie viscere in Cristo!
Confidando nella tua obbedienza ti ho scritto, sapendo che farai anche più di quel che dico. Ma insieme preparami anche ospitalità, giacché spero che mediante le vostre orazioni (io stesso) vi sarò dato in dono.
Ti saluta Epafra, il mio compagno di prigionia in Cristo Gesù, Marco, Aristarco, Dema e Luca, i miei coadiutori.
La grazia del Signore Gesù Cristo col vostro spirito! Amen.
617. Si sarà notata la lepidezza a cui più volte indulge Paolo in questo scrittarello di intima familiarità cristiana, di tono ben diverso dalla solenne epistola ai Romani e dalla rovente polemica della 2 Corinti.
Alludendo al significato di «Onesimo», egli ricorda che chi portava quel nome era stato disutile al suo antico padrone, ma subito appresso soggiunge che adesso egli è utile all'antico e al nuovo; così pure, impiegando la stessa radice greca del nome «Onesimo», egli esprime la speranza di trarre giovamento (***) dall'antico padrone di «Giovevole». Costui fuggì, è vero, dall'antico padrone; ma ciò fu un bene, perché adesso egli ritorna a lui come buon fratello cristiano. Ha egli rubato? deve restituire? Benissimo: Paolo salderà tutti i conti di lui; perciò a questo punto egli finge di sottoscrivere la propria garanzia, apponendo in calce la sua firma autografa. Ma, appena ha messo questa firma, cambia tono, e quasi battendo la mano sulla spalla al creditore, gli ricorda che Filemone deve se stesso a Paolo, perché Paolo lo ha fatto cristiano. Insinua poi un suggerimento, ma in maniera velata e delicatissima, aspettandosi di esser capito a volo da chi capiva il linguaggio della carità: Filemone farà indubbiamente anche più di quanto Paolo gli dice. Che è ciò, se non un suggerimento di dare la libertà ufficiale allo schiavo diventato fratello?
Infine Paolo invita Filemone a preparargli l'alloggio per la sua venuta: il che ci fa supporre che la letterina fu scritta quando il processo stava per chiudersi, e Paolo prevedeva prossima la propria liberazione e un suo viaggio a Colossi.
618. L'antichità ci ha conservato qualche altro esempio di lettere in cui pagani (Plinio il Giovane a Sabiniano) o cristiani (papiri) intercedono in favore di schiavi fuggitivi o simili: ma nessuna raggiunge il valore morale e la finezza della letterina a Filemone. E che essa riscotesse subito particolare venerazione, ce lo dimostra il fatto che si è conservata; mentre sono andate perdute altre lettere di Paolo - ad es. quelle ai Corinti (§ § 474, 491), quella ai Laodicesi (Coloss., 4, 16), e forse una ai Filippesi (Filipp., 3, I; cfr. § 463, nota) - sebbene trattassero certamente di argomenti dottrinali e disciplinari, questo biglietto familiare ha sfidato invece i secoli giungendo fino a noi. Ciò dimostra che fin dal principio il biglietto passò di mano in mano e fu largamente ricopiato, ritrovandovi tutti oltre all'abituale cordialità di Paolo anche una certa freschezza gioconda che non appare in altri suoi scritti.
619. LA LETTERA AI COLOSSESI E QUELLA AGLI EFESL Quando, poco dopo, Tichico partì da Roma accompagnato da Onesimo portava con sé, oltre al biglietto per Filemone, almeno altre due lettere, una indirizzata ai Colossesi (Coloss., 4, 7) e una agli Efesi (Efes., 6, 21), scritte da Paolo con brevissimo intervallo di tempo fra loro: quella ai Colossesi, insieme col biglietto a Filemone, dovette precedere di poco l'altra.
Scrivendo a Colossi, ove Paolo non era mai stato (§ 461), egli teneva presenti le notizie che Epafra gli aveva recate a Roma riguardo a quella comunità, e certamente anche riguardo all'altra di Laodicea collegata per varie ragioni con quella di Colossi. I fratelli di quelle regioni si conservavano fervorosi per fede e carità, tuttavia da qualche tempo mostravano una preoccupante inclinazione a speculazioni teosofiche, che sviluppate ulteriormente avrebbero finito per distornarli dalla fede cristiana. Dalle ammonizioni che Paolo fa in proposito, non è possibile ricavare un sistema dottrinale a cui quelle speculazioni s'ispirassero, seppure esisteva un vero sistema di tal genere ben delineato e compiuto. Pare certo, invece, che l'abitudine invalsa a Colossi risentisse di una doppia circostanza: in primo luogo i Frigi, anche pagani, avevano avuto sempre una spiccata propensione a teorie illuministiche d'indole sincretistica; inoltre, questa vecchia propensione era stata favorita dall'operosità di dottori che su quei neofiti avevano particolare autorità ed efficacia, perché Giudei.
Certamente la gran maggioranza dei cristiani Frigi proveniva dal paganesimo e non dal giudaismo; tuttavia in quelle regioni i Giudei erano numerosi, perché più di due secoli prima 2000 famiglie giudaiche erano state trasferite in Lidia e Frigia, ove si erano ampiamente moltiplicate (Flavio Gius., Antichità giud., XII, 147-153). Dottori di quei centri giudaici, vedendo sorgere a fianco a loro quelle comunità cristiane, si erano insinuati in mezzo ad esse importandovi idee particolari al loro giudaismo: il quale non era il rigido e chiuso giudaismo delle scuole farisaiche di Gerusalemme, ma una forma più libera, permeata di concetti filosofici e teosofici, e soprattutto ricca di quelle lussureggianti speculazioni su esseri angelici che si ritrovano in scritti del giudaismo tardivo.
620. Possiamo dire, genericamente, che quei cristiani Frigi amavano scrutare i rapporti fra Dio e mondo, fra spirito e materia, scorgendo disseminate in tutto l'universo schiere di mediatori angelici differenti per natura e potenza, che servivano da scala di comunicazione tra il visibile e l'invisibile, tra l'umano e il divino. È probabile che il complesso di questo mondo angelico avesse già trovato il suo termine tecnico presso i Colossesi, e fosse designato come la «Pienezza», il Plèroma (***): vediamo infatti che Paolo impiega questo termine senza sentire il bisognò di aggiungervi alcuna spiegazione, sebbene altrove lo impieghi in altri sensi secondo l'accezione comune della parola; ma Paolo, pur ricevendo il termine dai suoi neofiti, ne corregge l'uso soprattutto nella sua applicazione alla cristologia.
I neofiti di Colossi, infatti, non si contentavano di speculare su quel mondo angelico in se stesso; ma ricordandosi sempre di esser cristiani scrutavano anche in quale rapporto, quel mondo stesse col Cristo Gesù in cui credevano; forse essi personalmente erano propensi a ritenere che il Cristo Gesù era superiore a tutta la Pienezza angelica, ma qui è da scorgersi l'intervento dei dottori giudei che dovettero suscitare in loro dei dubbi in proposito. Il Cristo Gesù poteva essere superiore ad alcune schiere angeliche meno nobili ed eccelse, ma non a tutte, e tanto meno a quelle nobilissime dei Troni, delle Dominazioni, dei Principati, delle Potestà; egli era, sì, anteriore a tutte le creature visibili, ma non a tutte le creature indistintamente comprese le invisibili, altrimenti sarebbe stato un'immagine di Jahvè, il Dio invisibile.
Dati più precisi sulle idee o dubbi dei Colossesi non abbiamo, ma già in questi elementi si riconoscono alcuni tratti di quelli che nei secoli II e III furono i grandi sistemi della Gnosi; sarebbe tuttavia un metodo ben fallace attribuire ai cristiani Frigi i precisi concetti dei successivi sistemi gnostici, e tanto più assegnare ad alcuni termini, impiegati da essi o da Paolo nella sua risposta i significati tecnici che assunsero più tardi nelle sottili elucubrazioni gnostiche. Con gli elementi speculativi erano poi congiunte norme pratiche, riguardanti osservanze ascetiche e prescrizioni legali giudaiche.

621. Ecco la lettera che Paolo scrisse ai COLOSSESI per ovviare a tali speculazioni.
Il titolo menziona, dopo Paolo, anche Timoteo; l'esordio contiene un ampio «encomio» dei Colossesi per le loro virtù, e menziona Epafra (I, 1-8).
Paolo prega sempre per i Colossesi, affinché siano pieni di una scienza perfetta, della volontà di Dio in ogni sapienza e intelligenza spirituale e si comportino in maniera corrispondente, ringraziando il Padre che li trasse dalla potestà della tenebra e li trasferì nel regno del suo Figlio. Questi è immagine d'Iddio l'invisibile, primogenito (398) d'ogni creatura, perché in lui furono create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, le visibili e le invisibili, sia Troni, sia Dominazioni, sia Principati, sia Potestà: tutte le cose mediante lui e per lui sono state create. Ed egli è prima di tutte le cose, e tutte le cose in lui sussistono. Egli pure è il capo del corpo, (ossia) della Chiesa, ed egli è principio, primogenito dai morti, affinché sia in tutte le cose egli (il) primeggiante: poiché si compiacque (il Padre) che in lui tutta la pienezza (***) (399) abitasse, e (si compiacque) mediante lui di riconciliare tutte le cose in lui, pacificando mediante il sangue della croce di lui, mediante lui, sia le cose sulla terra sia le cose nei cieli (I, 15-20).
Così Colossesi, un tempo alienati per le loro opere cattive, adesso sono riconciliati per la morte del Figlio divino, purché perseverino nella fede del vangelo di cui Paolo è ministro. Soffrendo per loro, Paolo gioisce, perché così egli compie ciò che manca ai patimenti del Cristo in pro del corpo di lui, che è la Chiesa: egli, infatti, è ministro del mistero occultato ai secoli ed alle generazioni, ma che adesso è stato svelato ai santi (I, 26), e per diffondere la conoscenza di tale mistero fra i Gentili Paolo lotta con l'energia che gli dà il Cristo. Passana i Colossesi e i Laodicesi, che non conoscono Paolo di faccia, essere in virtù delle fatiche di lui sempre più confortati nei loro cuori onde penetrare nella piena cognizione del mistero d'Iddio, di Cristo (I, 9-2, 3).
622. Non si lascino sedurre da ragionamenti capziosi (***), ma si attengono alla dottrina riguardante Cristo Gesù nella quale furono istruiti. Badate che non vi sia taluno che faccia preda di voi mediante la filosofia e vano inganno secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo (§ 509, nota prima), e non secondo Cristo. Perché in lui inabita tutta la Pienezza della Divinità corporalmente, e siete riempiti in lui, che è il capo di ogni Principato e Potestà (2, 8-10). In Cristo essi furono spiritualmente circoncisi, e consepolti con lui nel battesimo risorsero poi con lui; Dio cancellò il chirografo (§ 234) della nostra condanna inchiodandolo sulla croce, e debellò le forze spirituali avverse. Nessuno quindi infastidisca i Colossesi con prescrizioni di cibi e bevande, o con osservanze di feste, di noviluni e di sabbati: coteste istituzioni antiche erano un'ombra delle cose future, ma la realtà era Cristo; non si lascino illudere da chi affetti umiltà e culto agli angeli, fidandosi di sue particolari fantasticherie ma non trovandosi ricollegato con Cristo, che è la testa di tutto il corpo mistico. Se essi morirono insieme con Cristo agli elementi del mondo, perché dovrebbero dare ascolto - quasi fossero ancora viventi nel mondo - a proibizioni a imposizioni di superstizione umana? Chi propone tali osservanze, affettando sapienza ed ascetismo, mira alla soddisfazione della carne (2, 4-23).
623. I Colossesi, risuscitati con Cristo, ricerchino le cose dell'alto, dove è il Cristo sedente alla destra d'Iddio, non le cose della terra; essi morirono e la loro vita è nascosta col Cristo in Dio, e quando Cristo apparirà anch'essi appariranno in gloria. Diano morte nelle loro membra a tutti i vizi, spogliandosi dell'uomo vecchio e rivestendosi di quello nuovo a somiglianza di chi lo creò: ove non esiste Greco e Giudeo, circoncisione e incirconcisione, Barbaro, Scita, schiavo, libero, bensì tutte le cose e in tutti (è) Cristo (3, 11).
Si rivestano di tutte le virtù, e specialmente della carità: ne avranno pace, letizia, intimità con Dio. Le mogli siano soggette ai mariti; i mariti siano affettuosi e benigni con le loro mogli; i figli obbediscano ai genitori e questi non inaspriscano i figli. Gli schiavi obbediscano ai padroni con sincerità e semplicità, mirando ad onorar,e il Signore, e il Signore li compenserà; i padroni siano giusti ed equi con gli schiavi, ricordandosi di avere anch'essi un padrone in cielo. Seguono brevi raccomandazioni: di insistere nell'orazione, pregando anche per Paolo affinché Dio lo assista nell'annunziare il mistero del Cristo, per il quale anche sono incatenato; di esser prudenti nel parlare con estranei (3, 1-4, 6).
Altre notizie e ammonizioni saranno date a voce da Tichico, che Paolo , invia apposta insieme con Onesimo, il caro e diletto fratello che è dei vostri (§ 615 segg.). Trasmette i saluti di Aristarco, di Marco cugino di Barnaba, di Gesù detto Giusto, che sono attualmente i soli cooperatori di Paolo provenienti dal giudaismo. Li saluta anche Epafra, che molto prega e s'adopera per le comunità di Colossi, Laodicea e Jerapoli; saluti anche da Luca, il caro medico, e da Dema. Salutate i fratelli in Laodicea, e Ninfa e la chiesa in casa di lui (§ 461). E quando sia stata letta presso di voi (questa) lettera, fate che sia letta pure nella chiesa dei Laodicesi, e che pure voi leggiate quella da Laodicea.
La breve chiusura è autografa: Il saluto di mano mia, di Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia, con voi! (4, 7-18).
624. Come già dicemmo, Tichico partì da Roma portando con sé. oltre a questa lettera ai Colossesi, anche l'altra oggi nota come indirizzata agli Efesi (§ 619); per raggiungere infatti Colossi, egli normalmente doveva passare per Efeso sbarcandovi. Ma, venendo ora all'esame di questa lettera, sorge la questione dei veri destinatari di essa.
A una prima lettura si scorge subito la stretta affinità di forma e di contenuto che ricollega questa lettera con quella ai Colossesi, e che è anche maggiore dell'affinità ricollegante la lettera ai Romani con quella ai Galati (§ 505); la ripartizione generale degli argomenti è la stessa in Colossesi ed Efesi, uguali anche gli argomenti, che però in Efesi sono trattati un poco più ampiamente. A parte ciò, la lettera agli Efesi ha un carattere assolutamente generico, senza alcun dato che la indirizzi particolarmente a lettori di quella città piuttosto che di un'altra, cosicché - stando a quanto risulta a noi oggi - essa avrebbe potuto esser letta con lo stesso risultato anche dai cristiani di Laodicea, di Jerapoli, di Mileto, o di altri centri dell'Asia proconsolare (§ 12 segg.), come da quelli di Efeso. I saluti personali mancano del tutto, sebbene ad Efeso Paolo avesse dimorato tanto tempo e fosse conosciutissimo anche dai non cristiani (§ 469): proprio; il contrario della lettera ai Romani che ha la lunga lista di saluti (§ 523), sebbene Paolo in quel tempo non fosse mai stato a Roma.
L'unica testimonianza in favore di Efeso starebbe nell'iscrizione della lettera, ma è lontana dall'essere una testimonianza sicura; nelle edizioni comuni, infatti, la lettera comincia: Paolo apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio ai santi che sono in Efeso... ma l'inciso in Efeso è richiamato in dubbio nelle edizioni critiche ed è senz'altro respinto da parecchi studiosi di ogni tendenza: Le ragioni, oltre a quella testé vista del carattere impersonale della lettera, sono che l'inciso manca nei due codici unciali più antichi, Vaticano e Sinaitico (del sec. IV), in qualche altro minuscolo, ed era ignoto ad antichi scrittori quali Origene, Basilio e forse altri; inoltre, per attestazione di Tertulliano (Adv. Marcion., V, II, 17), Marcione accettava nel suo canone questa lettera ma come indirizzata ai Laodicesi, non già agli Efesi. Come spiegare l'insieme di questi fatti?
625. Si è tentato di rispondere in più d'una maniera.
Alcuni hanno pensato che lo scritto fosse una vera lettera circolare indirizzata a più comunità insieme, in maniera tale che se ne sarebbero fatte varie copie lasciando però nell'iscrizione un piccolo spazio vuoto, ov'è l'inciso in Efeso; questo spazio poi sarebbe stato colmato volta per volta aggiungendovi il nome della comunità a cui ogni copia veniva effettivamente consegnata: ad esempio, ai santi che sono in Efeso, oppure in Jerapoli..., oppure in Laodicea..., e così di seguito.
Altri ha pensato che questa fosse la lettera indirizzata a Laodicea, di cui Paolo parla in fondo alla lettera ai Colossesi, come abbiamo visto (§ 623). Se poi nei codici la destinazione in Laodicea fu sostituita con l'altra in Efeso, si è supposto che ciò avvenisse per effetto quasi di una damnatio memoriae, in conseguenza cioè dei gravissimi rimproveri che la chiesa di Laodicea per la sua decadenza ricevette più tardi nell'Apocalisse (3, 14-19): al posto del nome infamato sarebbe stato sostituito il nome della chiesa metropolitana di quelle regioni, ossia Efeso.
Qualche altra spiegazione non ha trovato seguaci.
D'altra parte è certo che, non solo la grande maggioranza dei codici offre l'inciso in Efeso, ma anche la tradizione ecclesiastica attestata fin dai primi anni del sec. II (cfr. Ignazio, Efesi, 12, 2) ha considerato la lettera come diretta agli Efesi, e ciò avviene anche da parte di scrittori (Origene, Tertulliano, Basilio, ecc.), che non leggevano nell'iscrizione l'inciso in Efeso. Questo fatto ha il suo peso, che non deve esser diminuito.
Certamente hanno il loro peso le osservazioni fatte in contrario: tutto sta, quindi, a vedere se queste osservazioni prevalgano sulla tradizione, e se siano legittime le conclusioni che se ne sono estratte.
626. È certo, intanto, che a tutta l'antichità pagana e cristiana è ignoto il metodo della lettera circolare con lo spazio in bianco, da colmarsi a seconda del differente destinatario. Chi ha pensato a questo metodo, ha supposto che gli usi delle odierne case commerciali fossero già seguiti ai tempi di Paolo: cosa molto ingenua.
La soluzione che suppone la lettera essere stata indirizzata a Laodicea è più speciosa che soda: essa non spiega quale autorità potesse ordinare quella damnatio memoriae, e come potesse farla eseguire tanto puntualmente da sfuggirle solo la testimonianza di Marcione, tanto più che nel sec. II la chiesa di Laodicea si era rialzata dalla sua decadenza e quindi fin da allora poteva far ben valere i suoi diritti restituendo il proprio nome sui codici. Inoltre la comunità di Colossi era personalmente ignota a Paolo quanto quella di Laodicea (§ 461), eppure vedemmo che nella lettera ai Colossesi non mancano le note personali e i saluti, che invece mancano in quella agli Efesi (se questa fosse stata indirizzata originariamente ai Laodicesi). Così pure vedemmo che Paolo raccomanda ai Colossesi di scambiare la sua lettera con quella ai Laodicesi (§ 623); ma, nella presente ipotesi, la raccomandazione di Paolo non avrebbe serio motivo, giacché le due lettere sono somigliantissime (§ 624) e chi ha letto l'una ha letto in sostanza anche l'altra.
627. Avendo quindi presente l'indubitabile carattere impersonale della lettera, esso si può spiegare con la mira che aveva Paolo di indirizzarsi, più che alla sola comunità di Efeso, a tutte le comunità dell'Asia proconsolare facenti capo ad Efeso, senza che con ciò egli scrivesse una vera lettera circolare. Nell'imminenza della partenza di Tichico, Paolo volle inviare a tutte quelle comunità le ammonizioni che già aveva scritte poco prima nella lettera preparata per i Colossesi: riprese, quindi, e sviluppò alquanto i concetti di questa lettera (come aveva fatto nella lettera ai Romani in confronto con quella ai Galati: § 505), ma tralasciando le note personali sia del mittente sia dei destinatari. Le notizie personali del mittente le avrebbe comunicate a voce Tichico, espressamente incaricato di ciò (Efes., 6, 21-22) e forse anche dei saluti a personaggi più insigni: così il fondo comune della lettera sarebbe stato reso più aderente ed appropriato alle singole comunità dalle aggiunte orali che Tichico vi avrebbe fatte. Ad ogni modo la comune lettera fu indirizzata ad Efeso, centro d'irradiazione per tutta l'Asia proconsolare. È vero che l'identico incarico orale, espresso con parole quasi uguali, aveva Tichico anche per i Colossesi (Coloss., 4; 7-9): ma per i Colossesi c'era anche il caso di Onesimo, ivi espressamente nominato.
È anche possibile che la lettera ai Colossesi, di poco anteriore, fosse scritta quando Paolo ancora non pensava di scrivere l'altra: avvicinandosi poi la partenza di Tichico, Paolo stimò opportuno mandare un suo scritto anche a tutte le comunità dell'Asia proconsolare, e allora dettò la lettera agli Efesi ricalcata precisamente sulla trama di quella ai Colossesi.
In questa ipotesi avremmo una lettera collettiva, ma non «circolare» nel senso suddetto; quanto all'antica mancanza dell'inciso in Efeso, essa si spiegherebbe col fatto che qualche comunità diversa da quella di Efeso, ricopiando la lettera dall'originale portato da Tichico, omise l'inciso non ritenendolo ancora opportuno dopo quella consegna individuale: altre comunità, invece; ricopiarono l'originale integralmente, e da queste copie dipende la grande maggioranza dei codici che ha l'inciso.
628. Ecco un riassunto schematico della lettera agli EFESI (cfr. la lettera ai Colossesi: § 621 segg.):
Parte prima. - Lode a Dio Padre che ci ha eletti prima della costituzione del mondo per essere figli adottivi in virtù della grazia di Cristo, nel quale sono ricapitolate (***) tutte le cose celesti e terrestri. Per la fede, i cristiani hanno ricevuto lo Spirito santo. Perciò comprendano il mistero della salvezza operata in loro dal Cristo che siede alla destra di Dio Padre nei cieli sopra ad ogni Principato e Potestà e Virtù e Dominazione; e ad ogni nome pronunziato non solo in questo secolo ma anche nel venturo (1, 21); egli inoltre è il capo della Chiesa, la quale è il corpo di lui. Nella Chiesa sono fusi insieme Gentili e Giudei, uniti dalla grazia di Cristo: il muro di separazione fra i due gruppi, cioè la Legge ebraica, è stato abbattuto dalla morte redentrice di Cristo, e tutti adesso fanno parte dell'edificio spirituale basato sul fondamento degli apostoli e dei profeti, con la pietra angolare di Cristo. Di questo mistero è banditore Paolo, adesso prigioniero; egli ne possiede pure una conoscenza più profonda per particolare rivelazione (3, 2 segg.); perciò prega Dio che rinvigorisca nei fedeli l'uomo interiore (Capp. 1-3).
Parte seconda. - Conservino i fedeli l'unità dello spirito nel vincolo della pace: un solo corpo, un solo Spirito... , una sola speranza..., un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti (4, 3-6). Norme riguardo ai carismi (cfr.. § 211 segg.). Ammonizioni a non imitare costumanze pagane, ed a spogliarsi dell'uomo vecchio per rivestirsi dell'uomo nuovo. Elenco di vizi da fuggire e di virtù da praticare: Doveri dei coniugi, dei figli, dei genitori, degli schiavi e dei padroni (4-6, 9).
Il cristiano è un guerriero spirituale che combatte, non già contro sangue e carne, ma contro i Principati, contro le Potestà, contro i Dominatori cosmici di questa tenebra, contro gli (esseri) spirituali malvagi (che stanno) - nelle (sfere) celestiali (6, 12; Cfr. 2, 2); perciò si rivesta di una completa armatura, prendendo la cintura della verità, la corazza della giustizia, i calzari della prontezza, lo scudo della fede, l'elmo della salute e la spada dello Spirito (§ 233).
Tichico darà notizie personali di Paolo. Auguri generici (6, 10-24).
629. LA LETTERA AI FILIPPESI. Partito che fu Tichico con queste lettere, rimaneva a fianco a Paolo un altro visitatore ch'era venuto da lontano ad assisterlo, e che invece ebbe egli stesso gran bisogno di essere assistito da Paolo: era Epafrodito, venuto da Filippi a portare al prigioniero del Cristo i soccorsi materiali inviatigli dai suoi cari figli di laggiù (§ 604). Sennonché, durante la sua permanenza a Roma, Epafrodito fu colto da una gravissima malattia sulla quale non si è comunicato alcun particolare. (Qualche studioso straniero, che forse non ha mai visitato Roma, ha pensato senz'altro alla malaria: chi è nato e vissuto a Roma ha ogni diritto di sorridere a udire diagnosi così precise e così arbitrarie). Per parecchio tempo egli stette in pericolo di vita, e anche la convalescenza fu lunga: tanto che la notizia della sua malattia giunse a Filippi, e di là tornò a Roma la comunicazione che tutti i fedeli erano in trepidazione per lui, il che attristò il convalescente. Ma, come Dio volle, la malattia fu superata, le forze: furono ricuperate, ed Epafrodito fu in condizioni di affrontare il viaggio di ritorno. Era passato molto tempo: il biennio di prigionia di Paolo volgeva al termine, ed egli prevedeva assai vicina la fine del suo processo.
Naturalmente, alla partenza del caro visitatore, non poteva mancare una lettera d'accompagno da parte di Paolo. Le notizie portate da Epafrodito riguardo alla comunità, erano state buone, come era stato opportuno il generoso soccorso in denaro: a tutto ciò doveva replicare Paolo; e specialmente doveva dare una soddisfazione al proprio cuore particolarmente affezionato a quei suoi figli, ch'erano i suoi primogeniti d'Europa. In queste circostanze egli dettò la lettera ai FILIPPESI, affettuosa, serena, riposante, più di qualunque altro suo scritto, e oltre a ciò non priva di passi che rappresentano vette somme del pensiero religioso di Paolo: sembra una conversazione fatta tra amici vicino al focolare, ma ad un focolare cristiano in cima al quale stia appeso un Crocifisso. Eccone un riassunto:
630. Nel titolo Paolo, insieme con Timoteo, augura grazia e pace a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi con (gli) ispettori (episcopi; § 531, nota seconda) e (i) diaconi.
Egli si ricorda sempre di loro e prega per loro per l'affettuosa comunanza che mostrano con lui dal primo giorno fino ad oggi, confidando che Dio che iniziò in loro l'opera salutare la porterà a compimento: eguale affetto egli sente per loro, partecipi quali sono alle sue catene e alla difesa del Vangelo. Iddio gli è testimonio che egli anela a loro nelle viscere di Cristo Gesù, e prega che la loro carità abbondi sempre più nella piena scienza e nel discernimento, sì che siano puri e irreprensibili per il giorno di Cristo. Fa saper loro che le sue vicende di Roma si sono rivolte a vantaggio del Vangelo: di lui si parla in tutto il Pretorio e molti fratelli, per buona volontà o per invidia, si sono messi ad annunziare il Cristo (questi passi furono esaminati nei §§ 606-609). In ciò lo assisteranno le preghiere dei Filippesi, giacché egli non desidera che glorificare Cristo con la vita e con la morte. Per lui la vita è Cristo e la morte un guadagno: se vive, è per lavorare a onore di Cristo, ma se muore sarà liberato e si unirà con lui: ciò è molto meglio per Paolo, ma per i Filippesi è meglio che egli rimanga, e quindi accetta di rimanere. Si comportino essi in modo degno del Vangelo, cosicché sia ch'egli li riveda, sia che resti lontano, sappia che stanno saldi in un solo spirito, lottando uniti per la fede del Vangelo e soffrendo per il Cristo (Cap. I).
631. Abbiano pertanto carità, comunanza di spirito, abnegazione fra loro, stimando gli altri più di se stessi e non curando le cose proprie ma le altrui. È questo l'esempio dato dal Cristo Gesù. Il quale, sussistendo in forma di Dio, non stimò rapina (400) l'essere alla pari con Dio, ma svuotò (***) se stesso prendendo forma di schiavo, diventato a somiglianza d'uomini. E ritrovato all’aspetto come uomo, si umiliò (ancor più) diventato obbediente fino a morte, ed a morte di croce. Perciò anche Iddio lo sovresaltò, e gli donò il nome che (è) sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi di (esseri) celestiali e terrestri e sotterranei, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo (è il) Signore alla gloria di Dio Padre (2, 6-11). Anche i Filippesi, dunque, siano obbedienti, cooperando per la propria salvezza a quanto Dio fa in loro; si mostrino irreprensibili e sinceri in mezzo a una generazione perversa, compiendo il vanto di Paolo a loro riguardo e la gioia comune.
Egli spera d'inviar loro presto Timoteo, ad essi molto affezionato e suo caro cooperatore: spera anche di venire egli stesso. Ma intanto manda subito Epafrodito, che è stato assai malato, ma Dio ha avuto pietà di lui, e anche di Paolo per non dargli dolore su dolore; tuttavia Epafrodito è triste avendo saputo che essi sono in ansia per lui. Lo accolgano con ogni cordialità e gratitudine, per quanto ha fatto per loro (Cap. 2).
632. Si guardino dai cani, dai cattivi compagni, dai mutilati (401). I veri circoncisi siamo noi, che prestiamo culto nello Spirito di Dio non confidando nella carne. Anch'egli, Paolo, potrebbe ben confidare nella carne e vantarsi: circonciso l'ottavo giorno; della stirpe d'Israele; della tribù di Beniamino; Ebreo da Ebrei; secondo la Legge, Fariseo; secondo lo zelo, persecutore della Chiesa; secondo la giustizia della Legge, irreprensibile! Ma queste cose stima egli adesso, di fronte a Cristo, non, già un guadagno ma una perdita; anzi per lui tutto è perdita in confronto con l'eccelsa conoscenza del Cristo Gesù, per il quale egli ha perduto ogni cosa e stima ogni cosa
*** (§ 170). Egli stima soltanto la giustizia che proviene dalla fede in Cristo, e il conformarsi a Cristo imitandolo: possa egli ghermirlo, come già fu ghermito da lui (§ 283)! Cèrto, egli non ha ancora raggiunto questa meta, ma anela ad essa come i corridori dello stadio. Perciò i Filippesi gli vengano appresso, imitandolo; si guardino invece dai nemici della croce di Cristo, che hanno per dio il ventre e non pensano che a cose terrene. Al contrario la cittadinanza nostra è nei cieli, da cui aspettiamo quale salvatore Gesù Cristo che trasformerà il nostro corpo meschino rendendolo simile al suo corpo glorioso (Cap. 3).
633. I Filippesi, suoi fratelli cari e desideratissimi, gioia e corona sua, stiano saldi nel Signore. Quelle due brave donne di Evodia e Syntyche, che hanno un vecchio dissenso fra loro, si mettano una buona volta d'accordo nel Signore (§ 384); le aiuti anche il genuino Syzygo (§§ 244, 383). Stiano sempre lieti: il Signore è vicino (402). Preghino, godano della pace di Dio, e amino tutto ciò ch'è nobile, giusto, puro (4, 1-9).
La sollecitudine che i Filippesi già nel passato hanno avuto per le necessita materiali di Paolo, ha trovato adesso una nuova opportunità per manifestarsi. Egli, veramente, è capace di vivere sia nelle privazioni sia nell'abbondanza; ma ha gradito i soccorsi inviatigli, come compartecipazione di essi alla sua tribolazione. Essi sanno come egli, fin da quando si allontanò dalla Macedonia, solo da loro accettò aiuti materiali, un paio di volte anche a Tessalonica. Ciò che adesso ha ricevuto da Epafrodito è più che sufficiente: è stata veramente un'offerta santa, ben accetta a Dio, e Dio li compenserà.
Salutino tutti in Cristo Gesù. Vi salutano tutti i santi, e specialmente quelli della casa di Cesare (§ 610). La grazia del Signore Gesù Cristo (sia) con lo spirito vostro. Amen (4, 10-23).

634. L'autenticità delle quattro lettere della prigionia ha trovato, com'era da aspettarsi, molti avversari nei critici radicali, spècialmente nei riguardi di Colossesi ed Efesi. Le testimonianze della più antica tradizione, le quali concordemente attribuiscono a Paolo i quattro scritti, sono a cuor leggi ero respinte da questi studiosi (mentre sono millantate in altri rarissimi casi, in cui sembrano favorire le loro idee); cosicché le ragioni addotte in contrario consistono in apprezzamenti strettamente personali riguardo ai concetti esposti negli scritti ripudiati, e secondariamente in rilievi filologici.
Ad esempio, se in Colossesi e specialmente in Efesi si trova la dottrina cristologica e del corpo mistico del Cristo molto più sviluppata in confronto con le precedenti lettere di Paolo, ciò già induce a sospettare che non si tratti di produzione di lui (come se Paolo fin dal suo primo scritto avesse dovuto esprimere tutto ciò che aveva nella mente, o i suoi concetti non potessero subire col tempo un progressivo svolgimento). Il fatto poi che la lettera agli Efesi sia un fedele ampliamento di quella ai Colossesi dimostra l'opera di un falsario che ha ricamato sullo scritto precedente, forse autentico (come se uno stesso autore non potesse, per circostanze speciali, rielaborare ed arricchire un suo proprio scritto conservandone la stessa trama generale). In queste lettere poi, e specialmente in Efesi, si trovano vocaboli giammai usati altrove da Paolo: è vero, ma è anche vero che vi si ritrovano vocaboli e frasi già usate altrove da lui, mentre l'impiego dei termini nuovi è pienamente giustificato dalla trattazione di argomenti nuovi (come Luca abbonda di termini nuovi quando narra la navigazione e il naufragio; § 99).
Del resto è inutile insistere su queste risposte alle obiezioni, perchè le vere ragioni delle obiezioni sono assai più profonde di quelle storico-concettuali o filologiche che vengono addotte (§ 120 segg.).




ULTIMI ANNI.

SECONDA PRIGIONIA ROMANA.

MORTE

635. Il sole che declina dietro una catena di montagne non s'immerge ad un tratto nell'oscurità, ma è preceduto da un periodo di mezza luce durante il quale rimangono illuminati soltanto alcuni picchi di quelle montagne: quando anche quei picchi s'avvolgono d'ombra, ne concludiamo che il sole è scomparso del tutto, sebbene non vediamo il preciso punto in cui si è nascosto. Altrettanto avviene con Paolo. Finita la prima prigionia romana e cessate le indicazioni fornite dalle sue lettere allora scritte, comincia il periodo di mezza luce, durante il quale abbiamo ancora a nostra disposizione notizie sicure ma scarse di numero e senza un palese collegamento fra loro: sono i pochi picchi rimasti ancora illuminati, sopra ad un mare di oscurità che ha già invaso in basso tutto il resto.
Le notizie sicure, dopo la liberazione dalla custodia militaris romana, sono le seguenti:
In un certo tempo Paolo fu ad Efeso, insieme con Timoteo; di là poi egli partì alla volta della Macedonia, lasciando ad Efeso Timoteo (1 Timot., 1, 3).
In un altro tempo egli fu nell'isola di Creta insieme con Tito, e ne ripartì lasciandovi Tito (Tito, I, 5).
Dopo la partenza era Creta egli fu a Nicopoli, certamente quella dell'Epiro (§ 43); prima di arrivarvi egli aveva scritto a Tito in Creta ordinandogli di raggiungerlo a Nicopoli (Tito, 3, 12).
In un tempo in cui Tito non era più a Creta ma in Dalmazia, Paolo nuovamente prigioniero in Roma scrisse.... a Timoteo pregandolo di venire urgentemente presso di lui; in precedenza egli era stato a Troade, ed era passato anche per Corinto e per Mileto (2 Timot., I, 17; 4, 9-21).
Oltre a queste informazioni certe, sono da aver presenti i due progetti fatti da Paolo nel passato, e che egli avrebbe potuto attuare in questo tempo: cioè, l'antico progetto del viaggio in Spagna (§§ 513, 523), e quello più recente di visitare a Colossi Filemone a cui già aveva chiesto ospitalità (§ 617).
Quale fu, pertanto, la successione di tutti questi avvenimenti sicuri o probabili?
636. Da taluni si è supposto che Paolo, appena libero a Roma, dovette recarsi a Colossi perché questo era il suo ultimo progetto annunziato a Filemone. Che fosse l'ultimo progetto, è vero: ma è anche vero che Paolo, sempre abbondante in progetti, aveva in mente l'altro più antico e quindi più accarezzate di andare in Spagna. Per quale dei due progetti si sarà deciso prima, posponendo l'altro, dato che l'uno lo portava in Oriente e l'altro nell'estremo Occidente? Non lo sappiamo; ma la verosimiglianza astratta darebbe la precedenza al viaggio in Spagna, sia per la ragione testé accennata, sia perché la Spagna era per lui un campo nuovo e quindi più allettante, sia infine perché l'andarvi da Roma era più facile che da altrove.
Che Paolo realmente compisse questo suo viaggio in Spagna, è quasi sicuro. Già alla fine del sec. I Clemente Romano (Corint., 5, 7) afferma che Paolo, dopo avere insegnato la giustizia al mondo intero ed esser venuto ai confini dell’Occidente, dette testimonianza ecc.; ma la designazione geografica dei confini dell'Occidente non ha senso, per chi scriva da Roma, se non riferita alla Spagna. E infatti del preciso viaggio di Paolo in Spagna parla il Frammento Muratoriano di circa l'anno 180 (403), e con esso s'accordano gli apocrifi Atti di Pietro, gli Atti di Paolo, e le successive testimonianze di molti Padri (Atanasio, Epifanio, Crisostomo, Girolamo, ecc.). Si è voluto dire che queste testimonianze si fondano unicamente sul proposito espresso da Paolo di andare in Spagna (Rom., 15, 24, 28):...ma questa unicità di fondamento dovrebbe essere. dimostrata, non soltanto affermata, mentre le più antiche testimonianze, essendo di origine romana, inducono a pensare che si fondino su altri documenti locali.
Nulla sappiamo di particolare su questo viaggio, né dei suoi risultati. Compiuto forse per via di mare, poté occupare non molto tempo; dopo alcuni mesi Paolo già doveva esser di ritorno a Roma, essendo ben difficile che s'imbarcasse dalla Spagna direttamente per la Grecia e l'Oriente.
Riguardo alle notizie sicure elencate sopra, non resta che congetturare qualche successione di avvenimenti nella quale esse vengano a collocarsi convenientemente. Una di tali congetture può essere la seguente.

637. Partito per la Spagna poco dopo la sua liberazione dell'anno 63, Paolo tornò di là nella prima metà del 64 ritrovando a Roma Luca che stava terminando la stesura degli Atti (§ 118). Nel luglio del 64 scoppiò l'incendio di Roma, seguito dalla persecuzione dei cristiani; allora gli Atti furono conclusi bruscamente per la ragione che già proponemmo (§ 118), e subito presso Paolo si allontanò da Roma, trattenendosi in qualche luogo imprecisato d'Italia, donde spedì la lettera agli Ebrei (§ 650 segg.).
Questo luogo fu probabilmente un porto marittimo ove già esisteva una comunità cristiana, sul genere di Pozzuoli (§ 596) o anche di Ostia o di Porto, ove le iscrizioni attestano la presenza di Giudei già in tempi antichi; ivi Paolo si rifugiò sia per sfuggire alle ricerche della polizia imperiale particolarmente interessata alla sua cattura, sia per attendere un'occasione opportuna ad imbarcarsi per l'Oriente. Ambedue gli scopi furono raggiunti, e sui principii del 65 Paolo era ad Efeso insieme con Timoteo: qui cominciano le notizie sicure quanto ai fatti, se non quanto al tempo.
Dopo una permanenza di lunghezza imprecisata, Paolo lasciò ad Efeso Timoteo e partì per la Macedonia, donde scrisse la I Timoteo. Dalla Macedonia, passando forse per Corinto, egli si recò in un campo ancora nuovo, andando ad evangelizzare insieme con Tito l'isola di Creta, a cui forse aveva pensato fin da quando vi era approdato durante il viaggio per Roma (§ 578). Quando l'evangelizzazione fu abbastanza avviata, egli lasciò Tito a Creta e si recò non sappiamo in quale altro posto; ma avendo stabilito di passare a Nicopoli (§ 635) l'inverno, probabilmente quello tra il 65 e il 66, scrisse a Tito. -di raggiungerlo colà. A Nicopoli Paolo dovette trascorrere l'inverno in intensa operosità, diffondendo il Vangelo nelle regioni finitime specialmente quelle a Settentrione, giacché più tardi Tito sarà inviato da Paolo nella sovrastante Dalmazia (2 Tim., 4, 10).
638. Improvvisamente Paolo ricompare prigioniero a Roma, donde invia l'ultimo suo scritto, la II Timoteo (I, 17). Oscurissime sono le circostanze di questo suo nuovo arresto: quasi certamente esso non avvenne a Roma ma in altro luogo lontano, dove Paola fu raggiunto dalla polizia imperiale che lo andava ricercando fin dalla sua scomparsa da Roma.
Forse un tenue spiraglio di luce può venire da alcuni accenni dell'ultimo suo scritto. Egli infatti dice di aver lasciato a Troade (§ 526 segg.), in casa di un certo Carpo, il proprio mantello insieme con i libri e le pergamene (2 Tim., 4, 13), e quindi prega Timoteo di portargli queste cose venendo a Roma; questa partenza da Troade, così improvvisa da non dar tempo a prender seco neppure il mantello da viaggio e i gelosi scritti che Paolo aveva sempre fra mano, può far pensare ad una forza maggiore, ossia ad un arresto. Da Troade l'arrestato dovette esser condotto al capoluogo della provincia, ossia ad Efeso (§§ 18, 21), ove furono raccolti i primi elementi del processo aperto si davanti al tribunale del proconsole. Ma l'antica popolarità di cui Paolo aveva goduto colà anche presso i pagani (§ 469) si era dissipata: questa volta i suoi difensori furono pochi, fra cui Timoteo (ivi, I, 4), Onesiforo, Aquila e Priscilla (I, 16-18; 4, 19); molti invece furono i pavidi che si allontanarono da lui, e fra questi anche uomini che meno di tutti avrebbero dovuto farlo, quali Figelo ed Ermogene (I, 15); il nemico più accanito fu Alessandro il ramaio (§ 469, nota seconda), che gli arrecò molti mali (4, 14-15). Da Efeso il cittadino romano prigioniero, accompagnato dal solito elogium ufficiale (§ 572), dovette essere inviato a Roma per via di mare; e fa scortato da un piccolo gruppo di discepoli; ma il gruppo si assottigliò già lungo il viaggio, perché Trofimo (§ 543) ammalatosi si fermò a Mileto, Erasto (§ 426, cfr. 466) rimase nella sua Corinto (4, 20), qualche altro si allontanò per pusillanimità o per obbedienza dopo l'arrivo a Roma, di modo che un certo giorno a fianco al prigioniero non rimase che il fedelissimo, il solo Luca (4, 11).
Questo quadro, di Paolo incatenato a Roma ed assistito da Luca, è l'ultimo presentato dagli scritti di lui. Doveva essere tra la fine dell'anno 66 e i principii del 67.
Ripetiamo tuttavia che questo concatenamento di fatti, dall'anno 63 al 67, non è che una ricostruzione congetturale: alla quale troppi dati mancano, sia riguardo alla cronologia sia riguardo alla successione degli avvenimenti. per pretendere di essere sicura.
639. LE LETTERE PASTORALI. I tre scritti da cui provengono queste poche notizie sono oggi designati col nome di Lettere pastorali, perché il loro argomento generico è il governo delle chiese sia nella sua costituzione interna sia riguardo ai vari pericoli esterni. Eccone un riassunto:
I Timoteo. - Dopo il titolo e l'esordio, Paolo ricorda a Timoteo dì averlo lasciato ad Efeso affinché si opponga a coloro che insegnano favole e genealogie interminabili (I, 4), inutili e dannose. Taluni si presentano come dottori della Legge ma sono ciarlatani, i quali non sanno che la Legge è buona purché usata in senso buono, e che essa esiste non per il giusto ma per i vari tipi di peccatori: questa è la dottrina del vangelo di cui Paolo è ministro; essendo stato a ciò eletto per misericordia di Dio da persecutore ch'era prima. Lo stesso ufficio egli trasmette a Timoteo affinché lo eserciti a differenza di altri che naufragarono dalla fede, fra i quali è Imeneo ed Alessandro che consegnai al Satana affinché siano educati a non bestemmiare (Cap. I).
Si preghi per tutti gli uomini, compresi i re e coloro che sono costituiti in autorità, giacché Dio vuole che tutti si salvino: unico è Iddio, e unico è il mediatore Gesù Cristo che ha dato se stesso a riscatto di tutti. Preghino gli uomini alzando le mani, e le donne in abito verecondo e non sfarzoso. Le donne ascoltino e non insegnino (nelle adunanze cristiane), perché sono inferiori all'uomo e il loro compito è la prole. L'«ispettore» (§ 531, nota seconda) dev'essere irreprensibile, non bigamo (successivo), adorno di molte virtù; esemplare nel governo della propria famiglia: di analoghe qualità devono esser forniti i diaconi (Cap. 2-3, 13).
640. Paolo spera di raggiungere presto Timoteo; ma, in caso di ritardo, egli si comporti sempre secondo la norma che la casa di Dio è la Chiesa di Dio vivente, colonna e sostegno di verità. Segue un breve passo riguardante il mistero della pietà, d'intonazione lirica ed estratto probabilmente da qualche primitivo cantico cristiano; questo mistero è accentrato in Gesù Cristo il quale si manifestò in carne, fu giustificato in spirito, apparve ad angeli; fu annunciato in genti; trovò fede in mondo, fu assunto in gloria (3, 16).
Ma lo Spirito annuncia per i tempi estremi molti inganni e ipocrisie: sorgeranno impostori a predicare che le nozze sono proibite, e che certi cibi sono vietati. A tali dottrine Timoteo si opponga; detesti egli le sciocche favole da vecchiarelle, e si eserciti nella pietà. Nonostante la sua giovane età sia di modello a tutti, e non trascuri il carisma che è in lui, datogli mediante le profezie, con l'imposizione delle mani del Presbiterio (3, 14-4, 16).
Timoteo tratti ogni fedele in maniera adatta alle rispettive condizioni. Abbia cura delle vedove che facciano vita esemplare: nel ceto delle vedove assistite dalla comunità includa quelle in età non inferiore a sessanta anni, di specchiata condotta; le vedove giovani riprendano marito; se un fedele ha qualche parente vedova, provveda egli a mantenerla per non aggravare la comunità. Gli «anziani» godano di particolare rispetto, specialmente quelli che predicano ed insegnano, e non si accolgano facilmente accuse contro di essi; non imponga Timoteo le mani se non su uomini sicuri. Beva, non più acqua sola, ma un po' di vino a causa delle sue continue infermità (Cap. 5).
Seguono ammonimenti staccati riguardo agli schiavi ed ai padroni, ai predicatori di nuove dottrine, alla cupidigia: esortazioni a Timoteo di contenersi esemplarmente, di ammonire i ricchi, di custodire il deposito della fede contro i ciarloni seguaci della falsa scienza.

641. Tito. - Titolo solenne, in cui Paolo ricorda ampiamente le sue prerogative di predicatore evangelico (ricordo opportuno per una comunità di recente fondazione) (I, 1-4).
Paolo ha lasciato Tito a Creta affinché stabilisca in ogni città «anziani», i quali sono chiamati in seguito anche «ispettori» (episcopi; cfr. § 531, nota seconda). L'eletto a tale ufficio sia irreprensibile, non bigamo (successivo), con figli credenti ed esemplari, immune da superbia, ira, ecc. e fornito delle virtù contrarie. Queste doti sono necessarie per opporsi ai molti ciarlatani, provenienti soprattutto dal giudaismo, e tanto più sono opportune fra i Cretesi, dei quali fu detto da un loro «profeta»: Cretesi sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri (§ 232). Tito li redarguisca, ammonendoli che si conservino saldi nella fede non dando retta a favole giudaiche e a precetti d'uomini distornati dalla verità (I, 14): costoro a parole venerano Dio, ma con le opere lo rinnegano (Cap. 1).
Doveri particolari alle singole condizioni, ai vecchi, alle donne anziane e alle giovani, ai giovani, agli schiavi: tutti vivano con giustizia e pietà nel secolo presente, aspettando la beata speranza e la manifestazione della gloria del grande Dio e del salvatore nostro Gesù Cristo (Cap. 2).
I cristiani siano obbedienti ai magistrati, indulgenti e miti con ognuno, e si spoglino degli antichi vizi. È apparsa, infatti, la benignità e la «filantropia» del salvatore nostro Dio, che per sua grazia ci salvò mediante un lavacro di rigenerazione e rinnovamento dello Spirito santo diffuso in noi. Su questa dottrina insista Tito, e schivi stolte ricerche e genealogie e dispute e battaglie legali. Ammonisca una e due volte l'eretico, e poi lo fugga come pervertito (Cap. 3, 12-15).
Quando Paolo avrà inviato Artema o Tichico, Tito raggiunga a Nicopoli Paolo che svernerà colà. Assista premurosamente alla loro partenza Zena il legista ed Apollo. Saluti generici (Cap. 3, 12-15).
642. II Timoteo. - Dopo il titolo, Paolo ringrazia Dio attestando di ricordarsi di Timoteo continuamente, giacché anela di rivederlo; Paolo ripensa alle lacrime di lui e alla sua fede schietta, quale albergò nella nonna di lui Loide e nella madre Eunice (§ 372). Riaccenda egli il carisma di Dio che è in lui, ricevuto mediante. l'imposizione delle mani di Paolo: non si vergogni, quindi, di rendere testimonianza al Signore e al suo prigioniero Paolo, e prenda parte ai travagli per il Vangelo; confidi nella forza di Dio che ci ha chiamati in virtù della grazia data in Cristo Gesù prima dei tempi secolari e manifestata adesso con l'apparizione del salvatore Gesù Cristo. Per esso Paolo patisce. queste cose, ma è certo che il Cristo custodisce per quel giorno il deposito affidatogli da Paolo: egualmente Timoteo custodisca il buon deposito della dottrina ricevuta da Paolo (I, 1-14).
Timoteo sa che si sono allontanati da Paolo tutti quelli che sono nell'Asia (proconsolare), fra cui Figelo ed Ermogene; al contrario, Onesiforo gli è rimasto costantemente fedele senza vergognarsi della catena di lui, anzi è venuto a Roma, e avendolo ricercato ansiosamente l'ha trovato: Dio lo rimuneri! Del resto Timoteo sa benissimo quanto Onesiforo abbia fatto per Paolo anche ad Efeso (I, 15-18).
Timoteo trasmetta a uomini sicuri gl'insegnamenti ricevuti da Paolo. Combatta come buon soldato di Cristo Gesù: chi fa il soldato non s'immischia negli affari della vita, per riuscir gradito a chi lo ha iscritto nell'esercito; in maniera analoga si comportano l'atleta nello stadio e l'agricoltore nei campi. Si ricordi Timoteo che Gesù Cristo è risuscitato dai morti secondo il vangelo di Paolo, per il quale esso soffre anche catene come un malfattore, sebbene la parola di Dio non sia incatenata: se moriremo insieme con Lui, vivremo anche insieme, e se rimaniamo fedeli a lui regneremo anche insieme (2, 1-13).
Timoteo non faccia questioni di parole, ma dia il buon esempio come retto dispensatore di verità. Anche Imeneo e Fileto traviarono dalla verità, dicendo che la resurrezione è già avvenuta, e sovvertono la fede di taluni; ma Timoteo non si meravigli di questa presenza di maligni, perché nella Chiesa avviene come in una grande abitazione ove si ritrovano insieme vasi d'oro e d'argento, ma anche di legno e di terracotta: egli insegni con mitezza, evitando le questioni insensate (2, 14-26).
643. Nei giorni ultimi verranno tempi difficili: gli uomini saranno pieni di vizi, pur sotto la parvenza di pietà. Di questo numero sono coloro che s'insinuano nelle case, cattivandosi donnicciuole che hanno la testa piena di errori e di voglie diverse: come Jannes e Jambres si levarono contro Mosé (§ 241), così fanno costoro contro la verità; ma rimarranno confusi. Timoteo invece conosce per esperienza la condotta di Paolo e anche i suoi patimenti sofferti in Antiochia (Pisidica), Iconio e Listra, da cui il Signore lo ha tratto fuori. Chiunque vuol vivere piamente in Cristo Gesù, è perseguitato; perciò rimanga egli saldo alle dottrine ed agli esempi ricevuti. Fin da fanciullo egli conosce le sacre lettere, che erudiscono a salvezza mediante la fede in Cristo Gesù: tutta la Scrittura (è ) divinamente ispirata ed utile ad insegnare, a confutare, a correggere, a educare per la giustizia (Cap. 3).
Paolo scongiura Timoteo ad esser zelante nel diffondere e difendere la buona dottrina. Verranno, infatti, tempi in cui gli uomini non tollereranno la verità è si procureranno maestri che accarezzano gli orecchi; ma egli rimanga fedele al suo ufficio, facendo opera di evangelista. Io già sono versato in libazione, e il tempo del mio scioglier (le vele) è imminente... (vedi l'intero passo al § 171).
S'affretti Timoteo a venire presso Paolo, perché Dema lo ha abbandonato (§ 611), Crescente è in Galazia (o Gallia?), Tito è in Dalmazia, e il solo Luca gli è rimasto a fianco. Conduca con sé Marco, perché sarà di grande aiuto a Paolo. Fa sapere che ha mandato Tichico ad Efeso. Venendo, gli porti il mantello che lasciò a Troade da Carpo, insieme con i libri e le pergamene; Alessandro il ramaio gli ha fatto molto male: Timoteo si guardi da lui. Nella mia prima difesa nessuno mi fu a fianco, ma tutti mi abbandonarono: non sia imputato ad essi! Tuttavia il Signore mi fu a fianco e mi confortò, affinché per mezzo mio la predicazione si compia ed ascoltino tutte le genti, e fui scampato dalla bocca del leone (4, 16-17). Paolo infine invia saluti per Prisca ed Aquila e per la casa di Onesiforo. Comunica che Erasto è rimasto a Corinto, e Trofimo a Mileto perché ammalatosi. Prega Timoteo di affrettarsi a venire prima dell'inverno. Trasmette i saluti di Eubulo, Pudente, Lino e Claudia.


***
644. Le tre Lettere pastorali furono attribuite a Paolo da una concorde tradizione le cui attestazioni cominciano nella prima metà del sec. II. L'unico dissenziente, anche fra gli eretici, fu Marcione (quanto a Taziano la cosa è dubbia), il quale secondo il suo solito respinse i tre scritti, non già per testimonianze storiche che dissentissero dalla tradizione riguardo alla loro provenienza, ma solo perché i concetti ch'egli vi trovava non s'accordavano con i suoi propri. Solo nel sec. XIX fu rimesso in onore il giudizio di Marcione e insieme anche il suo metodo, con la sola differenza che agli antichi concetti teologici di Marcione furono sostituiti canoni fissi di determinate scuole.
I principali di questi canoni sono: che l'organizzazione e gerarchia ecclesiastica rispecchiate nelle Lettere pastorali sono troppo sviluppate per esser dei tempi di Paolo, e non possono appartenere che al sec. II inoltrato; inoltre, che gli eretici segnalati in queste lettere sono in realtà i seguaci dei grandi sistemi gnostici del sec. II, e particolarmente di Marcione; e perciò le lettere sono posteriori a questi sistemi. Come argomenti di rincalzo sono addotte al tre ragioni: che la lingua e lo stile differiscono da quelli delle lettere sicuramente di Paolo; che la dottrina di una Chiesa inquadrata e organizzata non può esser di Paolo, il quale mirava èsclusivamente al libero messaggio della fede nel Cristo (e all'attesa dell'imminente parusia: aggiungono gli escatologisti); infine, che in tutta la vita di Paolo non si trova un periodo a cui si possano attribuire le tre Lettere.
645. Ma, come avviene sempre, dopo la sfuriata della negazione in massa venne il periodo della titubante riflessione: l'autenticità affermata dalle concordi attestazioni antiche, no, non si poteva accettare; ma anche la tabula rasa decretata dai moderni era, forse, eccessiva. E allora si imboccò la via di mezzo, il compromesso: molti studiosi, cioè, supposero, che nelle tre Lettere, - specialmente in Tito e II Timoteo - siano stati incorporati alcuni «biglietti» autentici di Paolo, ma ritoccati e rimpastati da mani posteriori. E così si apriva l'opportunità di applicare il solito metodo della «estrazione», sceverando l'autentico dal falso.
I frammenti così estratti furono parecchi, ma - com'era da aspettarsi - variarono da studioso a studioso, giacché spesso un frammento giudicato indubbiamente autentica da un critico fu invece scartato come sicuramente falso da un altro, e quindi le lettere «ricostruite» risultarono tutte differenti una dall'altra. Dopo ciò che di siffatti metodi arbitrari dicemmo sopra (§ 120 segg.), è inutile soffermarsi a mostrarne la mancanza di base critica oggettiva: resta inoltre la spontanea domanda di sapere come mai questi pazienti astrolagi della critica aspettino che le loro gratuite affermazioni trovino credito, dal momento che presso di loro non hanno trovato credito le autorevoli attestazioni dell'antichità. Un «sì» pronunziato nel sec. II dal Frammento Muratoriano (insieme con tanti altri documenti, come nel caso nostro), vale ben più di cento «no» decretati da seguaci di teorie moderne destinate ad appassire dopo qualche decennio.
646. Gli argomenti di rincalzo addotti per respingere in massa le tre Lettere sono più speciosi che sodi.
In tutta la vita di Paolo non si trova un periodo a cui attribuirle? Si trova benissimo, purché non si tronchi la vita di Paolo insieme col troncamento degli Atti (§ 116 segg.); se, conforme a quanto ci suggeriscono varie fonti, Paolo visse ancora qualche anno dopo la liberazione dalla sua prima prigionia romana, abbiamo un periodo più che sufficiente a collocarvi le tre Lettere, le quali già da se stesse esigono questo periodo. Che la prima prigionia finisse non con la condanna capitale ma con la liberazione, era una previsione espressa già da Paolo nelle lettere scritte durante quella prigionia.
La dottrina di una. Chiesa inquadrata ed organizzata non può essere di Paolo? Può darsi, anzi è certo, che non sia la dottrina, del Paolo immaginato dalla Scuola di Tubinga o da quella Escatologica, ma non è detto che queste scuole abbiano delineato un Paolo più vèro di quello delineato dai documenti. Raccogliendo gli elementi della dottrina ecclesiologica di Paolo sparsi nelle sue precedenti lettere e negli Atti, si trova che concordano con quanto egli dice - sia pure in forma più insistente e più ampia - nelle Lettere pastorali.
La lingua e lo stile delle pastorali differiscono dalle altre lettere? È vero, e non è vero. Anche qui si sono contate le parole ed elencate le frasi: su 897 parole, 133 non ritornano negli altri scritti di Paolo (esclusa la lettera agli Ebrei) e altre 171 non ritornano né in detti scritti né nel restante del Nuovo Testamento; un totale, dunque, di 304 parole forma un patrimonio lessico­grafico particolare alle pastorali, in confronto con le altre lettere di Paolo. Rilevante è pure il numero delle frasi speciali e degli hapaxlegomena.
647. Questi rilievi sono veri (sebbene computi più recenti né differiscano alquanto, e tendano a diminuire il divario lessicografico fra i due gruppi di scritti), ma non è vera la conclusione ricavatane che lo scrittore sia diverso.
In primo luogo resta sempre che la gran maggioranza delle parole, circa due terzi, ritorna nelle precedenti lettere. Inoltre quanta influenza non hanno esercitato sulla lingua e lo stile, in ogni tempo e in ogni scrittore, l'argomento e l'età e le circostanze esterne? Gli esempi abbondano, ma sarebbero superflui. E Paolo già vecchio dovrebbe scrivere come quando era nel pieno possesso delle sue energie? E adesso che egli provvede premurosamente alla vita interna delle comunità, dovrebbe usare lo stesso vocabolario e frasario usati quando polemizzava con i giudaizzanti della Galazia? E i nuovi argomenti, trattati adesso, non esigono termini nuovi o adattazioni nuove di termini antichi?
È stato notato, infatti, che il divario lessicografico delle pastorali rispetto alle lettere della (prima) prigionia è assai minore di quello rispetto alle lettere più antiche: e il fatto è spiegabilissimo, perché nelle lettere della prigionia abbiamo un Paolo già inoltrato in età, e che tratta argomenti più vicini alle pastorali che non gli argomenti delle lettere antiche. Notevole è pure la sconnessione di trama concettuale nelle pastorali, che procedono quasi a salti e senza un vero piano schematico: ma ciò corrisponde al loro carattere e alle circostanze in cui furono scritte; Paolo dà in esse precetti pratici occasionali, man mano che gli vengono in mente, anche interrompendosi o ritornando sul già detto; né si dimentichi che la II Timoteo, scritta nell'ultima prigionia assai dura, dovette esser composta fra molte difficoltà materiali.
648. Restano le ragioni principali addotte contro l'autenticità delle pastorali.
Non è affatto vero che l'organizzazione e gerarchia ecclesiastica rispecchiata in queste lettere siano premature perché corrispondenti alla situazione maturatasi solo nel sec. II inoltrato; è vero invece il contrario, ossia che già nel primo decennio del sec. II troviamo una situazione più progredita di quella rispecchiata nelle Lettere pastorali. Nelle lettere di Ignazio di Antiochia, scritte fra il 107-108, troviamo presentata con. ogni precisione la gerarchia dell'episcopato monarchico, stabile e residenziale (404): sul vertice della gerarchia sta l'«ispettore» (episcopo, vescovo), che fa le veci di Dio e di Gesù Cristo; distinti da lui e subordinati a lui stanno gli «anziani» o presbiteri, che rappresentano il collegio degli apostoli; più in basso ancora stanno i diaconi, dispensatori dei misteri di Cristo. Senza questi (tre gradi) non si chiama chiesa (Trallian., 3, 1). Altrettanto non si ritrova nelle Lettere pastorali, dove la stessa persona è chiamata promiscuamente «anziano» e «ispettore» (Tito, I, 5, 7; così pure in Atti) §, 531 nota seconda), dove Tito e Timoteo sono soltanto vicari di Paolo e rappresentanti dell'autorità di lui, né sono circoscritti ad una sede stabile, ma privi di residenza permanente; tutto ciò svela un periodo di organizzazione ancora incompiuta, e perciò anteriore all'organizzazione compiuta che risulta dalle lettere di Ignazio.
L'organizzazione si andava diffondendo più o meno rapidamente a seconda delle varie regioni, né si può storicamente pretendere che al tempo delle Lettere pastorali (anni 64-67) fosse già compiuto il lavoro che risulta ultimato al tempo di Ignazio un cinquantennio più tardi: lo stesso Clemente Romano, scrivendo ai Corinti fra gli anni 96-98, parla bensì del grado dei diaconi come contraddistinto da quello degli «ispettori» o vescovi (Corint., 42, 4-5), ma gli appartenenti a quest'ultimo grado sono chiamati da lui altrove «anziani» o presbiteri. In conclusione, le Lettere pastorali rivelano un'organizzazione ecclesiastica meno elaborata e perfetta di quella che vigeva al primo decennio del sec. II, e perciò ci riportano ad un periodo anteriore, confermando così quanto la tradizione dice riguardo alla data della loro composizione.
649. L'altra ragione addotta contro l'autenticità è anche meno fondata. Le Lettere pastorali non combattono i grandi sistemi gnostici del sec. II, sia quello di Marcione sia quello di Valentino o di altri, ma combattono taluni elementi dottrinali anteriori, a questi sistemi. I precedenti della Gnosi del sec. II sono tutt'altro che chiari, ma certo risalgono ben oltre i grandi sistemi architettati in quel secolo: ne segnalammo tracce già nelle lettere della prigionia (§ 619 segg.). Alla loro volta le pastorali segnalano che i rappresentanti di queste idee provengono dal giudaismo (Tito, I, 10), sono dottori della Legge (1 Timot., I, 7), fanno battaglie circa la Legge (Tito, 3, 9), impongono precetti d'uomini (Tito, I, 14), e raccontano favole giudaiche e genealogie interminabili (I Timot.) I, 4; Tito, I, 14; 3, 9). In tutti questi elementi è spiccatissimo il colore giudaico, che invece è quasi assente nelle lunghe genealogie di eoni e altri esseri angelici intessute dai grandi sistemi gnostici: le genealogie giudaiche a cui alludono le pastorali sono piuttosto quelle relative ai patriarchi della nazione ebraica, intessute dalla haggadah (§ 76 segg.) e conservate in vari midrashim giudaici, specialmente nel Libro dei Giubilei apocrifo composto in Palestina nel sec. II av. Cr. Naturalmente con questi elementi giudaici potevano essersi mescolati altri di provenienza varia, e il tutto sarà stato cementato insieme da elaborazioni personali, alle quali le pastorali alludono più volte ma in maniera troppo vaga per noi d'oggi; ad ogni modo siamo ancora ben lontani dai minuziosi sistemi gnostici che sorgeranno nel secolo seguente.
650. LA LETTERA AGLI EBREI. A nessun altro periodo della vita di Paolo; salvo il periodo di penombra che stiamo esaminando, può essere attribuito uno scritto singolarissimo che la grande maggioranza delle attestazioni antiche attribuisce a Paolo: la lettera agli Ebrei.
Spesso avviene di ritrovare, davanti a qualche immenso emiciclo alpino, un enorme masso solitario che si erge nel mezzo d'una pianura e non mostra alcun palese collegamento con le montagne che lo attorniano da lontano. Sono i cosiddetti «massi erratici», staccati si da quelle montagne in tempi preistorici e trasportati giù nelle vallate da fenomeni geologici di vario genere. Collegamenti del masso con quelle montagne, oggi, non si vedono; tuttavia se analizziamo la costituzione interna della sua pietra, la troviamo corrispondente alla costituzione di quelle montagne. È segno che il masso proviene di là: quando e come se ne sia staccato non sappiamo, ma certamente il masso è figlio di quelle montagne.
Questo paragone viene spontaneo alla mente di chi riassuma ciò che la tradizione esterna e insieme l'analisi interna affermano della lettera agli Ebrei, in relazione con gli altri scritti di Paolo.
Ma anche un altro paragone viene alla mente di chi, avendo già familiarità con quegli scritti, passi poi a leggere la lettera: ed è un paragone biblico. Il Genesi racconta che Giacobbe si ricoprì di pelli caprine per fingere di essere il suo peloso fratello Esau, e così carpire dal cieco padre Isacco la benedizione spettante al proprio fratello primogenito; sennonché Isacco, udendo la voce di colui che richiedeva la benedizione, rimase meravigliato e volle palpare il richiedente per accertarsi della persona di lui: ma anche a palpazione fatta il cieco rimase titubante, ed espresse il suo stato d'animo esclamando: La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esau (Gen., 27, 22). Questa, all'incirca, è pure l'impressione che si ha leggendo la lettera agli Ebrei: palpando si palpa Paolo, ascoltando non si ascolta la voce di lui.
651. L'impressione non è nuova, ma fu avvertita fin dal sec; II; ad essa fece riscontro una certa titubanza della tradizione la quale, per alcuni secoli, non mostrò nei riguardi di questa lettera la stessa asseveranza mostrata nei riguardi degli altri scritti di Paolo, perché spesso non riconobbe Paolo per suo autore e talvolta negò perfino la canonicità della lettera. Bisogna però distinguere fra la Chiesa occidentale e quella orientale, perché le due grandi parti della cristianità assunsero un atteggiamento precisamente inverso non solo di fronte alla lettera agli Ebrei, ma anche di fronte all'Apocalisse. Mentre non pochi Greci negarono che l’Apocalisse fosse di Giovanni l'apostolo, e la esclusero anche dal canone: i Latini invece concordemente la accettarono come opera di Giovanni, e come, scritto canonico. Al contrario, mentre molti Latini o ignorarono la lettera agli Ebrei, o l'attribuirono ad altri che a Paolo; o espressamente la esclusero dal canone: i Greci invece concordemente accettarono la lettera come canonica e l'attribuirono a Paolo, sebbene talvolta supponessero che la sua stesura letteraria non provenisse da Paolo.
Limitandosi al caso che qui ci riguarda - ossia a Ebrei - sarebbe troppo lungo citare i nomi dei Greci che accettano la lettera come canonica e di Paolo, ai quali si potrebbero aggiungere alcuni Siri del sec. IV; ma sarebbe anche lungo citare i Latini anteriori al sec. V che non la ritengono canonica o di Paolo, e quindi ci limiteremo a pochissimi nomi fra i più rapprèsentativi.
652. L'autorevolissimo Frammento Muratoriano ignora la lettera, e altrettanto fa Cipriano di Cartagine. Tertulliano la cita ma attribuendola a Barnaba, non a Paolo, e probabilmente non ritenendola scritto canonico (De pudic., 20); egualmente a Barnaba l'attribuisce Gregorio di Elvira (405). Nel 392 Girolamo afferma che la lettera presso i Romani fino ad oggi è stimata , come non dell’apostolo Paolo (De viris illust., 59); ma che egli qui, e anche altrove ove ripete la stessa idea, sia troppo sommario, appare da altre testimonianze non sue e anche da queste parole sue scritte altrove: Bisogna dire che questa lettera, che porta l'iscrizione «Agli Ebrei», è accolta non soltanto dalle chiese d'Oriente ma anche da tutti i passati scrittori ecclesiastici di lingua greca come dell'apostolo Paolo, sebbene molti la credano di Barnaba o di Clemente; né importa di chi sia, dal momento che è di un uomo ecclesiastico ed è celebrata ogni giorno nella lettura delle chiese. Che se la consuetudine dei Latini non l'accoglie fra le Scritture canoniche, neppure le chiese dei Greci con eguale libertà accolgono l'Apocalisse di Giovanni; tuttavia noi accogliamo ambedue, seguendo non già la consuetudine di questo tempo ma l'autorità degli antichi scrittori (Ad Dardan., epist. 129, 3; in Migne, Patr. Lat., 22, 1103).
Ancora agli inizi del sec. V Agostino era dubbioso, non della canonicità della lettera, ma della sua paternità; fino circa all'anno 407 egli l'aveva annumerata fra le quattordici di Paolo citandola sotto il nome di lui, ma specialmente dal 409 in poi evita di citarla sotto questo nome e ricorda espressamente i dubbi altrui circa la sua paternità. Per valutare però giustamente il suo atteggiamento, bisogna aver presente che egli assistette come sacerdote al concilio di Ippona del 393 e come vescovo al concilio di Cartagine del 397, nei quali erano state dichiarate canoniche le tredici lettere di Paolo apostolo e una dello stesso agli Ebrei. Dopo Agostino, diventa anche fra i Latini opinione sempre più comune che la lettera agli Ebrei sia di Paolo, e trascurate ormai le precedenti incertezze tutti in pratica si esprimono secondo questa opinione; cosicché dal sec. V in poi la Chiesa occidentale si ritrova d'accordo con la Chiesa orientale.
653. La ragione principale delle incertezze è indicata già nel sec. III, e non da un latino, bensì dal greco Origene che così si esprime: L'indole dell'eloquio della lettera intitolata «agli Ebrei» non ha l'imperizia di parola dell'apostolo, che confessava di essere imperito di parola, ossia di elocuzione: al contrario la lettera è, quanto a composizione di eloquio, perfettamente greca. Chiunque sa giudicare sulle differenze di espressioni, potrebbe attestarlo. D'altra parte, che i pensieri della lettera siano ammirabili e non inferiori a quelli degli scritti apostolici in contestati, sarà giudicato egualmente vero da chiunque è abituato alla lettura dei testi apostolici... Io pertanto, per conto mio, direi che i pensieri sono dell’apostolo, ma l'eloquio e la composizione sono di qualcuno che si rammentava dei (pensieri) apostolici e quasi di uno che redigesse in scritto i detti del maestro. Se dunque qualche chiesa ritiene questa lettera come di Paolo, sia encomiata anche per questo: giacché non senza ragione gli antichi la tramandarono come di Paolo. Ma chi abbia scritto la lettera, Dio solo lo sa con certezza: a noi sono pervenute notizie da taluni secondo cui Clemente, che fu vescovo dei Romani, scrisse la lettera, e da altri secondo cui la (scrisse) Luca, lo scrittore del vangelo e degli Atti (in Eusebio, Hist. eccl., VI, 25, 11-14). Questi rilievi del competentissimo Origene, fatti del resto anche da altri antichi, conservano tuttora il loro valore.
654. Lo stile e la lingua della lettera sono moltissimo differenti da quelli dell'epistolario di Paolo: ricchissima di hapaxlegomena, la lettera contiene anche molte espressioni di greco letterario che non occorrono mai nell'epistolario; il periodare è fluido, composto, ritmico, e non conosce quasi affatto quegli sbalzi e scatti che sono abituali nell'epistolario; al contrario conosce l'eloquenza elaborata dei Greci - non quella grezza e spontanea di Paolo ­ e fin dalle prime linee assurge a una grandiosità di eloquio che non appare altrove nel Nuovo Testamento.
Ebraismi non se ne trovano; la stessa maniera di citare la Bibbia differisce da quella ordinaria di Paolo, sia nelle formule per introdurre la citazione, sia nella fedeltà verbale delle citazioni, sia nell'impiego esclusivo della versione dei Settanta. In conclusione, Origene ha ogni ragione definendo questa lettera perfettamente greca
(***), giacché questa sua qualità non è pareggiata nemmeno da Luca, lo scrittore più ellenista del Nuovo Testamento. Passando dalla lettura di I Corinti o di Galati a quella di Ebrei si ha quasi l'impressione di passare da qualche testo popolare conservatosi nei papiri - ad es. la lettera di Apione ad Epimaco (§ 174) - a un discorso di qualche classico oratore greco.
Bisognerà dunque credere che Paolo, prima di scrivere Ebrei, sia rimasto qualche anno alla scuola di qualche retore alessandrino per rifare ab imis il suo stile?
Si aggiunga, infine, il carattere impersonale della lettera, la quale manca dell'esordio con la menzione dei destinatari e con gli auguri, che sono cose abituali a Paolo: così pure mancano i soliti saluti finali, da parte o all'indirizzo di singole persone, e si dice soltanto che quelli dall'Italia inviano saluti (Ebr., 13, 24). Egualmente sul finire si fa sapere che il fratello Timoteo è stato liberato (certamente da una prigionia), e che se egli giungerà presto, lo scrittore della lettera spera di venire insieme con lui a: visitare i destinatari (Ebr., 13, 23): ma poiché di questa prigionia di Timoteo noi non sappiamo assolutamente nulla, questa indicazione non ci offre alcun lume sulle circostanze della lettera.
655. Le cose cambiano moltissimo se dall'esame della forma si passa a quello della sostanza. Qui ritroviamo fondamentalmente il Paolo dell'epistolario: i concetti occasionalmente espressi in esso riguardo alla giustificazione, alla Legge, alla mediazione salvatrice del Cristo, alla sua persona, si ritrovano pure in Ebrei; alcuni di questi punti sono trattati qui in maniera più ampia - ad esempio, l'ufficio sacerdotale del Cristo - ma ciò evidentemente è richiesto dallo scopo particolare di questo scritto: ad ogni modo i rispettivi concetti sono quelli già espressi più in breve nell'epistolario. I commentatori hanno estremo, dalle due parti, lunghe liste di passi paralleli (che qui non possiamo riportare e che potranno essere consultate direttamente) da cui risulta con ogni evidenza che i concetti dottrinali espressi in Ebrei trovano quasi tutti un riscontro in concetti espressì nell'epistolario.
Questa somiglianza di concetti è tanta che non di rado esercita influenza pure sulla forma, la quale perciò anche nella sua finezza rammenta espressioni dell'epistolario. E ciò avviene fin dal principio, nel solenne prologo: il quale chiama il Figlio raggio della gloria e impronta (***) della sostanza di Dio (I, 3), come già nell'epistolario era stato chiamato immagine d'Iddio o d'Iddio l'invisibile (2 Cor., 4, 4; Coloss., I, 15); lo stesso Figlio poi è costituito tanto superiore agli angeli, quanto più eccellente nome ereditò in paragone con essi (Ebr., 1, 4), come già l'epistolario aveva affermato che il Cristo è superiore ad ogni specie di angeli e ad ogni nome (Efes., I, 21) e che ha ricevuto il nome che è sopra ogni nome (Filipp., 2, 9). E corrispondenze di tal genere si ritrovano anche dopo il prologo.
Dunque, assommando quanto le attestazioni esterne ci dicono riguardo alla lettera insieme con i contrassegni negativi e positivi che essa mostra in se stessa, siamo costretti a ripetere il giudizio di Isacco: La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esau; ossia, il suono della voce è di un ignoto che parla a nome di Paolo; ma ciò che l'ignoto dice proviene dalla mente di Paolo. È il giudizio dato già nell'antichità da Origene e da altri, secondo cui i concetti della lettera sono di Paolo ma la loro stesura è di un altro.
656. Chi è questo ignoto? Già gli antichi presentarono vari nomi, quali Barnaba, Luca, Clemente Romano. Alcuni pensarono anche che Paolo abbia scritto la lettera in aramaico, la lingua usuale degli Ebrei a cui egli s'indirizza, e che uno dei suddetti collaboratori l'abbia tradotta in greco, dandole quella forma elegante che ha: ipotesi, questa, giustamente abbandonata oggi, tante sono le ragioni filologiche per ritenere che il testo è lavoro di primo getto e non di traduzione.
Recentemente sono stati proposti molti altri nomi, Apollo, Sila, il diacono Filippo, Aristione, ecc. Cavallerescamente è stato fatto posto anche ad una donna, Priscilla, per la ragione che la lettera conterrebbe alcunché di «femminile»: ma l'Harnack, che propose questa ipotesi, dimenticò forse la norma di Paolo, che non permetteva alle donne d'insegnare nelle adunanze cristiane (1 Cor., 14, 33-34; 1 Timot., 2, 12). In realtà si tratta di semplici voli di fantasia, ognuno dei quali è astrattamente più o meno, possibile ma nessuno concretamente dimostrabile; ad es. Apollo, il fine alessandrino allegorizzante, ricordato con deferenza da Paolo ancora negli ultimi anni (Tito, 3, 13), poté benissimo essere l'estensore della lettera, ma chi può dimostrare che di fatto sia stato egli? Sarà quindi più ragionevole ripetere con Origene: Chi abbia scritto la lettera, Dio solo lo sa con certezza.
657. Indubbiamente la lettera, è indirizzata ad Ebrei, come dice il titolo che, sebbene non primitivo, è del sec. II; ma a quali Ebrei, e di quale regione?
I destinatari sono cristiani provenienti dall'ebraismo, in contrapposto a cristiani ex-pagani: tutto il tenore della lettera e l'indole della sua argomentazione, condotta su continue citazioni dell'Antico Testamento, dimostra questo punto. Il quale già mette sulla strada per riconoscere il particolare gruppo di giudeo-cristiani a cui la lettera è indirizzata: dev'essere, cioè, una comunità cristiana i cui membri provenivano esclusivamente, o quasi, dal giudaismo. Ora, comunità di tal genere non potevano sorgere che a Gerusalemme o in Alessandria, i due centri più numerosi e potenti del giudaismo di allora (406); sennonché a noi non risulta che Paolo abbia mai avuto dirette relazioni con Alessandria, e sulle origini storiche del cristianesimo di questa città non abbiamo che notizie sommamente vaghe e scarse. Non resterebbe, quindi, che Gerusalemme, alla cui comunità cristiana sarebbe indirizzata la lettera.
Ma anche qui, naturalmente, le opinioni si sono indirizzate verso altre mete, facendo partire la lettera alla volta di Roma, di Antiochia, di Efeso, di Corinto, di Tessalonica, di Cipro, della Galazia, della Licaonia, della Spagna, e anche di altri posti. Siamo ai soliti voli di fantasia, che non vanno presi sul serio e quindi nemmeno discussi. Soltanto la destinazione di Roma non è arbitraria, sebbene alla luce dei documenti non appaia probabile: già vedemmo che la comunità di Roma, già quando Paolo le indirizzò la lettera ai Romani, era costituita in prevalenza da ex-pagani (§ 513), il che non corrisponde alla indicazione testè veduta; neppure il culto del Tempio di Gerusalemme, che lo scrittore descrive con vivezza come sia tuttora in vigore, sembra un argomento opportuno per lettori che in gran parte non avevano mai assistito a quel culto. Si aggiunga il fatto che lo scrittore invia i saluti da parte di quelli dall'Italia (13, 24); i quali, a rigore, potrebbero essere persone oriunde dall'Italia e viventi altrove fuori di essa, e che di là inviano saluti ai Romani: ma più spontaneamente sono i connazionali giudei che dall'Italia ove stanno salutano i destinatari della lettera, ossia i Gerosolimitani.
658. Questa designazione geograficamente vaga, dall'Italia, può valere come tenue suggerimento. Perché mai lo scrittore non nomina la precisa città dove sta egli, aggiungendovi anche i vari luoghi dove stanno coloro che inviano i saluti? La designazione Italia dice troppo e troppo poco, perché stavano in Italia tanto i Giudei, di Roma quanto quelli di Pozzuoli e di tanti altri insediamenti giudaici della penisola, mentre senza dubbio non tutti questi insediamenti inviavano i saluti; quale inconveniente c'era a nominare il posto o i posti donde partivano i saluti? Come già supponemmo {§ 637), l'inconveniente c'era, e consisteva nel pericolo che la lettera finisse nelle mani della polizia imperiale, la quale ricercava Paolo mentre questi si teneva latitante e pronto a partire per l'Oriente; con la designazione generica dell'Italia la lettera, allche se intercettata, non avrebbe giovato in nulla alla polizia. Se questa indicazione ha valore, la lettera dovrebbe essere stata scritta fra gli anni 64 e 65.
659. A questa data corrispondono anche le condizioni generiche di Gerusalemme e della Palestina. Laggiù le cose andavano malissimo, e si era alla vera vigilia della grande guerra che scoppiò nel 66 e terminò nel 70 con la distruzione di Gerusalemme e dello Stato giudaico: c'era dappertutto aria di tempesta, e i cristiani della comunità locale presentivano distintamente che i più esposti all'imminente uragano sarebbero stati proprio essi. Già nel 62 avevano sofferto una persecuzione, in cui era stato ucciso Giacomo il «fratello» di Gesù (407); lo stesso anno al bravo Porcio Festo era succeduto come procuratore il pessimo Albino (62-64), di cui Flavio Giuseppe dice che «non vi fu alcun genere di malvagità ch'egli trascurasse»; ad Albino poi era sue ceduto Gessio Floro che, egualmente secondo Giuseppe, superò per malvagità lo stesso Albino, essendo venuto in Giudea con le disposizioni di «un boia inviato a giustiziare condannati». Frattanto fin dall'anno 62, si aggirava per le strade Gesù figlio di Anano, gridando incessantemente: Voce da Oriente! Voce da Occidente! Voce dai quattro venti! Voce su Gerusalemme e sul Tempio! Voce su sposi e su spose! Voce sul popolo tutto! ripeteva egli la tetra predizione di giorno e di notte, per tutte le stradicciuole ... e nelle festività gridava più che mai; e ripetendo ciò per sette anni e cinque mesi, non s'affiocò egli nella voce né si stancò (Flavio Giuseppe), nonostante le sanguinose pene a cui fu sottoposto. Nello stesso tempo gli Zeloti-Sicari infuriavano compiendo dovunque stragi e rapine, e l'anarchia si diffondeva sempre più in Gerusalemme e in tutta la regione.
Per conseguenza, nel 66, molti Giudei illustri, come gettandosi a nuoto da una nave che affondi, abbandonarono la città (Guerra giud., II, 556); alla loro volta, verso lo stesso tempo, i giudeo-cristiani di Gerusalemme, avvertiti da una comunicazione carismatica ricevuta dai loro capi, si trasferirono a Pella, città della Perea, e in tal modo la regale metropoli dei Giudei e tutta la regione della Giudea furono abbandonate dagli uomini santi. (=cristiani) (Eusebio, Hist, eccl.; III, 5, 3).

660. La nostra lettera fu indirizzata a questi cristiani certamente quando ancora non erano emigrati a Pella, ma anche quando le circostanze già rendevano durissima la loro vita specialmente, dentro Gerusalemme. D'altra parte, pur diventati cristiani, essi sentivano, sempre nelle proprie vene il sangue di Abramo, e non avevano affatto dimenticato di appartenere a quella nazione prediletta da Dio, che poteva vantarsi - come diceva Paolo stesso ­ di aver ricevuto l'adozione e la gloria ei patti e la legislazione e il culto e le promesse ecc. (Rom., 9, 4-5). Dunque, queste solenni prerogative sarebbero tutte svanite in nulla? Da ogni parte, è vero, venivano presagi di una catastrofe imminente: ma il Tempio stava ancora là ad attestare col suo grandioso culto l'indefettibile fedeltà: con cui Dio man teneva le sue promesse. Certamente l'annunziato Messia era già venuto, ed essi credevano in lui, Gesù: ma la sua venuta non avrebbe potuto abolire le antiche istituzioni dell'ebraismo, bensì le avrebbe confermate e corroborate, essendo insieme con lui venuti la pienezza dei tempi e il regno di Dio suDa: terra. Perciò quei giudeo-cristiani conservavano in mezzo ai tetri presagi e alle dure tribolazioni una loro speranza, ed aspettavano fra breve di vedere iniziata un'era in cui il Messia Gesù avrebbe fatto trionfare su tutta la terra la religione ebraica alquanto cristianizzata.
Queste erano - a parer nostro - le circostanze materiali e spirituali in cui si trovavano i destinatari della lettera agli Ebrei, la quale pèrciò fu scritta per ovviare a tali circostanze e per recare una parola di consolazione (13, 22). Eccone un breve sommario.
661. Il titolo con l'esordio, in cui Paolo abitualmente altrove si presenta come apostolo del Cristo Gesù ecc., manca in tutti i codici. Non è impossibile che sia andato perduto, ma è più probabile che non sia mai esistito. Alcuni antichi spiegarono questa mancanza supponendo che Paolo, apostolo particolare dei Gentili, ometta a bella posta questa sua qualità, perché qui egli si rivolge a Giudei; la spiegazione può apparire giusta, specialmente ripensando alle antiche divergenze ch'erano intercorse fra la comunità di Gerusalemme e Paolo nei riguardi del suo apostolato, e adesso in tempi così tristi non era davvero opportuno alludere neppure indirettamente a quelle divergenze: si noti infatti come la lettera presenti lo stesso Gesù quale apostolo... della confessione nostra (3, 1).
662. Contrapposizione fra il Cristo e gli angeli. - Iddio, avendo parlato in varie maniere ai patriarchi ebrei, ultimamente ha parlato per mezzo del Figlio suo. L'antica Legge era stata promulgata per mezzo degli angeli, ma il Figlio divino è superiore ad essi come è dimostrato da molti passi biblici. Se dunque il trasgredire l'antica Legge era mancamento grave, tanto più grave sarà trasgredire la parola del Cristo. Il Figlio divino, a cui fu assoggettata ogni cosa, fu transitoriamente umiliato nella sua passione e morte affinché operasse la salvezza degli uomini suoi fratelli; ma subito appresso fu costituito sommo sacerdote presso Dio per ottenere propiziazione ai peccati del popolo (Capp. 1-2).
663. Contrapposizione fra il Cristo e Mosè. - Fedeli ambedue al loro ufficio, il Cristo è superiore a Mosè perché nella casa di Dio il Cristo è Figlio e signore, mentre Mosè fu un servo. Se dunque coloro che anticamente indurarono nel deserto i loro cuori alla voce di Mosè furono esclusi dall'entrare nella terra promessa, a maggior ragione coloro che non ascolteranno la voce del Cristo. non entreranno nella requie di lui (Cap. 3-4, 13).
664. Contrapposizione fra il sacerdozio del Cristo e il sacerdozio ebraico. - Gesù, Figlio d'Iddio, è il sovreminente sommo sacerdote che penetrò nei cieli, per implorare misericordia in pro degli uomini di cui compatisce le debolezze; a questo ufficio egli fu chiamato da Dio, come Aronne, e fu eletto sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech. I destinatari della lettera difficilmente comprenderanno questo punto, perché sono ancora incapaci di dottrina sì alta, e si ritrovano inoltre nel pericolo di retrocedere tornando alle loro antiche idee; ma si rammentino che non è concessa penitenza a chi consciamente respinge la fede già ricevuta ricrocifiggendo per se stessi il Figlio d'Iddio ed esponendolo a ludibrio (6, 6). Tuttavia lo scrittore confida che essi supereranno la prova, memori delle promesse fatte da Dia ad Abramo. Il sacerdozio di Melchisedech è una prefigurazione del sacerdozio del Cristo: come Melchisedech è presentato dalla Scrittura superiore ad Abramo e a Levi, così il sacerdozio del Cristo è superiore a quello levitico ed egli è sacerdote in eterno (4, 14-7, 28).
665. Contrapposizione fra il sacrifizio del Nuovo Testamento e quella dell'Antico. - Il sacerdote Cristo, assiso nei cieli alla destra di Dio, offre il sacrifizio nel tabernacolo vero, fabbricato da Dio e non dall'uomo.. Il tabernacolo della Legge mosaica aveva due parti, nella prima delle quali potevano entrare ordinariamente i sacerdoti, mentre nella seconda entrava una volta all'anno il solo sommo sacerdote a effondervi il sangue dell'espiazione: ciò era una prefigurazione del futuro, perché il Cristo entrò realmente in virtù del proprio sangue nel tabernacolo non manufatto, operando la redenzione e stabilendo il Nuovo Testamento; cosicché mentre l'Antico Testamento fu ratificato col sangue degli animali immolati, il Nuovo fu ratificato dal sangue del testatore e del sommo sacerdote. Il sacrifizio di espiazione si rinnovava ogni anno nell'Antico Testamento, mentre nel Nuovo il Cristo offrì sé stesso una volta per sempre, perché nel primo caso si aveva un'efficacia limitata, mentre nel secondo si ebbe una virtù perfettiva infinita (Cap. 8-10, 18).
666. Esortazioni alla perseveranza. - I destinatari si mantengano fedeli alla giustizia operata dal Cristo, rammentandosi della punizione minacciata a chi divenga infedele; ripensino al loro primitivo fervore nel supportare le tribolazioni, e lo riaccendano adesso che la fine è vicina. Abbiano presenti i mirabili esempi di fede dati dai patriarchi, Abele, Henoch, Noè, Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Giosuè, i Giudici, e in genere dagli altri personaggi dell'Antico Testamento. Si rammentino soprattutto dell'esempio dato dall'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale invece del gaudio a lui proposto sopportò (la) croce, disprezzando l’ignominia, e siede alla destra del trono d'Iddio (12, 2). Resistano quindi alla prova del sangue, la quale li purificherà ed accrescerà la loro giustizia. Non imitino Esau nella sua stoltezza, né gli antichi Ebrei che rimasero atterriti alla voce di Dio dal Sinai: essi si trovano nella città del Dio vivente, più santa del Sinai (10, 19-12, 29).
Raccomandazioni varie. - Sono raccomandate la carità, l'ospitalità, la castità, la liberalità, l'obbedienza ai superiori. Non si lascino distornare da dottrine varie e peregrine, e si preoccupino della grazia e non degli inutili precetti riguardo ai cibi. Seguano l'esempio di Gesù, ucciso fuor della porta della città; escano appresso a lui portando il suo obbrobrio, perché non hanno quaggiù la città permanente ma aspettano la città futura.
Lo scrittore esorta a pregare per lui, affinché più presto (io) sia restituito a voi. Comunica che il fratello Timoteo è stato liberato, e se giungerà presto egli verrà insieme con lui a visitarli. Li salutano quelli dall’Italia (Cap. 13).

667. La seconda prigionia romana dovette prolungarsi alcuni mesi, fra il 66 e il 67. La persecuzione di Nerone ebbe la sua prima e principale sfuriata nel 64, subito dopo l'incendio di Roma, ma non si esaurì in quell'anno; essa aveva stabilito, almeno implicitamente, il precedente giuridico non licet esse christianos (Tertulliano, Apolog., IV, 3), e questo precedente poteva sempre essere applicato dalle autorità civili nel campo pratico quando le circostanze politiche o poliziesche lo richiedessero: ormai il nome di cristiano era un nome incriminato, giacché portava implicitamente con sé i flagitia cohaerentia nomini (Plinio il Giovane, ad Traianum, 2).
Nella scarsezza di notizie in cui ci troviamo possiamo congetturare che Paolo, ricercato dalla polizia imperiale fin dall'inizio della persecuzione e catturato nel 66, fosse sottoposto in Roma a un processo assai minuzioso, sia perché rappresentante insigne della religione perseguitata e cittadino romano, sia perché essendo tèrminato il periodo delle esecuzioni sommarie si procedeva adesso con metodo più accurato.
668. Un accenno a siffatto metodo, e insieme alla lunghezza del processo, sembra ritrovarsi in quelle parole di Paolo a Timoteo: Nella mia prima difesa nessuno mi fu a fianco... Tuttavia il Signore mi fu a fianco e mi confortò… e fui scampato dalla bocca del leone (§ 643). Già alcuni antichi, seguendo Eusebio (Hist. eccl., II, 22, 2-4), interpretarono questa prima difesa come riferita alla prima prigionia romana e il leone come un simbolo di Nerone allora imperante: è certo, invece, che la frase bocca del leone è una semplice citazione del Salmo 22 (Vulg. 21), 22, e allude genericamente a un gravissimo pericolo. Quanto alla prima difesa, non sembra che possa alludere alla prima prigionia romana, perché dopo quella prigionia Paolo già si era ritrovato a lungo con Timoteo (§ 635) e quindi gli aveva certamente parlato di quella prigionia e della sua liberazione: cosicché non c'era alcun bisogno che adesso gli comunicasse questa notizia. Invece questa prima difesa deve alludere a una precedente udienza di questo secondo processo, nella quale Paolo riuscì a difendersi abbastanza efficacemente da distornare l'immediata condanna per un complesso di circostanze che ci sfuggono; tuttavia egli stesso non si faceva illusioni, e capiva benissimo che, la condanna era soltanto ritardata ma, cambiate le circostanze, si sarebbe avuta ad una nuova udienza: Io già sono versato in libazione, e il tempo del mio scioglier (le vele) è imminente (§ 643).
Che il leone non sia individualmente Nerone, si comprende anche dal fatto che Nerone dallo scorcio del 66 agli inizi del 68 non fu in Roma, essendosi recato in Grecia per darvi il famigerato spettacolo delle sue buffonate eroiche. A questo proposito si è voluto scorgere un'allusione a questa assenza di Nerone da Roma in quelle parole di Clemente Romano (Corint., 5, 7) il quale dice che Paolo, dopo aver ammaestrato il mondo intero ad essere venuto ai confini dell'Occidente (§ 636), dette testimonianza sotto i governatori (***); codesti governatori sarebbero i rappresentanti di Nerone lasciati da lui a governare Roma, cioè il liberto Elio e il prefetto del Pretorio, Sabino, giacché Tigellino l'altro prefetto del Pretorio accompagnò Nerone in Grecia. Se fosse certa l'intenzione di Clemente di alludere a questi due governatori di Roma, avremmo un prezioso dato cronologico, perché nessuno era informato meglio di Clemente che scriveva sul posto e solo un trentennio dopo i fatti: ma bisogna dire che questa sua intenzione è lungi dall'esser certa. È infatti possibile, e forse più probabile, che egli alluda soltanto al noto passo evangelico ove Gesù ammonisce gli apostoli che saranno condotti davanti a re ed a governanti (***) a cagione di lui per rendere testimonianza (Matteo, 10, 18; cfr. Marco, 13,9; Luca, 21, 12; e anche 1 Pietro, 2, 14): perciò Clemente farebbe notare che Paolo eseguì in genere l'ordine di Gesù; ma non alluderebbe singolarmente ai due governatori di Roma durante l'assenza di Nerone.

669. Dopo la prima difesa la prigionia continuò fra previsioni sempre più tristi e in condizioni assai dure. Non era la mitigata custodia militaris della prima volta, bensì la custodia publica scontata nel carcere comune insieme con i delinquenti volgari (§ 561), che difficilmente ammetteva visite di parenti ed amici dei detenuti. Che questo carcere fosse il Tulliano, chiamato nel Medioevo «Carcere Mamertino», è affermato da una tradizione non attestata prima del sec. V e perciò, come dato positivo, di scarsissima autorità; tuttavia la sua designazione, astrattamente, non è impossibile (408).
La durezza di trattamento sofferta da Paolo questa volta appare indirettamente da alcuni accenni della II Timoteo: Onesiforo, venuto a Roma apposta per assisterlo, non lo ritrovò che con difficoltà dopo molte ricerche (ivi, I, 17); nel fredda della prigione sotterranea sarebbe stato comodo a Paolo di avere il mantello lasciato a Troade, e perciò egli chiese che gli fosse portato insieme con i libri e le pergamene di cui era privo (4, 13); desiderò avere presso di sé Marco, già pratico di Roma, per essere aiutato nel ministero ch'egli seguitava ad esplicare anche dal carcere, giacché il buon Onesiforo probabilmente era già ripartito e il solo Luca rimasto gli a fianco era insufficiente per i molti incarichi affidatigli dal prigioniero (4, 11); per la stessa ragione desiderò di avere a suo fianco Timoteo, facendogli urgenza di arrivare prima dell'inverno a causa delle tristi previsioni che aveva (4, 21). Tuttavia il denaro, largamente distribuito ai soldati di guardia da Luca e dagli altri fratelli, dovette far sì che anche altri discepoli potessero visitare di tempo in tempo l’amato prigioniero: fra costoro possono annoverarsi Eubulo, Pudente, Lino e Claudia, che per mezzo del prigioniero inviarono saluti (4, 21) e dovevano essere fra i più insigni membri della decimata e dispersa comunità romana.
Giunse Timoteo in tempo a Roma per consegnare all'amato vecchio il suo consunto mantello e le slavate pergamene? Non lo sappiamo.
670. Pochi mesi dopo questo suo ultimo scritto, le sue tristi previsioni meglio; le sue supreme speranze - s'avverarono. La seconda udienza del processo fu tenuta, e conforme alle previsioni si chiuse con la sentenza capitale.
Il giorno appresso, o in uno dei giorni immediatamente successivi, Paolo secondo l'uso romano fu avviato fuori della città per l'esecuzione pubblica della sentenza (409). Un centurione; un manipolo di pretoriani; in mezzo a loro il vecchio che si trascinava curvo ed incatenato; probabilmente, a fianco ai pretoriani, un numeroso e tripudiante gruppo di Giudei del Trastevere; forse, un poco più addietro, un esiguo e silenzioso gruppo di fratelli cristiani.
La sentenza di morte per un cittadino romano non poteva eseguirsi che con la decapitazione, ma questa doveva esser preceduta dalla flagellazione. Perciò, giunto il drappello sul posto dell'esecuzione, il prigioniero fu dapprima denudato; il suo magro ed ossuto corpo, legato ad un cippo, ricevette allora l'ultima delle sue molte flagellazioni, ma questa volta più spietata di tutte trattandosi di un exlex, di un uomo ripudiato per sempre dalla legge e dall'umanità intera.
Quel corpo sanguinolento fu poi incurvato, in maniera che protendesse il collo. Un ordine del centurione: un lampo della spada: un tonfo. La testa balzò poco distante; il corpo si afflosciò in un lago di sangue.
Grida sghignazzanti s'alzarono dal gruppo dei Giudei; una pace serena si diffuse sui visi dei fratelli cristiani.
Questa fu la morte di Paolo di Tarso, giudeo per sangue, cittadino romano per diritto, anticamente maestro della Legge mosaica per libera elezione, successivamente apostolo del Vangelo cristiano per superna vocazione. Ognuna di queste sue quattro prerogative fu rispecchiata nella sua morte.
671. Riguardo all'anno della morte le antiche attestazioni o sono vaghe o sono poco concordi.
Da Eusebio (Chronicon, l. II, Olympiad. 211; in Migne, Patr. Gr., 19, 544) si concluderebbe che Paolo morì nell'anno XIV di Nerone, ossia dal luglio 67 al giugno 68. Il XIV anno di Nerone è dato espressamente da Girolamo (De viris illustr., 5), il quale offre pure una conferma indiretta affermando che Seneca morì due anni prima di Paolo (ivi, 12): poiché Seneca morì nell'aprile del 65, troviamo di nuovo l'anno 67 che fu in parte il XIV di Nerone. Altre attestazioni isolate indicherebbero; invece, l'anno 66 o il 68.
Parecchi studiosi moderni preferiscono il 64; ma sono per lo più coloro che negano l'autenticità delle Lettere pastorali e insieme la realtà degli ultimi viaggi di Paolo in esse attestati, e non hanno perciò bisogno del necessario periodo di tempo a cui assegnare tali viaggi: essi, quindi, suppongono che Paolo cadesse subito vittima della persecuzione scatenata dopo l'incendio del 64. Noi invece, ritenendo autentiche le pastorali, troviamo che la successione degli ultimi viaggi, come l'abbiamo proposta sopra, concorda senza particolare difficoltà con l'anno 67 assegnato alla morte; il quale, del resto, è il meglio attestato dalle discordanti testimonianze antiche, e anche il preferito da molti studiosi moderni.
Nulla si sa riguardo al giorno della morte. Il 29 giugno, data entrata nella liturgia delle chiese occidentali, è convenzionale e dipende dai fatti a cui accenneremo qui appresso.
672. Quanto al posto del martirio, una tradizione costante attestata già dal sec. II la addita ad Aquas Salvias, un luogo a poco più di tre miglia da Roma sulla strada per Ardea, a sinistra e poco distante dalla via per Ostia. Questa tradizione uniforme, fondata su innumerevoli testimonianze di antichi scrittori e visitatori di Roma, risulta pienamente concorde con gli ultimi dati della vita di Paolo e con gli usi romani del tempo, e quindi non permette dubbi in proposito (410).
Subito dopo il martirio il corpo fu portato in un luogo più vicino a Roma, a poco più d'un miglia dalla città lungo la via Ostiense, ed ivi fu sepolto in un'area cemeteriale all'aperto, la quale è stata rimessa in luce recentemente offrendo colombari ben conservati. Questa tomba diventò subito oggetto di particolare venerazione per i cristiani romani e forestieri, e altrettanto avveniva contemporaneamente per la tomba dell'apostolo. Pietro.
Fino al sec. IV le due tombe non furono ricoperte con qualche costruzione notevole, ma furono contraddistinte dai cristiani in altra maniera; quale fosse questa maniera non siamo in grado di dire, ma certo si trattava di segni ben visibili e non privi di una certa solennità: ciò si ricava dalle parole del presbitero Gaio che, al principio del sec. III, rivolgendosi a Proclo eretico catafrigio dice: Io posso mostrare i trofei degli apostoli. Se infatti vorrai andare al Vaticano oppure sulla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che fondarono questa chiesa (romana) (in Eusebio, Hist. eccl., II, 25, 7). Il termine trofei (***), ripetuto due volte, poteva significare sia la vittoria ottenuta sul nemico sia le spoglie tolte al nemico e appese visibilmente su pali, secondo l'uso dei legionari romani, in segno di trionfo; ma è chiaro che, se qui Gaio invia il suo contraddittore al Vaticano e sulla via Ostiense, è sicuro che l'inviato s'imbatterà in segni palesi e ben visibili che ricordano i due vincitori e le rispettive vittorie: nel caso nostro questi trofei non possono essere che gli ignoti segni onorifici posti dai cristiani sulle due venerate tombe.

673. Nella seconda metà del sec. III avviene un fatto nuova, giacché si ritrova che in un luogo detto ad Catacumbas, sul terzo miglio della via Appia a circa un miglio più in là dal cemetero di Callisto, si è formato un centro di venerazione simultanea per Pietro e Paolo. Il fatto è spiegato oggi comunemente, ma non indubbiamente, con la supposizione che nell'anno 258 ambedue le salme fossero trasportate per ignote ragioni in detto luogo, ed ivi rimanessero per breve tempo; dopo di che sarebbero state riportate alle rispettive tombe primitive. Questo luogo di simultanea venerazione fu chiamato tardivamente Triclia apostolorum, e su di esso sorse all'epoca costantiniana la Basilica apostolorum (oggi S. Sebastiano); ivi un'iscrizione (latomia) dettata dal papa Damaso attestava:
Hic habitasse prius sanctos cognoscere debes
Nomina quisque Petri pariter Paulique requiris ... (411).
Numerosi graffiti eseguiti ivi da antichi pellegrini contengono invocazioni a Pietro e Paolo; poiché i graffiti sono sulla Triclia ed anteriori alla basilica costantiniana, dimostrano l'antichità della venerazione che si ebbe per quella Memoria apostolorum.
Una festa ad Catacumbas fissata al 29 giugno è attestata nel sec. IV dalla Depositio martyrum e più tardi dal Martirologio Geronimiano; confrontando le varie lezioni dei codici, si può supporre che il loro testò primitivo fosse: III Kal. Jul. Romae natale sanctorum apostolorum Petri in via Aurelia in Vaticano, pauli vero in via Ostiensi, utrumque in Catacumbas, Tusco et Basso consulibus. È il consolato del 258, sotto il quale si suppone avvenuta l'accennata traslazione. Questo giorno III Kal. Jul., ossia il 29 giugno, diventò poi convenzionalmente la data di martirio di ambedue gli apostoli nella liturgia occidentale, mentre nelle liturgie orientali la loro festa era celebrata a seconda dei luoghi il 28 o anche il 27 dicembre, ovvero il 29 giugno come in Occidente. È probabile che nel 258 a Roma si tenesse per la prima volta una celebrazione dei due apostoli in comune ad Catacumbas, indipendentemente dalla venerazione delle rispettive tombe al Vaticano e sull'Ostiense.
674. Costantino, dopo la sua vittoria, fece costruire sopra la primitiva tomba di Paolo all'Ostiense una basilica; la quale tuttavia fu di proporzioni assai modeste, perché l'intera costruzione era contenuta circa nello spazio fra l'abside e l'altare papale dell'odierna basilica: inoltre era orientata in senso inverso all'odierno, perché aveva l'ingresso sull'antico tracciato dell'Ostiense dove oggi è l'abside. Questa piccola basilica durò poco, e tutto ciò che oggi ne rimane è l'iscrizione apposta sulla tomba.
Nel 386 l'imperatore Valentiniano II demolì la basilica di Costantino, e sullo stesso posto ne costruì un'altra molto più ampia e orientata in senso inverso all'antico e conforme all'odierno. La costruzione fu continuata da Teodosio ed altri, fino a Galla Placidia,come attestano le iscrizioni, tuttora superstiti nell'arco trionfale. Dopo vari restauri ricevuti lungo i secoli, la basilica valentinianea andò distrutta nell'immane incendio del 1823; le poche parti superstiti furono poi incorporate nella successiva ricostruzione, che dette origine alla basilica odierna.
Nel centro di essa, attorno alla tomba di Paolo, stanno scolpite quelle sue parole che riassumono mirabilmente la vita di lui: Per me il vivere (è) Cristo, e il morire un guadagno (Filipp., I, 21).

***
Il visitatore che oggi si aggira nella silenziosa ed erma basilica, sfiora con i suoi occhi il lucido pavimento marmoreo in cui si riflettono le ben polite colonne, insegue in alto le ondate di archi, vaga curiosamente sui soffitti indorati e sui vetusti mosaici superstiti dall'incendio: ma gli occhi del suo spirito sono pieni di una sola visione. Essi contemplano la figura di Paolo, che s'è ritto dalla cintola in su fuori del suo sepolcro e col petto e colla fronte si presenta dominatore del tempo e dello spazio. Defunctus adhuc loquitur (Ebrei, 11, 4).
Prima di entrare nella basilica, a breve distanza da essa, il visitatore ha osservato una torre di acciaio destinata a lanciare giorno e notte negli spazi eterei i suoi messaggi d'impalpabile materia. Non era che un simbolo e un adombramento. Nell'interno della basilica sta ritta la millenaria torre più salda dell'acciaio, il morto tuttora vivo, che lancia incessantemente al mondo intero il suo messaggio di spirito.


I canoni fondamentali di questa carità, secondo Paolo, sono i seguenti: I singoli badino non alle cose proprie; ma i singoli anche a quelle degli altri (Filipp., 2, 4); Godere con i gaudenti, piangere con i piangenti (Rom., 12, 15); Noi potenti dobbiamo sopportare le debolezze degli impotenti, e non piacere a noi stessi, ciascuno di noi piaccia al prossimo nel bene per edificazione (Rom., 15, 1-2).
Dappertutto Paolo è amato ed incontra simpatia, non solo come apostolo ma anche come semplice uomo. Ad Efeso alcuni degli Asiarchi, sebbene pagani, gli sono amici e si preoccupano di salvarlo dal tumulto degli argentieri. Con tutta l'anima, poi, gli sono attaccati i neofiti di ogni comunità, da quelli della Galazia che sarebbero pronti a cavarsi gli occhi per lui a quelli di Corinto che piangono e s'affliggono per averlo disgustato; per rattristare fino alle lacrime i fedeli di una comunità basta che Paolo esprima la sua previsione di non rivederli più; come avviene a Mileto, e per rallegrarli nella sua lontananza basta che egli annunzi loro una sua prossima visita, come avviene con i Filippesi.
Ma se un uomo è amato è segno che già in precedenza egli ha saputo farsi amare, essendo questa la legge dell’amor che a nullo amato amar perdona (Inferno, 5, 103): perciò la simpatia che Paolo incontra dappertutto non è che la conseguenza dell'affetto dimostrato in precedenza da lui per gli altri. Indirizzandosi da lontano ai suoi neofiti egli, scrittore non raffinato, sa trovare espressioni di una tenerezza trasparente: dice di averli partoriti dal suo seno, di coccolarseli fra le braccia come una balia (Gal., 4, 19; I Tessal., 2, 7), di tenerli nel cuore e di anelare a tutti loro nelle viscere di Cristo Gesù (Filipp., I, 7-8), di aver riposto in essi la sua speranza, il suo gaudio, la sua corona di gloria (I Tessal., 2, 19-20). Tutte le loro vicende si ripercuotono in lui, e quando uno di essi si ammala anch'egli si ammala, quando un altro attraversa una crisi di spirito egli va addirittura a fuoco (2 Cor., 11, 29). E non sono soltanto parole: quando infatti avviene la crisi della comunità di Corinto, la quale minaccia di staccarsi da lui, egli va veramente a fuoco e passa mesi tormentosissimi a principio dell'anno 57; privo qual è di notizie, dapprima invia messaggi e messaggeri, poi non contenendosi più si muove egli stesso incontro al sospirato messaggero per abbreviare l'intollerabile attesa.
I vari sentimenti di un uomo così impressionabile e ardente si rispecchiano tutti nei suoi turbino si scritti. Improvvisamente egli passa dall'agitazione affannata alla calma fiduciosa, dallo sdegno minaccioso all'espansione amorevole, dall'ironia mordente all'esortazione accorata. Qui, egli sembra disfatto ed atterrato: ma eccolo, subito appresso, risollevarsi come dominatore su tutto e su tutti. Scrive fra molte lacrime e non si vergogna di confessarlo, ma non nasconde di avere anche una verga a portata di mano (1 Cor., 4, 21).
E queste tempeste avvenivano in un animo che non era davvero novellino al governo di se stesso e alla modérazione dei propri sentimenti. Da quando egli era nato al Cristo, un «uomo nuovo» era sorto e si era subito ingigantito in lui; ma l'«uomo vecchio» era tuttora rimasto, e fra i due si era scatenata una lotta senza quartiere e destinata a prolungarsi fino all'ultimo giorno della vita. Vi furono combattimenti interni, sensuali e spirituali (Rom., 7, 14 segg.); lo stratega che sorvegliava la lotta impose un lungo tirocinio per piegare l'ispida e rude natura ai dettami della Grazia: l’«uomo vecchio» andò bensì sempre più assottigliandosi a vantaggio dell'«uomo nuovo» e finì per essere praticamente asservito ai voleri di questo, ma totalmente debellato e soppresso l'«uomo vecchio» non fu giammai.
Senza dubbio, il Paolo sulla soglia della vecchiezza è notevolmente diverso dal Paolo convertito di fresco; psicologicamente è più levigato nelle sue scabrosità, e le molteplici: esperienze là hanno reso più flessibile, più plasmabile: ma, in ultima analisi, è il medesimo Paolo d'una volta. Piuttosto si direbbe che sia un Paolo raddoppiato, perché servito contemporaneamente dall'«uomo vecchio» e dall'«uomo nuovo», avendo questo soggiogato quello. Non sapete che i corridori nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? ...Io dunque corro in maniera tale da non (correre) all'incerto, da pugni in maniera tale da non batter l'aria, ma vesso il mio corpo e (lo) rendo schiavo affinché non avvenga che, avendo predicato ad altri, diventi (io) stesso riprovato (1 Cor., 9, 24…27).
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Fornito di queste doti morali Paolo divenne banditore del Vangelo. Come propagandista, ebbe vedute di ampiezza sconfinata, tali da suscitare titubanze o anche aperte riprovazioni in altri propagandisti, egualmente sinceri ma non altrettanto perspicaci. Mirare ai pagani incirconcisi, esclusi dal sacro recinto d'Israele, era per la massima parte dei primi cristiani palestinesi un'audacia sconveniente, quasi una profanazione; Paolo, invece, non solo mira ai pagani, ma scopre in essi la principale speranza del Vangelo, il particolare campo ove trionferà il Cristo. Anzi, va molto più in là: egli, già rabbino e zelante della Legge giudaica, asserisce l'incompatibilità della spirito nuovo con la lettera antica e propugna il netto distacco dell'uno dall'altra, non essendo più tempo di riporre il vino nuovo dentro otri vecchi. Il parto spirituale, per cui la Chiesa cristiana si staccò dalla Sinagoga giudaica, ebbe soprattutto in Paolo il sua maieutico.
Questo intransigente teorico si dimostra nel campo pratico un organizzatore ineguagliabile. Dissodatore senza posa, egli paga di persona lavorando per primo e trascinando dietro a sé gli altri col suo esempio; accentratore istintivo, dirige tutto da sé solo, vuol essere dappertutto, e dove non può arrivare in persona manda lettere o invia suoi rappresentanti.
La strategia della sua propaganda è disastrosa, la tattica è fallimentare. Egli non si preoccupa né di mezzi finanziari né di appoggi politici o d'altro genere; con le mani incallite dal telaio e ancora col grembiule da operaio addosso, egli rivolge la parola a proletari, a schiavi, al rifiuto della società, e dice loro cose che devono risonare come le più insensate di questo mondo. A Corinto, dove gli abitanti vivono immersi nella lussuria come i pesci nell'acqua, egli raccomanda non solo la castità matrimoniale ma perfino la verginità: inoltre, raccomanda siffatte cose non già per ragioni sociali a igieniche o filosofiche, ma adducendo unicamente per motiva l'ossequio al Cristo. Altrove, e dovunque, egli insegna che tanto vale un Giudeo quanto un Greco, e tanto vale un Greco quanto un Barbaro ed uno Scita: la quale era la maniera più sicura per sentirsi rispondere con insulti e dal Giudeo e dal Greco e dal Barbaro e dallo Scita, tutti insieme. Si potevano dare insegnamenti più ridicoli e più stolti di questi, e di altri dello stesso genere?
È da notare, poi, che Paolo è perfettamente consapevole della stoltezza dei suoi insegnamenti. Ma appunto da questa stoltezza egli trae la certezza della sua vittoria: egli è incrollabilmente certo che la stoltezza della croce trionferà sulla sapienza di questo mondo, perché tale sapienza è stoltezza davanti a Dio (I Cor., 3, 19). Il paradosso, dunque, è totale ed assoluto: tuttavia non è nuovo, perché è un'applicazione e una derivazione del paradosso contenuto nel Discorso della montagna. In virtù dei principii, enunciati in quel Discorso, Paolo è sicuro di vincere.
Forte di questa persuasione, egli ottiene frutti, più o meno abbondanti ovunque estenda la sua operosità. Quasi sterile è il tentativo da lui facto nel centro della sapienza umana, all’Areopago di Atene, ormai svuotato d'ogni vera sapienza; invece grandi successi a addirittura trionfi incontra egli altrove, sia tra rozzi montanari quali i Galati, sia tra cittadini immersi negli affari e nei vizi quali i Corinti e gli Efesi.
Ma prima del trionfo egli passa attraverso ostacoli d'ogni sorta: conosce carceri, esperimenta flagellazioni e lapidazioni, è travolto da insurrezioni popolari. Davanti a queste vicende egli non tiene affatto un contegno spavaldo né si mostra impassibile, al contrario le teme e le sente profondamente: nessun sollievo ebbe la nostra carne, bensì fummo tribolati in ogni (modo): al di fuori battaglie, al di dentro spaventi (2 Cor., 7, 5). Ma anche qui egli applica il suo paradosso divino; in tutte queste vicende egli, uomo fiacco, dovrebbe rimanere abbattuto, e invece la sua fiacchezza verrà supplita da una possanza esterna ed egli finirà per trionfare: perciò mi compiaccio nelle fiacchezze, negli insulti, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle distrette (sopportate) per Cristo; quando infatti sono fiacco, allora sono possente (2 Cor.,12, 10).

***
Fra i sommi amori di Paolo, subito dopo quello per il Cristo Gesù e intimamente ricollegato con esso, è l'amore ch'egli porta ai suoi connazionali Ebrei, i quali invece sempre e dovunque sono i suoi più implacabili nemici. Egli non solo non dimentica mai di essere Ebreo, ma piuttosto considera questa come la sua massima prerogativa umana, meno utile ma assai superiore a quella di essere cittadino romano. Di conseguenza egli ama i suoi connazionali alieni dal Cristo Gesù con un amore che, erompe dal sangue e dallo spirito, che è fatto di tenerezza e di rimpianto: la loro ostinatezza contro il Cristo gli arreca una tristezza grande e un dolore incessante nel cuore, e vorrebbe diventare egli stesso «anatema» e maledetto dal Cristo a vantaggio di loro, affinché si convertano (Rom., 9, 2-3).
Oltreché dagli Ebrei, egli è osteggiato anche da parecchi cristiani. La sua indiscutibile superiorità morale suscita inevitabilmente invidie, denigrazioni e calunnie: dal momento che, anche nel solo campo pratico, la sua vita tutta rinunzie e privazioni per il trionfo dal Vangelo non può essere eguagliata, si sofistica sulle sue azioni, si travisano le sue intenzioni, si scherniscono i suoi metodi. Nel suo animo, sensibilissimo per le amicizie, si ripercuotono intimamente anche queste inimicizie. Che egli taccia di fronte ai suoi avversari, non potrebbe aspettarsi né dal suo temperamento umano né da quello sovrumano, né dall’«uomo vecchio» né dall’«uomo nuovo»; perciò egli risponde con la foga vecchia ma arginata dalla coscienza nuova, e risponde nella maniera più equa e anche più efficace, cioè appellandosi ai fatti. Tre volte egli replica ai suoi avversari narrando la propria vita, passata e presente (I Cor., 4, 9 segg.; 2 Cor., 6, 3 segg.; 11, 22 segg.). La sua condotta, passata e presente, è questa ed è nota a tutti: chi può rimproverargli alcunché?
Con gli errori è intransigente, con gli erranti è longanime. Si rallegra: perfino dei cristiani suoi rivali, che sono diventati missionari a Roma per fargli dispetto (Filipp., 1, 18). Scomunica solo due volte: l'incestuoso di Corinto, affinché sia salvo nello spirito (I Cor., 5, 5), e coloro che naufragarono dalla fede (1 Timot., I, 19-20).
***
Paolo, in quanto apostolo, non è un ruscello che scaturisca da una sola fonte: è piuttosto l'apporto di varie scaturigini che profluiscono da luoghi differenti, mescolandosi poi insieme per formare un maestoso fiume.
In lui, prima di tutto, c'è l'uomo con le sue doti naturali; poi, cronologicamente, agisce su lui l'educazione familiare e rabbinica; a questo punto avviene il grande hiatus che distacca in due parti la sua vita, cioè la sua adesione al Cristo Gesù che opera una vera palingenesi spirituale; contemporaneamente alla conversione s'iniziano i grandi fatti mistici, che accompagnano e sviluppano sempre più la palingenesi; ai fatti mistici interni s'accompagna dall'esterno l'influenza della comune catechesi cristiana, dalla quale Paolo attinge largamente concetti per la sua nuova mentalità cristiana; si aggiunga infine la rielaborazione personale fatta da Paolo, riflettendo sui concetti pervenuti in lui sia dalla educazione giudaica, sia dalle esperienze mistiche, sia dalla catechesi cristiana. Tutti questi vari fattori, che si sovrappongono progressivamente in Paolo, formano l'apostolo.
Prima della sua conversione - stando a quanto possiamo intravedere - Paolo doveva avere una mentalità, essenzialmente dialettica: posti taluni principii, egli andava fino in fondo traendone logicamente le ultime conseguenze. Dopo la sua conversione egli continua ad essere un dialettico, ma si mostra anche un intuitivo; da quando diventa un mistico, egli applica anche alle sue esperienze mistiche i procedimenti di, raziocinio e di sviluppo concettuale. Nella contemplazione egli afferra le grandi idee basilari, e se le immedesima: ma poi con la riflessione meditativa le approfondisce sempre più, le dilata nella conoscenza speculativa e poi le trasporta nella vita pratica.
La sua contemplazione s'inabissa in Dio, come la sua speculazione si estende all'universo intero. Il poeta cristiano, dopo aver contemplato la Divinità, esclama esterrefatto:
O abbondante grazia, ond'io presunsi
Ficcar lo viso per la luce eterna
Tanto, che la veduta vi consunsi!
(Paradiso, 33, 82-84).
Un'esclamazione analoga ha Paolo che, dopo avere speculato su una misteriosa disposizione della Provvidenza, quasi accecato si ripiega su se stesso mormorando: O abisso di ricchezza e di sapienza e di scienza di Dio! Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie!... Da lui e per lui e verso lui, tutte le cose: a lui la gloria nei secoli! Amen. (Rom., 11, 33... 36).
Ma questo audace esploratore della Divinità, questo gigante che ha la testa immersa nella luce celestiale, ha pure i piedi piantati saldamente sulla terra, e soprattutto ha un cuore umano in cui si ripercuote la vita dell'umanità intera. Egli quindi abborda con la sua solita audacia i problemi più grandiosi riguardanti l'umanità, e li risolve con padronanza personale. Che è l'uomo? Donde viene? Dove va? Perché tanti dolori attorno e dentro all'uomo? Potrà l'uomo liberarsene da sé solo? Ha l'uomo bisogno di un liberatore? È venuto Iddio incontro all'uomo? Che accadrà un giorno dell'uomo e dell'universo intero?
Su questi e analoghi problemi Paolo meditò forse già nel suo periodo rabbinico, ma indubbiamente essi diventarono l'argomento perenne delle sue meditazioni nel periodo cristiano. Le sue conclusioni ci sono state comunicate solo in parte ed occasionalmente, e da quel poco ch'egli ci dice nessuno pretenderà d'esplorare a fondo la sua mente e di riassumere tutto il suo pensiero.
Del resto egli pure considerava se stesso, sotto l’aspetto spirituale, come in un continuo fieri, rassomigliandosi ad un corridore dello stadio che si avvicini continuamente alla meta non avendola ancora raggiunta. Già inoltrato negli anni, nel 62, egli poteva.ancora scrivere: Non che io abbia già toccato (la meta) o abbia già raggiunto la perfezione, ma corro per cercar di ghermire come pure fui ghermito da Cristo Gesù. Fratelli, non mi reputo di aver ghermito, ma (bado) a una cosa soia: dimenticando tutte le cose dietro a me e protendendomi verso quelle davanti, corro alla meta verso il premio... (Filipp., 3, 12-14). Mentre prima della sua conversione Paolo correva allontanandosi sempre più dal Cristo, dopo la conversione. non fa che correre verso di lui: si è già incontrato con lui là a Damasco, e ne è stato misteriosamente ghermito; ma egli, Paolo, non è riuscito a ghermire lui, il Cristo, almeno totalmente e stabilmente. Molte altre volte, è vero, egli ha avuto col Cristo arcane comunicazioni, ma queste sono di tal natura da acuire sempre più il desiderio del possesso totale e stabile. Eppure il Cristo, che ogni tanto gli si para davanti nella via della vita come già nella via di Damasco, sembra ritrarsi progressivamente da lui; cosicché egli è costretto a proseguire ed accelerare la sua corsa, fino a che un giorno lo ghermirà. Quando verrà quel giorno? Esser con Cristo è di gran lunga meglio (Filipp., I, 23).
Tutta la vita di Paolo dopo la sua conversione non è che una corsa verso il Cristo: per me il vivere (è) Cristo (Filipp., I, 21); vivo ma non più io, vive invece in me Cristo (Gal., 2, 20). Ma, in realtà, questa corsa è guidata e sorretta dal Cristo stesso che interviene frequentemente in maniera diretta. Riguardo alle sue esperienze mistiche Paolo prova quasi un senso di spirituale pudore, e quindi ne parla poco e a malincuore; ma non c'è dubbio che esse furono frequenti e potentissime. Del resto, anche psicologicamente parlando, sarebbe stato del tutto impossibile sopportare per un trentennio la vita spaventosamente dura sopportata da Paolo, se un quid eccezionale non lo avesse sorretto e non avesse mantenuto sempre ardente il suo entusiasmo, pur tenendolo lontano dalle intemperanze dei fanatici esaltati. La vita di Paolo, segreta e pubblica, affonda le sue radici nei carismi e nelle esperienze mistiche di lui: senza di che, non si spiega.
Dei carismi ordinari nel cristianesimo primitivo Paolo era fornito in misura più ampia dei suoi neon ti (I Cor., 14, 18); ma, oltre a ciò, era assistito da continue visioni e rivelazioni. Se nel rapimento al terzo cielo egli ascolta detti indicibili che nessun labbro umano può ripetere (2 Cor., 12, 4), in altri casi riceve mediante queste arcane comunicazioni precisi ordini sulla condotta da seguire (Gal., 2, 2; Atti, 16,6.7.9; 18,9; 20, 2-3; 22, 17). Egualmente per via mistica gli vengono comunicati fatti della vita mortale di Gesù, che hanno importanza fondamentale per la fede e la liturgia delle sue comunità (1 Cor., 11, 23); forse anche ne riceve norme per la vita morale dei neofiti (cfr. 1 Cor., 7, 10. 12): ad ogni modo tutto il suo particolare vangelo egli non l'ha appreso da uomini ma mediante rivelazione di Gesù Cristo (Gal., 1, 11).
Anche i concetti acquisiti da Paolo per queste arcane vie entravano nel lavorio della sua riflessione raziocinante, ed egli ne ricavava ampie visioni delle vicende dell'umanità in relazione ai disegni di Dio. Così egli è in grado di parlare della sua intelligenza nel mistero del Cristo, il quale (mistero) in altre generazioni non fu, notificato ai figli degli uomini come adesso fu rivelato ai santi apostoli di lui ed ai profeti in spirito; ebbene, a lui minimo fra tutti i cristiani, fu data questa grazia; di evangelizzare alle genti l'imperscrutabile ricchezza del Cristo, e di schiarire a tutti quale (sia) l'economia del mistero occultato dai secoli in Dio ecc. (Efes., 3, 4 .... 9; cfr. Coloss., 1, 26). Si trasportino questi concetti nel campo storico applicandoli alle grandi vicende dell'umanità intera, e si avranno ampie sintesi storiche sul tipo di quella contenuta nella lettera ai Romani.
Questa visione dell'umanità è così ampia, e la vetta da cui Paolo sta a contemplare è tanto èccelsa, da non poter essere annebbiata dai vapori che si sprigionano dalla bassa palude politica: Egli ignora la politica umana. La nostra cittadinanza sta nei cieli (Filipp., 1, 20), non già sulla terra. È vero che sulla terra c'è chi comanda in tono divino e si attribuisce i titoli di Dio e di Signore, come se li attribuisce quel sovrano che dal Palatino di Roma comanda su quasi tutto il mondo; ma su chi comanda costui? tutt'al più sul mondo della materia, non già su quello dello spirito. di cui solo si occupa Paolo. Giacché, sebbene ci siano (di quelli) chiamati Dei sia in cielo sia sulla terra, come vi sono molti Dei e molti Signori, tuttavia per noi (c’è) un solo Dio, il Padre, dal quale (sono) tutte le cose e noi (siamo) per lui, e (c’è) un solo Signore Gesù Cristo, mediante il quale (sono) tutte le cose e noi (siamo) mediante lui (I Cor., 8, 5-6).
Non farà meraviglia di ritrovare, in un contemplativo e raziocinatore di questo genere, la più netta opposizione all'idea idolatrica: quale consenso, infatti, potrebbe esistere fra Cristo e Beliar, fra il tempio di Dio e l'idolo (2 Cor., 6, 15-16)? Ma Paolo si preoccupa di evitare anche le parvenze di analogia con pratiche idolatriche, affinché il rito cristiano non sia offuscato neppure da queste false apparenze. Gli adepti delle religioni pagane di mistero compiono i loro tenebrosi riti in segreto, ma le cose fatte da loro in segreto è turpe anche dirle (Efes., 5, 12); i cristiani, invece, agiscono in piena luce, perché la luce è ciò che confonde le tenebre. E anche nella manifestazione dei loro carismi, i cristiani si astengano. da eccessi (I Cor., 14, 23-24), per non rassomigliarsi neppure esteriormente a quei pagani che in stato di esaltazione mantica infuriano nei tempi i pagani, o agli adepti dei misteri pagani che sono invasi da frenesia durante i loro riti.
Pur assorbito nella sua visione cristiana, Paolo non è un fanatico intollerante. Egli riconosce che possano darsi cose belle, decorose, oneste, le quali non dipendano direttamente dai suoi principii: e a tali cose egli fa buona accoglienza, sicuro qual è che pure esse finiranno per inquadrarsi nella sua visione e contribuiranno al trionfo della sua idea. Del resto, fratelli, quante cose sono vere, quante decorose, quante giuste, quante oneste, quante amabili, quante rinomate, qualsiasi virtù, qualsiasi laude, a queste ripensate (Filipp., 4, 8). Se per coloro che amano Iddio tutte le cose cooperano al bene (Rom., 8, 28), comprese le cose avverse, quanto più coopereranno al bene le cose decorose e giuste?
Al centro della visione di Paolo sta il Cristo Gesù.
Nel nome di Gesù piegano le ginocchia tutti gli esseri dell'universo, sia i celestiali, sia i terrestri, sia i sotterranei (Filipp., 2; 10), corrispondenti alle tre parti in cui gli Ebrei dividevano l'universo (412). Egli è immagine d'Iddio l'invisibile, primogenito di ogni creatura, perché in lui furono create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, le visibili e le invisibili, sia Troni, sia Dominazioni, sia Principati, sia Potestà: tutte le cose mediante lui e per lui sono state create. Ed egli è prima di tutte le cose, e tutte le cose in lui sussistono (Coloss., I, 15-17). Dunque nel Cristo l'universo intero, celestiale e terrestre, è riassommato e ricapitolato (***: Efes., 1, 10).
Nel suo profondo vidi che s'interna,
Legato con amore in un volume,
Ciò che per l'universo si squaderna
(Paradiso, 33, 85-87).
Il Cristo Gesù, che ricapitola l'universo, è un vero uomo: è nato di donna e discendente di David (Gal., 4, 4; Rom., I, 3). Ma, sebbene tale, egli è il contrapposto di Adamo primo uomo, e si presenta come novello Adamo che capovolge la situazione lasciata dal primo.
In primo luogo vi è la differenza intrinseca fra i due Adami. Sta scritto: «Divenne il primo uomo, Adamo, psiche vivente»; l'ultimo Adamo (divenne) pneuma vivificante ... Il primo uomo, (fatto) dalla terra, (è) cretaceo; il secondo uomo (è) dal cielo, ossia la sua persona proviene dal cielo (I Cor., 15, 45-47). Vi è poi la differenza di opere. Il primo Adamo, infatti, cagionò condanna a morte ai suoi discendenti; il novello Adamo, invece, apporta giustificazione e resurrezione (I Cor., 15, 20-21. 45-49; Rom., 5, 12-21).
Nel peccato del primo Adamo tutti i discendenti di lui peccarono, e perciò furono sottoposti come lui alla morte (Rom., 5, 12): e questa decadenza non travolse soltanto l'umanità, ma si riversò anche sul resto del creato, giacché tutto il creato manda insieme gemiti ed è insieme in doglie di parto fino ad ora; e non solo (esso), ma pure (noi) medesimi che abbiamo le primizie dello Spirito, pure noi medesimi in (noi) stessi gemiamo) sospirando l'adozione filiale, il riscatto del nostro corpo (ivi, 8, 22-23). Essendo infatti decaduto l'uomo, re del creato, anche il creato risente di questa decadenza, e anela alla restaurazione del suo regale padrone. Ma il novello Adamo, operando inversamente all'antico Adamo, ha riconciliato Dio con l'umanità, offrendo se stesso sulla croce in espiazione della colpa commessa dall'antico Adamo; Dio accettò la sua espiazione, e si compiacque… mediante lui di riconciliare tutte le cose in lui, pacificando mediante il sangue della croce di lui, mediante lui, sia le cose sulla terra sia le cose nei cieli (Coloss., I, 19-20).
La morte redentrice del Cristo ha esteso i suoi effetti indistintamente su tutta l'umanità, tanto sui Giudei quanto sui Gentili di qualsiasi stirpe, abbattendo il muro di separazione che si ergeva fra questi due gruppi dell'umanità, ossia l'odio scambievole occasionato dalla Legge giudaica (Efes., 2, 14-15); questa Legge, che rappresentava il chirografo di condanna, fu lacerata e inchiodata sulla croce del Cristo (Coloss., 2, 14). Inoltre gli ,effetti della redenzione del Cristo si estesero anche agli invisibili esseri spirituali avversi all'umanità, perché Dio, spogliati i Principati e le Potestà, fece pubblica mostra trionfando di loro in essa (croce) (Coloss., 2, 15).
Il Cristo, che ri-capitola (***) l'universo, è anche il capo (***) della Chiesa, la quale a sua volta è il corpo di lui (Efes., I, 22-23; cfr. Coloss., I; 18). Dunque il Cristo, insieme con la Chiesa, costituisce un corpo mistico composto di capo e di membra inferiori: queste varie membra sono i fedeli, ognuno con la sua funzione specifica come avviene per le membra del corpo umano, ma tutti unificati e compaginati sotto il capo Cristo in virtù della carità (Efes., 4, 15-16; 5, 30; I Cor., 12, 12 segg.).
Questa carità, unificante e compaginante le membra, è effetto dello Spirito: un solo corpo e un solo Spirito (Efes., 4, 4), come pure un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti (ivi, 5-6). Lo Spirito fu inviato da Dio Padre ed è lo Spirito del Figlio suo; esso fu inviato nel cuore dei fedeli affinché ricevessero l'adozione filiale riguardo a Dio Padre; perciò dall'interno di quei cuori lo Spirito grida verso Dio: «Abba! (ossia) Padre!» (Gal., 4, 5-6; Rom., 8, 14-16).
La strettissima unione fra capo e membra fa sì che siano comuni le vicende dell'uno e delle altre: ciò che avviene nel capo che è Cristo, avviene anche nelle sue membra che sono i fedeli. Come il Cristo morì, fu sepolto, risuscitò nuovamente vivificato, ed ereditò il regno dal Padre, così i fedeli sono con-morti con lui, e con-sepolti nel battesimo, e con-resuscitati e con-vivificati, e co-eredi, e con-corporati, e con-partecipi; i quali concetti, di azioni fatte insieme con Cristo, sono espressi mediante una ventina di termini greci differenti; formati sempre in composizione con la particella con (***).
Questi comunione fra capo e membra trova la sua più chiara espressione e nello stesso tempo la più completa attuazione nell'Eucaristia. La dottrina circa questo rito, trasmessa da Paolo ai suoi neofiti, egli l'ha personalmente ricevuta dal Signore (I Cor., 11, 23), certo quale conferma ed approfondimento di quanto già ne sapeva dalla comune catechesi. Nell'Eucaristia, istituita da Gesù la notte in cui fu tradito e che precedette la sua morte, i fedeli mangiano il corpo e bevono il sangue del Signore, ed annunziano mediante questo rito la morte del Signore fino a che egli venga nella sua parusia gloriosa (ivi, 26). Il rito fa entrare il fedele in comune unione con Cristo, di modo che chi mangi il pane o beva il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (ivi, 27). E questa comune unione non è soltanto fra capo e membra, ossia fra Cristo e fedeli; ma anche fra le membra stesse, le quali in virtù del rito sono compaginate fra loro e ricollegate col capo: Il calice di benedizione che benediciamo non è farse comunanza del sangue del Cristo? Il pane che spezziamo non è forse comunanza del corpo del Cristo? Poiché (c'è) un unico pane, siamo un unico corpo (pur essendo) molti: tutti, infatti, dell'unico pane partecipiamo. (I Cor., 10, 16-18) .
Conseguenza dell'unione dei fedeli nel corpo mistico del Cristo è la nuova vita infusa in essi dallo Spirito del Cristo, iniziata col battesimo e alimentata dall'Eucaristia. La vita della carne, che per gli uomini non uniti al Cristo riassume tutta la loro esistenza, diviene un fatto quasi accidentale per i fedeli inseriti nel corpo mistico del Cristo. Voi non siete nella carne ma nello spirito, se pur lo Spirito di Dio abita in voi; se poi alcuno non ha lo Spirito di Cristo, questi non è di lui. Se invece Cristo è in voi, il corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito (è) vita a causa della giustizia (Rom., 8, 9-10). Né questa vita infusa dallo Spirito investe soltanto l'anima del fedele, ma si estende anche al suo corpo materiale, che perciò viene inserito nel corpo mistico del Cristo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prendendo dunque le membra del Cristo, (le) farò membra d'una prostituta? Giammai! O non sapete che chi si congiunge con la prostituta è un solo corpo?… Chi invece si congiunge col Signore è un solo spirito... O non sapete che il vostra corpo è tempio del santo Spirito il quale (è) in voi, il quale avete (ricevuto) da Dio, e (che voi) non siete di voi stessi? (I Cor., 6, 15 ... 19). Ma tutto ciò non è che una conseguenza del mutuo scambio di vita fra capo e membra, un effetto spontaneo della spirituale simbiosi fra il Cristo ei fedeli inseriti in lui: Un solo morì in pro di tutti: dunque tutti morirono. E in pro di tutti morì, affinché i viventi non vivono più per se stessi ma per colui che in pro di essi morì e risorse (2 Cor., 5, 14-15).
Del resto Paolo dovette intravedere l'idea di questo scambio di vita, ha capo e membra fin dal giorno della sua conversione. Caduto a terra all'apparizione sulla via di Damasco, e avendo domandato all'apparso chi fosse, si sentì rispondere: Io sono Gesù che tu perseguiti. Ma era vero ciò? Non sembrerebbe, perché Paolo stava perseguitando quegli eretici di cristiani che andavano appresso allo spettro d'un morto, ma non perseguitava in alcuna maniera il morto, che essendo tale non lo interessava punto. Sennonché, dalle parole dell'apparso, Paolo dovette comprendere che perseguitando i cristiani egli perseguitava Gesù stesso, perché l'uno e gli altri costituivano un quid unum, come il capo e le membra costituiscono un solo corpo. Lo confessò più tardi egli stesso esclamando: Non sono degno di esser chiamato apostolo, perché perseguitai la Chiesa d'Iddio (I Cor., 15, 9). È vero: perseguitando Gesù, egli aveva perseguitato il suo corpo mistico, ossia la Chiesa d'Iddio.
La Chiesa è per Paolo il regno di Dio nel suo primo periodo, che è di espansione e di lotta, e al quale seguirà il secondo periodo, che sarà di trionfo palese. Quando egli è prigioniero la prima volta a Roma, e sebbene incatenato lavora intensamente a diffondere la Buona Novella, nomina alcuni discepoli provenienti dal giudaismo rimastigli a fianco, e che sono i soli collaboratori per il regno d'Iddio (Coloss., 4, 11): costoro, collaborando per la diffusione della Chiesa, collaboravano per il regno di Dio. Altri, in Roma stessa, avevano fatto consistere l'essenza del Vangelo nell'astenersi da particolari cibi e bevande; ma Paolo aveva ammonito che il regno d'Iddio non è cibo e bevanda, ma giustizia e pace e gaudio in Spirito santo (Rom., 14, 17): dunque il regno di Dio corrispondeva a quella effettiva vita cristiana che egli raccomandava nelle comunità da lui fondate, cioè corrispondeva alla Chiesa vivente. Difatti questo regno di Dio non si fonda su cavillosi o mirabolanti sproloqui, ma sulla pratica efficace e possente: Non nel discorso (consiste) il regno d'Iddio, ma nella possanza (I Cor., 4, 20), e questi appunto sono gl'insegnamenti nel Cristo, conforme a cioè che insegno dovunque in ogni chiesa (ivi, 17), mirando ad espandere il regno di Dio sulla terra.
Questa espansione, che occupa il primo periodo del regno di Dio, sarà lunghissima. Essa mostrerà nei secoli venturi la sovrabbondante ricchezza della grazia (Efes., 2, 7); i secoli venturi vedranno entrare nel regno di Dio la pienezza dei gentili, dopo di che si convertirà al Cristo Gesù anche il popolo d'Israele fino allora ostinato (Rom., 11, 25-26; cfr. 11, 14). Tutti questi fatti, evidentemente, si sarebbero avverati in un futuro assai remoto secondo il pensiero di Paolo, perché ai suoi tempi la conversione dei Gentili era appena iniziata e il popolo d'Israele diventava sempre più ostinato contro il Cristo Gesù. Inoltre, egli prevede che l'espansione del regno di Dio sarà contrastatissima: come gli araldi di questo regno saranno osteggiati in ogni maniera dagli uomini (2 Cor., 6, 4 segg.), così tutti i suoi sudditi in genere avranno da lottare contro potenze spirituali avverse (Efes., 6, 12).
Ma il Cristo trionferà di tutti i suoi nemici, e allora avverrà il passaggio dal primo al secondo periodo del regno di Dio, dal periodo della lotta a quello del trionfo. Nel giorno della parusia gloriosa del Cristo, trionfando egli ch'è il capo della Chiesa, trionferà anche questa ch'è il corpo mistico collegato indissolubilmente con quel capo. Nella resurrezione finale, la primizia (sarà) Cristo; poi (risorgeranno) quei del Cristo, alla sua parusia: allora, (sarà) la fine, quando egli consegnerà il regno al Dio e Padre, quando. avrà prostrato ogni Principato e ogni Potestà e Virtù (avversi al regno di lui). È necessario, infatti, ch'egli regni, fina a che ponga tutti i nemici, sotto i suoi piedi. Ultimo nemico è prostrato la Morte (1 Cor., 15, 23-26). Il regno che il Cristo in questa drammatica scena consegna al Dio e Padre suo è, la Chiesa, ch'egli ama come sua sposa (Efes. 5, 25-29); la quale avendo con-patito insieme con lui è adesso con-glorificata insieme con lui, ed è perciò co-erede di Cristo (Rom., 8, 17) nel giorno del suo trionfo. In quel giorno il Cristo mostrerà palesemente di avere ricapitolato in se stesso l'universo intero, celestiale e terrestre (Efes., 1, 10), riportandolo e consegnandolo al Padre.
Quando sarà che spunti quel giorno, quando sarà che si mostri la parusia gloriosa del Cristo accompagnata dai successivi fatti, Paolo afferma costantemente di non saperlo. Egli bensì anela ansiosamente a quel giorno, e lo ritiene possibile in ogni tempo, ma non sa se questo tempo sia vicino o lontano. La sua ansia amorosa divenne forse in lui anche una personale speranza, come in molti cristiani primitivi? Non ci risulta: al contrario ci risulta ch'egli s'adoperò per raffrenare nei Tessalonicesi la loro febbrile attesa della parusia. Ma la tensione amorosa di Paolo verso il giorno del Signore andò man mano distendendosi, ed egli contemplò quel giorno sempre più dal punto di vista della Chiesa perenne e sempre meno da quello della propria esistenza fugace. L'ansia però rimase sempre intensa come a principio, perché in realtà quel giorno rappresentava lo scopo ultimo della sua esistenza, la suprema vetta da cui egli avrebbe spiccato il volo verso Dio. Pochi mesi prima di morire, riassumendo tutta la sua vita, egli afferma di aver combattuto il buon combattimento e di aver terminato la sua corsa: oramai non gli resta che di ricevere la corona destinata all'atleta vincitore, la quale gli sarà consegnata dal Signore in quel giorno (2 Tim., 4, 8).
La fede in quel giorno, ossia la fede nell'invisibile preferito al visibile, è il segreto di Paolo (2 Cor., 4, 18); ma è anche il segreto del cristianesimo.
***
In conclusione, che cosa è Paolo?
Guardato come figura completa, egli non è tipicamente né un mistico, né uno speculativo, né un missionario, né un organizzatore, né un asceta, né un pastore d'anime: in nessuna di queste categorie egli può essere racchiuso totalmente ed esclusivamente, ma le stesse categorie si ritrovano in lui riunite tutte in una vita concreta.
Egli è un mistico come Caterina da Siena, che mostra tante analogie con lui, ma nello stesso tempo è uno speculativo come Tommaso d'Aquino, chè commenta con acume insuperato la lettera ai Romani; è inoltre un missionario di regioni nuove al cristianesimo come Francesco Saverio, ma è anche un organizzatore nell'interno della Chiesa come Carlo Borromeo; è un asceta individuale come Tommaso da Kempis, ma non tralascia di essere un pastore collettivo d'anime come Filippo Neri. Che cosa non è egli? E in quante maniere i posteri non interpretarono taluni suoi atteggiamenti? Quando appunto Filippo Neri accendeva la sua quotidiana lampada davanti all'effigie del Savonarola, non avrà egli troppo candidamente creduto che il frate di S. Marco avesse imitato l'atteggiamento di Paolo di fronte a Pietro in Antiochia? E quando Girolamo esprimeva in maniera così rude i suoi dissensi da Ambrogio, da Agostino e da altri, non avrà creduto anch’egli d'imitare l'atteggiamento di Paolo di fronte a Barnaba?
In realtà Paolo è un uomo dall'anima multiforme, e in ciascuna forma dell'anima sua egli rispecchia - come fa il prisma in ciascuna delle sue sfaccettature - la sua grande idea del Cristo Gesù. Egli è un uomo che ha riassunto in sé molti uomini mettendoli tutti al servizio del Cristo.
Gli studiosi d'oggi, quasi sempre soltanto cerebralisti, investigano soprattutto il Paolo teorico e ricercano le idee astratte di lui. Non è, forse, né il più né il meglio. Il cristianesimo, in ogni tempo, ha conquistato gli uomini non soltanto mediante idee astratte - come potrebbe fare un qualsiasi sistema filosofico - ma soprattutto mediante vite concrete: queste hanno fatto risplendere nella realtà pratica le idee fondamentali del cristianesimo che hanno conquistato gli uomini.
Gli spiriti magni che più influirono nella diffusione del cristianesimo, specialmente in epoche critiche, insegnarono non tanto con la teoria quanto con la pratica. Benedetto da Norcia mise in scritto poche idee astratte; ma poi le portò nella pratica egli stesso, e così trascinò col suo esempio innumerevoli turbe in ogni secolo e in ogni regione. Francesco d'Assisi scrisse anche meno; ma anch'egli fece risplendere le sue idee dal proprio esempio pratico, e il risultato fu che le sue scarne spalle sostennero l'edificio della Chiesa che crollava. Per rimanere nella sola Italia, in epoche egualmente decisive Filippo Neri e Giovanni Bosco scrissero pochissimo con la penna, ma scrissero moltissimo con i fatti incidendo le loro idee negli animi umani. Prima di costoro Paolo fece lo stesso, perché scrisse pochissimo in confronto al moltissimo ch'egli operò in tutta la sua vita. Ma, anche in questo, Paolo e tutti gli altri posteriori a lui furono imitatori di Gesù, il quale non lasciò nulla di scritto e - come dice con ponderata graduazione il sottile Luca - cominciò a fare e ad insegnare (Atti, I, 1). Per il Cristo, come per i suoi seguaci, gli insegnamenti sono in primo luogo le opere.
L'unico vero libro composto da Paolo è dunque la sua vita, nel quale libro le pagine sono le opere da lui compiute, e di tratto in tratto fra queste pagine si trovano alcune note delucidative che sono le lettere. L'argomento di tutto il libro è designato dalle stesse parole di lui: Siate imitatori di me, come anch'io di Cristo (I Cor., 11, 1); perciò il libro recherà il titolo classico De imitatione Christi; tuttavia al nome del solito autore, Tommaso Hemerken da Kempis, dovrà sostituirsi l'altro con cui cominciano le comuni edizioni delle lettere di Paolo Paolo, schiavo di Cristo Gesù (Rom., 1, 1).

(www.preghiereagesuemaria.it)


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